Imm’ Expo. Studio ed esposizione / Ad una certa ora del mattino

Come i lettori di doppiozero sanno Imm’ è una collana editoriale che si occupa dell’immagine in tutte le sue accezioni e ambiti (arti, cinema, fotografia, filosofia...), partendo dal presupposto che occuparsi di immagine non vuol dire soltanto prenderla ad oggetto del proprio studio e operare, ma che questo comporta anche di adattare ad essa i propri strumenti e argomenti, il proprio pensiero. Ogni volume è composto da contributi di diversi autori di diverse discipline, ordinati, ovvero “montati”, dalla regia dei curatori Elio Grazioli e Riccardo Panattoni. La singolarità della collana consiste in particolare nel progetto di legare ogni volume al seguente in un percorso che non si interrompe e cresce su se stesso, intrecciando di mano in mano questioni teoriche a motivi di attualità. Così dal “not straight” del primo volume, che indagava il rapporto tra “documento, piega e inganno”, secondo l’ottica del “non diretto”, come indica il titolo, della non presunta oggettività della registrazione, si è passati nel secondo volume alla “sovrapposizione”, modalità complessa e pur peculiare dell’immagine del rapporto non solo tra due o più immagini ma anche dell’immagine in se stessa, dunque per “memoria, trasparenze e accostamenti”. Il terzo volume, in uscita nel prossimo febbraio, riguarderà quella modalità di prendere appunti resa celebre dai “carnet” – e questo sarà il titolo – di famosi scrittori e artisti, che diamo forse un po’ per scontata come una pratica di annotazione in diretta, che ha spesso ambizioni di spontaneità o di presa diretta sulla realtà, ma che in realtà è a sua volta un groviglio di intenzioni e tempi. Il quarto volume sarà poi dedicato all’idea di “insorgenza” proprio per cercare ancor meglio di mettere a fuoco una concezione precipua dell’istante di emergenza e di registrazione di un’immagine.

 

La disponibilità della galleria d’arte Isolo 17 di Verona ha convinto i curatori e collaboratori di Imm’ a dare all’iniziativa editoriale anche un prolungamento, Imm’ expo appunto, che non è soltanto l’esito espositivo che ogni progetto che si occupa di immagine auspica, ma la proposta di mettere in rapporto studio e esposizione come si mettono in rapporto immagine e parola, scrittura e creazione visiva, pensiero e prassi, all’interno dei volumi. Le mostre allora cercano di mettere in gioco anche espositivamente, con materiali e soluzioni di volta in volta diverse, tali rapporti, differenziandosi bene dalle mostre tradizionali o di mercato per invitare a una lettura complessiva. Legate ai volumi, ne riprendono i materiali, a volte sviluppandoli, altre volte anticipandoli.
La prima esposizione (novembre 2016) ha visto un percorso che faceva riferimento ai primi due volumi di Imm’ e che si è costruita intorno alle opere di autori presenti in essi. Si andava dallo storico film Entr’acte di René Clair e Francis Picabia, all’altrettanto storico ma di altro ambito sull’autismo – ma non c’è un certo “autismo” anche delle avanguardie storiche? – film di Fernand Deligny e Renaud Victor, Ce gamin, là. Erano esposte opere fotografiche di autori diversi come Luca Pancrazzi (una serie inedita intitolata Foto dal parabrezza), Christelle Lheureux (Non ricordo il titolo (Il mattino dello stesso giorno), in cui sono riprese, o “rifatte”, alcune inquadrature di Stromboli di Rossellini), Pierluigi Fresia (una serie creata ad hoc e intitolata significativamente L’atlante imperfetto, in cui alla fotografia si sovrappongono scritte e disegni), Ange Leccia (il video Nymphéa, con la bellissima Letitia Casta che trattiene il respiro sott’acqua).

 

La seconda esposizione (giugno 2017) ha disegnato un percorso che riprendeva dei momenti e degli spunti dei volumi precedenti di Imm’, in particolare con l’opera di Luca Pancrazzi Foto dal parabrezza, che della “sovrapposizione” restituisce la dialettica centrale tra visione e accecamento, e un’altra opera di Ange Leccia che della visione mette al centro l’incanto dell’“immagine pura”, tema al centro di una serie di testi del terzo volume. Si procedeva poi con le novità di quest’ultimo, che erano i “creaturi” di Simone Schiesari, sguardi inquietanti di volti presi da dipinti antichi ripuliti elettronicamente insieme a teschi rovesciati privati di sguardo, e i “dubbi di un alieno sotto lo stesso cielo” di Giovanni Oberti che invece esponeva oggetti doppi e chiedevano così di essere guardate con sguardo doppio. Altri video di cui si parla nel volume completavano l’esposizione, tra cui lo spettacolare Sea Turtle Finds Lost Camera di Paul Schultz, film, come dice il titolo, “realizzato” da una tartaruga marina che ha ritrovato la videocamera smarrita in mare dal suo proprietario. Infine, anticipazione del prossimo volume era la presenza di opere fotografiche di Alessandro Laita e Chiaralice Rizzi. In entrambe le esposizioni tra le opere, a rilanciare il rapporto tra immagine e testo, tra esposizione e libro, erano “esposte” a loro volta le fotocopie di alcune pagine tratte dai volumi di Imm’, selezionate ad hoc con parole e frasi evidenziate come ulteriori punti di partenza per la riflessione dei visitatori.

 

La terza esposizione, prevista per il 17 febbraio, sarà incentrata sull’opera Live in the house and it will not fall down di Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita. La mostra tenterà questa volta di creare un’inedita costellazione visiva attorno al libro omonimo che i due artisti hanno recentemente pubblicato per l’editore Mack e che sarà oggetto di un saggio in uscita nel prossimo volume di Imm’. In quel lavoro i due artisti si sono confrontati con la collezione di immagini rinvenute nello studio dell’artista veneziano Bruno Rizzi alcuni anni dopo la sua morte. Materiali direttamente provenienti dal libro si intrecceranno a fotografie, disegni, testi e video, nel tentativo di ricostruire, e insieme portare avanti, il retroterra immaginario e fantasmatico che aveva condotto alla pubblicazione del libro nel dicembre del 2016.

La singolare mostra dei due artisti, un percorso a ritroso che allo stesso tempo proietta lo sguardo verso un futuro ancora incerto la cui testimonianza è affidata alle immagini stesse, merita una introduzione che il curatore della mostra Nicola Turrini ha scritto per doppiozero.

Elio Grazioli

 

Ad una certa ora del mattino

Nicola Turrini

 

Ricordo che il giorno che conobbi Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita, Chiaralice mi mostrò alcune immagini di A perfect commotion, un lavoro che aveva da poco terminato. In quelle cinque fotoincisioni in bianco e nero, Chiaralice aveva sovrapposto alcune sue fotografie con delle fotografie fatte molti anni prima dal padre, Bruno Rizzi. Attraverso un contrappunto delicato e silenzioso l’artista dispiegava una sorta di “dialogo ad una voce” tra le proprie immagini e quelle del padre recentemente scomparso, tra la propria storia e quella del padre. I paesaggi che emergevano da queste sovrapposizioni avevano un’intensità fantasmatica unica. Istintivamente mi chiesi dove fosse quel paesaggio, se lo avessi già visto: una domanda che portava con sé anche il dubbio di trovarsi di fronte ad un luogo integralmente immaginario.

 

Chiaralice Rizzi, A perfect commotion 2012.

 

Il tema dell’assenza (del padre) è anche la trama segreta di un libro da poco è uscito per MACK, realizzato a quattro mani con Alessandro Laita, dal titolo Live in the house and it will not fall down, un progetto a cui i due artisti hanno lavorato da anni e che nel 2015 ha vinto il Lewis Baltz Research Fund. Il libro è di una disarmante semplicità: una collezione di immagini – tutte fotografie e immagini raccolte da Bruno Rizzi durante la sua vita – che i due artisti hanno selezionato e montato secondo un ritmo ondulatorio e rigoroso, senza cedere a stucchevoli autobiografismi, un pericolo sempre in agguato quando un artista guarda retrospettivamente alla storia della propria vita. Non c’è molto da dire su queste immagini, perché a loro modo, sono indiscutibili. Indiscutibili forse come ogni vero lavoro artistico, dove la costellazione dischiusa dall’opera – reale e fantasmatica allo stesso tempo – non richiede alcun commento. Lewis Baltz, nell’unico (breve) testo presente nel libro, evidenzia questa esigenza con la prosa asciutta ed essenziale che lo ha sempre contraddistinto:

 

Bruno Rizzi was born in Venice in 1933. 

Since adolescence he trained himself as a painter, sculptor, printer and engraver. 

In the 1950s he did military service as a parachutist. 

Afterward he travelled through Italy and lived in Switzerland. 

Upon his return to Venice in the 1960s he worked in Murano and began establishing himself as an artist. 

In 1982, following an unsuccessful marriage, he remarried and had two daughters. 

From the 1960s until his death in 2004, he worked in the same Venice studio at Castello 6381.

After his death his family maintained the studio intact for six years. 

In 2010, his family was obliged to vacate the studio and to find a new home for the images and objects that he collected or made over the previous four decades. 

This book is the photography collection from his studio. 

 

La chiusura del testo rivela la natura esatta di questo raccolta di immagini: “the photography collection from his studio”. Se è vero che le immagini appaiono, all’orizzonte, “quando il linguaggio, qualsiasi linguaggio, si allontana” è possibile tentare almeno una nota a margine. Non si tratta di rendere intelligibile qualcosa di oscuro – di rendere le immagini più accessibili – né di analizzare o giudicare la qualità ineccepibile di questo lavoro. Si tratta – come ha mostrato Gilles Deleuze cercando di definire la “situazione puramente ottica e sonora” – di risvegliare “una funzione di veggenza, contemporaneamente fantasma e constatazione, critica e compassione”: forse una delle più belle, per quanto involontarie, definizioni di critica.  È il sottile interstizio tra quel “delicato empirismo” così caro a Goethe e “the cruel radiance of what is” di cui scriveva James Agee in Let Us Now Praise Famous Men, celebre libro pubblicato con Walker Evans.

 

Dopo la morte di Bruno Rizzi, il suo studio era rimasto chiuso per sei anni, intatto così come lo aveva lasciato, fino al momento in cui la famiglia si trovò costretta a liberarlo per motivi di forza maggiore. È in quel momento che Chiaralice incontrò le foto realizzate dal padre: un incontro forzato dagli eventi che costrinse a ricreare una “nuova casa” attorno a tutti quegli oggetti, a quei libri, a quei quadri e a quelle fotografie. C’è evidentemente un forte elemento biografico in questo libro: “Ho passato i primi anni della mia vita” – dice l’artista in un’intervista con Maria Giovanna Virga – “nello studio veneziano dove mio padre disegnava, dipingeva, lavorava il vetro, preparava incisioni. Era un posto davvero piccolo, dove ad una certa ora del mattino l’acqua del canale riusciva ad illuminare con il suo riflesso tutto il soffitto; così, in mezzo a strumenti e colori, giocavo con mia madre e mia sorella disegnando moltissimo, copiando le immagini dalle pile di libri, per lo più d’arte, che avevamo. Non so come sarebbero andate le cose se avessi avuto un’altra madre e un altro padre o solo una casa più grande, ma sono state queste circostanze a stimolare la mia sensibilità, senza soluzione di continuità fino ad ora”. Un’immagine dell’infanzia impressa nel corpo e nella memoria in modo involontario, ma pervasa da un’architettura precisa e puntuale, da quel riflesso d’acqua del canale che può illuminare completamente il soffitto solo ad “una certa ora del mattino”. Un “momento preciso” che non va confuso con una mistica (bressoniana) del momento decisivo, pensiero dell’immagine che maschera sempre una mistica della scelta (questo momento invece di un altro). La precisione del momento è indipendente da noi anche se senza di noi non può accadere: è il luogo dove si misura la nostra perdita di controllo, quello che Herman Melville chiamava “l’inafferrabile fantasma della vita”, “la chiave di tutto”. È forse alla contingenza che fa riferimento l’artista quando parla di una “bellezza come misura dell’emergere preciso del tempo”, un tema fondamentale che percorre anche altri lavori dell’artista veneziana, come, ad esempio, le immagini della cascata di Nell’attimo che non si aggiusta ma sopravvive lucente mentre scappa. Il paesaggio – “l’interrogazione della sintassi racchiusa nel paesaggio” – è infatti l’altra polarità fondamentale delle opere di Chiaralice Rizzi, che insieme al già citato “dialogo ad una voce” con il padre rappresenta l’humus dei suoi lavori. Due sfere che trovano il loro comune punto di intensificazione nell’emersione precisa di un tempo che non siamo noi a scandire ma che piuttosto ci scandisce, l’“esperienza di noi scanditi in esso”. Un incontro segnato da un’indifferenza imprevedibile e meravigliosa che concorre a definirci, tutti indistintamente.

 

Chiaralice Rizzi, Nell’attimo che non si aggiusta ma sopravvive lucente mentre scappa 2009.

 

Scoprire la geologia di immagini nello studio di Bruno Rizzi ha mostrato prima di tutto un legame, “la necessità di lavorare con quel materiale”. Allo stesso tempo ha dispiegato un’assenza – “la morte di mio padre” – che assume qui un ruolo paradigmatico non perché ci fornisce una “chiave interpretativa”, ma piuttosto perché diviene parte del lavoro in quanto “è una storia, la mia”. Davanti a questo enorme archivio – pile di carte sedimentate negli anni, strati di polvere adagiati delicatamente sulle cose – “non si tratta di selezionare”, di rendere conto dei ricordi personali, di trattenere il tempo con le sue tracce ma piuttosto di percepire un’agopuntura, di “fare i conti con qualcosa che richiama la mia attenzione”, mostrando le proprie potenzialità.

 

È indispensabile tenere assieme A perfect commotion e Live in the house and it will not fall down, senza per questo compromettere l’autonomia di queste opere. Un lavoro costituisce l’entrata per l’altro, e viceversa. Se essi restituiscono un tracciato autobiografico è perché, in qualche modo, assolvono un’esigenza del tempo, quel punto di intensificazione impersonale che richiama l’“attenzione”. Cinque immagini che “ricalcavano però incredibilmente altrettante mie fotografie, nonostante mostrassero un paesaggio in cui io non ero stata e di cui non conoscevo il nome”: silenziose e per niente spettacolari, “senza anelli di congiunzione, combaciavano in un legame immediato. Ferma davanti a quelle immagini, nella riflessione del fenomeno osservato, ho deciso di esaudire il loro compito”.

Lontano da qualsiasi estetica dell’objet trouvé, Live in the house and it will not fall down non intende salvare le immagini dall’oblio e dalla dispersione, o affidare loro il peso consolatorio della memoria. L’operazione di Rizzi e Laita sovverte piuttosto il tempo stesso, lo fa uscire dai propri cardini: un anacronismo fondamentale che ancora una volta lo avvicina alle cinque fotoincisioni di A perfect commotion. Sapremmo veramente capire quale immagine viene prima e quale dopo? Cosa è originario e cosa derivato? Quale sarà la vera casa delle immagini di Bruno Rizzi? Così come dovremo anche domandarci a chi appartengano veramente questi lavori: il solo dialogo tra un padre e una figlia o un lavoro sostanzialmente disseminato tra loro, il contributo fondamentale di Alessandro Laita e la segnatura del tempo?

Delicata archeologia dell’immagine, Live in the house and it will not fall down è insieme un’archeologia intima e segreta della soggettività: ad una certa ora del mattino, l’immagine è una brezza che giunge in favore di silenzio.

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