Torino, Italia: fine di una narrazione / Perché il Pd ha perso

22 Giugno 2016

A volte succede, che il mondo si rovesci in una notte. E l’inimmaginabile accada. Questa volta è successo “sotto la Mole”: un sistema di potere che sembrava solido come il marmo, senza incrinature, inattaccabile e insuperabile è saltato come il tappo di una bottiglia di spumante intiepidito.

Cos’è successo a Torino? Semplice: una narrazione è andata giù come un castello di carte. È “scaduta”, potremmo dire, come per i prodotti da market troppo a lungo sul banco. Un modo di raccontare la città non è stato più creduto dai suoi abitanti. Non più da tutti, almeno. Dalla loro maggioranza. E anzi, li ha fatti incazzare. Era la narrazione che ha tenuto campo in questi anni, e ancora negli ultimi giorni, su tutti i media, pervasiva, totalitaria, asfissiante: quella della Torino “che ce l’ha fatta”. Che “ha svoltato”. Transitata felicemente dalla grigia company town che era nella splendente città dei balocchi che è diventata. Bellissima, splendente, smart, innovativa. SALVA. 

 

Non era una narrazione “falsa”. Ma era una narrazione parziale. Non raccontava una città che non c’è. Raccontava una città reale (diventata effettivamente “più bella”), ma ristretta, ristrettissima, chiusa nei confini di un quadrilatero che sta tra la cittadella del centro e la precollina, lungo l’asse che da Piazza Carlo Felice, lungo via Roma e via Po, passando per Piazza San Carlo e Piazza Castello, raggiunge Piazza Vittorio e la Gran Madre (il tempio edificato dalla città per celebrare il Te deum dopo il ritorno dei Savoia nell’età della Restaurazione). 

Era una narrazione elaborata in alto, nel circuito di chi effettivamente “ce l’ha fatta”, nella rete esclusiva delle professioni liberali, della finanza, dell’intermediazione tra affari e politica, della progettazione urbanistica incentrata sulle grandi opere e alimentata dai faraonici flussi di denaro a credito. Usava le loro parole, dava voce ai loro sentimenti, accarezzava le loro orecchie.

 

 

 

Era credibile e creduta. Ma lasciava fuori il resto della città. L’“Altra Torino”, quella accampata subito fuori le mura, nella prima periferia, da poco non più centro, dove le saracinesche dei negozi da tempo non si rialzano, le gastronomie lasciano il posto agli hard discount, le gioiellerie ai “compro-oro” – la zona grigia del declassamento dell’ex ceto medio in estenuata moltitudine. E poi quella abbandonata nel secondo cerchio, lo spazio ortogonale delle ex barriere operaie, ieri densissimo di stabilimenti e capannoni, ora rarefatto, pieno di vuoti (industriali), di macerie e rottami, ristrutturato a macchia di leopardo per ospitare supermercati e centri commerciali (la grande produzione ricolonizzata dalla grande distribuzione) e per il resto in abbandono… quartieri dove il sole del centro e della collina non arriva, e l’identità collettiva è un’entità perduta tra le nebbie del passato novecentesco.

 

È lì che è maturata, non la rivolta, piuttosto la vendetta. Lo spazio in cui gli abitanti la loro narrazione silenziosa (e alternativa) l’hanno affidata alle urne. La topografia del voto parla chiaro. Al ballottaggio del 19 giugno il sindaco uscente Piero Fassino ha vinto in una sola delle 8 Circoscrizioni in cui è sezionata la città, nella “1”, Crocetta-Centro (l’equivalente dei Parioli a Roma), dove ha fatto 59% a 41%. In tutte le altre è andato sotto. Di non molto nelle aree immediatamente adiacenti – San Donato, Parella, Cit Turin – dove ha perso 47 a 53. Poi sempre più in basso, e lontano dalla giovane concorrente, fino all’abisso della Circoscrizione “5”, comprendente il celebre quartiere ex operaio delle Vallette, dove la distanza si è fatta abissale: trenta punti percentuali di distanza, 65 a 35, 32.361 voti contro 17.613! E sembrerebbe davvero il mondo alla rovescia: l’erede della lunga tradizione comunista torinese (perché questo è Piero Fassino, ultimo segretario di federazione del PCI, poi alto dirigente del PDS, Segretario Generale dei DS, fondatore del PD) doppiato dalla candidata 5 Stelle nel quartiere simbolo della “Torino popolare” (fino a ieri “capitale operaia”, oggi chissà?).

 

 

C’è, in questo – in questa parabola d’improvviso mutata di direzione e di approdo, come del volo di un aereo che entra in stallo e impazzisce – qualcosa che va al di là della politica, e anche della sociologia. Qualcosa che attiene al sottofondo ctonio del nostro immaginario, alle dinamiche umbratili del “perturbante”, delle metamorfosi occulte che nel romanzo gotico rovesciano luoghi (le case stregate) e corpi (i morti-non morti) nel loro opposto senza mutarne gli involucri, i nomi e i volti… Impercettibilmente, senza cambiare pelle, il partito nato per rappresentare gli ultimi, la città dei margini (anzi delle “Barriere”) e del salario, è diventato il partito dei primi. Il rappresentante del Centro urbano (quello contro cui, tradizionalmente, fin dall’inizio dell’altro secolo, il popolo della Barriere aveva mosso le proprie ondate di rivolta nel tentativo vano di invaderlo), e del profitto… Anche in questo i numeri sono impietosi: l’analisi dei flussi relativa al 5 giugno dice che su 100 voti ottenuti nel 2011, quando fu eletto sindaco di Torino al primo turno col 57% dei consensi e 255mila voti, Piero Fassino ne ha, ora, conservati appena 42 (32 sono passati ai 5Stelle, 14 all’astensione).

 

In compenso 34 elettori che nel 2011 avevano votato il candidato del centro-destra e di Forza Italia sono confluiti su di lui nel 2016, facendolo attestare a 160mila consensi, pari al 42% dei voti validi (si parla sempre del primo turno, naturalmente). Il che significa che silenziosamente, sotto traccia, dentro l’involucro di sempre, il Pd torinese ha mutato natura sociale e composizione politica. Una sorta di “mutazione genetica” (così la definiscono gli analisti dei flussi), come per una sostituzione, invisibile all’esterno, del liquido amniotico, rivelatasi d’improvviso, stupefacente, al momento del parto.

Forse è per tutte queste ragioni che lunedì 20 giugno Torino si è svegliata attonita, ma tutto sommato serena. Persino sorridente, come quando appunto dal sonno (più o meno agitato) si ritorna alla realtà. Sarà stato per lo splendido sole, dopo settimane di temporali, e per il cielo straordinariamente azzurro. O per il senso di “apertura” che si prova quando si scopre che non c’è una sola verità (un solo “racconto”). O semplicemente per lo spettacolo sempre appassionante, tanto più nell’universo mediatico in cui si vive, dello sfondamento della barriere dall’impossibile. Per quell’impensabilità materializzatasi. Certo è che, comunque la si pensi, con questo voto Torino è uscita definitivamente dal Novecento. Con tutto ciò che di promettente e di minaccioso, di eccitante e di preoccupante, questo comporta.

 

L'intervento di Marco Revelli dedicato all'esito elettorale di Torino riprende e sviluppa riflessioni contenute nel primo capitolo del volume Non ti riconosco. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia, pubblicato da poco presso Einaudi, dedicato alla città piemontese.

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