La scuola e i suoi compiti

19 Settembre 2016

Come ogni anno media e social network hanno trovato l’argomento per iniziare a parlare a scuola. La “lettera del padre che non ha fatto fare i compiti al figlio durante le vacanze”, forse anche contro le sue intenzioni, ha aperto il fuoco in una sorda guerra a bassa intensità tra genitori e insegnanti.

I fatti possono essere riassunti brevemente: in una città della provincia settentrionale un padre scrive una lettera di giustificazione agli insegnati del figlio, che all’inizio della terza media si presenta al rientro in classe senza aver fatto i compiti, di cui ignoriamo completamente entità e quantità. Nella lettera, che la pubblicazione su Facebook ha reso virale con seguito di dibattito e reazioni, si assume la responsabilità della scelta e di aver “fatto molte cose durante l’estate”.

Cose belle e interessanti che effettivamente padri e figli, più spesso madri e figli/e, fanno durante l’estate e che risulterebbero incompatibili con i compiti, come stare in campeggio e fare lunghe gite in bicicletta, occuparsi di disegno e programmazione.

Ho reagito con irritazione a questa notizia, come ormai mi capita sempre più spesso da quando frequento i social network, che per inciso mi hanno reso peggiore di come ero prima, quando non conoscevo i commenti di tutti su tutto. Come sempre più persone sono diventato ipersensibile al buzz virale, senza avere la forza di uscirne per sempre (“cos'è che non mi piace in questo baraccone? / sarà che dentro è triste e starne fuori è una prigione”, chiosa il poeta contemporaneo).

 

Il commento del blog Diegozilla ha placato la mia ira, dando elementi alla parte oscura del mio cervello rettile che si nutre di rancore, sarcasmo e vendetta trattenuta e che mi fa pensare che dare i social agli italiani sia l’equivalente dell’aver diffuso il whisky tra i pellerossa.

 

Intanto la parte razionale del mio cervello ha pensato che, in fondo, anche questa è un’opportunità di riflessione e una questione pubblica. Un sintomo di qualcosa che ha a che fare con la società italiana nel suo rapporto con la scuola. Pessimo e guasto per ampie porzioni di cittadini.

Tra le tante cose colpisce infatti nella lettera un certo tono di contrapposizione frontale, che voleva essere epico ma suona triste e patetico: “voi avete nove mesi circa per insegnargli nozioni e cultura, io tre mesi pieni per insegnargli a vivere”.

La contrapposizione sembra totale, così come la sfiducia: l’idea che la scuola sia “solo nozioni e cultura” e la vita stia fatalmente altrove, senza possibilità di intersezione e compressa nei tempi liberati da istituzioni ostili, come appunto la scuola, e solo io, solo noi sappiamo dove sia la vera vita, perché tutto intorno pare inesorabilmente corrotto, degradato, sbagliato.

 

La questione dei compiti estivi, di cui ripeto non sappiamo niente, si inserisce in un più ampio discorso che riguarda le mense scolastiche sostituite dal pasto portato da casa e rischia di arrivare all’home schooling, chiamando inesorabilmente in causa concezioni della politica e della vita.

Il rapporto con la scuola, il luogo in cui stanno i nostri figli, diventa il sintomo di qualcosa che, in termini assoluti, potremmo chiamare individualizzazione libertaria o privatizzazione del sociale e che testimonia una sempre maggiore atomizzazione dei rapporti, un ripiegamento narcisistico della sfera cognitiva e emotiva, una sempre maggiore difficoltà o resistenza a cercare l’integrazione in una dimensione sociale, che non sia strettamente familistica o micro-comunitaria.

Ma prima che tutto, francamente troppo, sfugga dalla mani, riportiamolo dentro a un’aula scolastica.

 

Un dibattito pedagogico sull’utilità o meno dei compiti esiste e, come non può essere generalizzato, non può riguardare i singoli genitori. Penso sia una questione che debba partire dagli insegnanti e, con diversità differenti a seconda di età e scuola, possa essere discussa tra insegnanti e genitori. È pertinente al contesto in cui avviene: a cosa e a chi servono i compiti? In quale progetto didattico e in quale programmazione si inscrivono?

Mi spiego: conosco ottimi insegnanti di scuola media che hanno ottimi risultati e che non assegnano compiti estivi. Anche se credono alla loro funzione, sanno che le famiglie dei loro allievi non sono in grado di seguire i figli, che abbandonati a loro stessi non li potranno o sapranno fare. Il che non potrà che creare disagio e umiliazione ai bambini, e ulteriore differenza di classe, o socioculturale se volete, tra quelli che hanno le possibilità e quelli che non le hanno. I dati sul divario della forbice sono impressionanti e in aumento.

Ci sono studenti che per provenienza familiare potrebbero anche non avere bisogno dei compiti, perché hanno solide esperienza culturali, cognitive, estetiche, letterarie. Altri per i quali, se manca la scuola, queste non esistono. Per questo è sempre più importante che il più avvenga durante il tempo scuola. In ogni caso deve essere l'insegnante, all’interno di un consiglio di classe o interclasse, a scegliere la strategia migliore per tutti e tutte, tenuto conto di costi/benefici e degli obiettivi che ci si pone.

Premesso che le iscrizioni a una scuola o un’altra sono libere (e si spera consapevoli), qualora un genitore non si trovasse a proprio agio con programmi, contenuti, pratiche o non fosse soddisfatto di qualcosa ha il diritto a discutere pubblicamente la cosa nei luoghi a essa preposti e perfino cambiare scuola o classe, se lo ritiene.

Più problematico è il fatto di sottrarsi a una consegna, mettendo in discussione implicitamente operato, professionalità e autorità del docente. Il mettere il proprio figlio in una condizione del genere – essere dispensato da una consegna o sanzionato per non averla rispettata per via dei genitori – è una scelta poco saggia e poco rispettosa del figlio, degli altri allievi, dei docenti.

Poi c’è la questione dell’educazione allo sforzo e alla fatica, che pongo come vero problema aperto. Quando, dove e come bambini e bambine imparano a gestire impegni, sforzi e frustrazione? Perché molti genitori di bambini alle elementari contestano i compiti dati ai bambini mentre altri alle scuole superiori accusano la scuola di essere stata poco severa e si lamentano dei figli, gli “sdraiati”, dipinti come ignoranti, distratti, svogliati?

In linea di principio, anche i compiti, con la fatica e l'ingombro che portano nelle case fuori dal tempo scuola, sono consegne che si tratta di imparare a rispettare e possono servire anche a cercare una mediazione tra l’irresponsabilità beata di una infanzia mitizzata, cara ai giovani genitori a cui appartengo generazionalmente, e l’incapacità cronica degli adulti di essere responsabili di qualcosa e di gestire la frustrazione che il vivere comporta. Una cosa con cui combattere tutti i giorni, tra l’altro.

In un breve e splendido intervento nel dibattito di questi giorni, il maestro Franco Lorenzoni, sintetizza e coglie tutti questi punti e ne aggiunge uno fondamentale.

 

La scuola non deve essere un luogo di negoziazione di interessi privati, ma un laboratorio di democrazia, in cui la cultura non può essere separata dalla vita. È il luogo in cui si impara ad avere in comune un linguaggio, a partire da letture, esercizi, cose anche noiose ma che servono anche solo per essere qualcosa che possiamo condividere: e questo non può essere ignorato in ogni discussione sui programmi, sul canone e su cosa insegnare e perché. Quello che si fa scuola va fatto insieme e, serve, dice Lorenzoni, “a prestarci gli occhi l’uno l’altro”, diventa “uno specchio per una mente che sta cercando che cosa fare”.

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