Coltivare lo sguardo interiore

18 Febbraio 2015

È un orientamento pragmatico, quello di Martha Nussbaum. Non a caso le sue riflessioni hanno influenzato, oltre ai dibattiti intellettuali della contemporaneità, anche pratiche di governo e politiche internazionali. Docente di Law and Ethics presso l’Università di Chicago, la filosofa statunitense è divenuta celebre per aver ideato negli anni Ottanta, insieme al premio Nobel Amartya Sen, la teoria delle capabilities, giungendo a elaborare indicatori di disuguaglianza sociale per i programmi di sviluppo delle Nazioni Unite. Il paradigma delle capacità – che misura la ricchezza di uno stato non tramite il PIL pro capite, ma sulla base dell’effettiva accessibilità ai diritti e delle reali opportunità offerte ai cittadini – è solo un esempio del suo impegno a favore di una società progressista e multiculturale ma saldamente basata sull’universalismo etico. Accanto agli studi sulla giustizia globale e la dignità umana, Nussbaum ha condotto analisi sulle emozioni collettive e sui diritti delle donne, promuovendo un’originale forma di liberalismo femminista. Alla crisi dell’istruzione ha poi dedicato numerosi saggi, difendendo appassionatamente le discipline umanistiche come strumento indispensabile per sviluppare il pensiero critico e la buona cittadinanza (idee condensate nel noto volume Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, 2011). Per lo spessore intellettuale e l’impegno civile Martha Nussbaum ha ricevuto oltre cinquanta titoli onorari da diverse università del mondo, insieme a numerosi riconoscimenti internazionali. Il più recente le è stato conferito in qualità di “Maestra del nostro tempo” dalla giuria del Premio Nonino, istituito dalla famiglia di distillatori friulani e giunto nel 2015 alla quarantesima edizione.

 

L’abbiamo incontrata in questa occasione a Percoto di Udine, dove l’astro della filosofia contemporanea appare come una raggiante signora dal caschetto biondo. I quarant’anni di intensa carriera non ne hanno scalfito la forma smagliante che, da rigorosa studiosa del mondo classico, mantiene con disciplina esercitando il corpo oltreché lo spirito. D’altra parte è proprio la determinazione, come lei stessa racconta, ad averla sempre accompagnata nella vita. Una tempra risoluta, che emerge affabile e genuina anche durante il nostro colloquio.

 

 

In uno dei Suoi ultimi saggi prende in esame le emozioni all’interno dei processi politici (Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, Il Mulino, 2014). Una domanda d’obbligo riguarda le reazioni di fronte alle recenti stragi terroristiche a Parigi, in seguito alle quali il multiculturalismo è stato attaccato da più parti. Ritiene che sia questo il momento in cui il dispiegamento internazionale di forti emozioni collettive, come sconcerto e paura, rischia di compromettere l’etica del vivere civile?

 

La paura spesso è un’emozione utile, che ci porta a proteggere le vite nostre e degli altri. Senza paura, saremmo tutti morti. Ma la paura può facilmente sfuggire al controllo, portando a politiche che danneggiano il rispetto paritetico e la reciprocità. Questo è ciò che vedo accadere ora in Europa. Nessuno dovrebbe opporsi a ragionevoli misure di sicurezza imposte a tutti i cittadini allo stesso modo. Ma alcuni stanno proponendo delle inquietanti restrizioni a tutti gli immigrati, la maggioranza dei quali è completamente innocente.

 

Oggi i modi di vivere e convivere, fra sfide globali e crisi economica, sembrano sempre più complessi e fragili. Talvolta il disorientamento e l’ansia finiscono per annebbiare anche lo “sguardo interiore”, la nostra capacità di immaginazione empatica e di calarci nell’altro. Lei scrive che la paura è la più narcisistica delle emozioni. Allora come tenerla a bada?

 

Non credo che le cose oggi siano più complicate di ciò che erano in passato. La mia stessa nazione è stata fondata da molti gruppi diversi di dissidenti religiosi, che erano in profondo disaccordo su ogni sorta di questione, e la loro politica pubblica, già nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, riconosceva esplicitamente la presenza di ebrei e di musulmani, così come di molti tipi di cristiani in guerra fra loro. Ma in ogni caso dobbiamo sempre sforzarci di coltivare il nostro “sguardo interiore”, cioè lo sguardo che da dentro tramite gli occhi guarda fuori alle vite degli altri. Come dimostrò lo scrittore afroamericano Ralph Ellison, che coniò quest’espressione nel suo splendido romanzo L’uomo invisibile, la gente è sempre pronta a vedere lo straniero come una mera forma, un’incombente minaccia alla propria sicurezza o ai propri privilegi, e spesso non è curiosa di capire come appare il mondo dal punto di vista di quella persona. L’idea di Ellison era che opere d’arte, come il suo romanzo, possano diventare, per usare la sua espressione, “una zattera di percezione, intrattenimento e speranza” sulla quale la democrazia può “superare gli intoppi e i vortici” che stanno fra noi e “l’ideale democratico”. Io sono d’accordo: dovremmo dare sostegno a un’educazione ricca di arti e di studi umanistici e invitare artisti a realizzare opere d’arte pubblica che arricchiscano la nostra capacità di comprensione.

 

Parlando di studi umanistici, in molti saggi Lei ha sottolineato come un’istruzione che subordina le materie umanistiche a quelle scientifiche, cioè un’istruzione orientata esclusivamente all’impatto economico e all’utilità, minacci gravemente il pensiero critico e la vita stessa della democrazia. D’altra parte, siamo di fronte a un’iperinflazione di laureati e addottorati in settori umanistici, che non possono essere assorbiti dal mercato. Ci sono addirittura professori delle humanities che scoraggiano i propri studenti a continuare a specializzarsi nel settore, per evitare di trovarsi a trent’anni senza sicurezze e salari dignitosi. Come conciliare questi aspetti, entrambi così importanti: necessità di un’educazione liberale e inevitabile saturazione del mercato del lavoro?

 

In realtà i fatti non stanno così. Almeno nel mio paese c’è meno disoccupazione fra gli studenti di discipline umanistiche rispetto a quelli di informatica! La ragione è che gli imprenditori sanno che le competenze imparate a memoria non sono ciò di cui l’impresa ha bisogno: è necessaria un’immaginazione mobile e flessibile, cosa che può essere prodotta solo da un’educazione nelle materie umanistiche. Singapore e Cina di recente hanno riformato i propri sistemi d’istruzione allo scopo di includere più discipline umanistiche, e negli Stati Uniti i più grandi CEO sono fra i maggiori benefattori e sostenitori delle humanities.

Certo gli studenti delle discipline umanistiche non diventeranno tutti professori, così come gli studenti di informatica non diventeranno tutti professori di informatica: troveranno impiego in un’ampia gamma di lavori. Continuare con un dottorato è un’altra questione e relativamente pochi dovrebbero proseguire questo percorso, ma questo vale per tutti i settori, sia per la fisica che per la letteratura inglese.

Voglio poi sottolineare che il sistema dell’educazione umanistica universitaria, che è standard negli USA, in Corea del Sud e in Scozia, ha grandi vantaggi rispetto all’educazione basata su una singola materia, che prevale invece nella maggioranza dei paesi del mondo. Noi chiediamo a tutti gli studenti di frequentare corsi in discipline umanistiche, non importa quale sia la materia di specializzazione: quasi due dei quattro anni vengono spesi in corsi che preparano gli studenti alla cittadinanza e alla vita, al di là della disciplina primaria. Così, anche se non scelgono filosofia come materia principale, la imparano lo stesso.

 

Questo, peraltro, è anche l’obiettivo dei licei in Italia, in particolare quelli classici, che sono pure soggetti a profondi cambiamenti… Sempre da una prospettiva esterna, americana, come interpreta l’attuale situazione politico-finanziaria dell’Unione Europea fra difesa dell’unità e spinte centrifughe nazionali?

 

Certamente una parte del malcontento riguarda le politiche di austerità completamente sbagliate che sono state imposte a nazioni europee senza risultati utili. L’economia statunitense sta recuperando molto bene proprio perché ha usato politiche di stimolo e non di austerità. Quindi il rifiuto delle politiche tedesche da parte della Grecia è stato per lo più comprensibile. La soluzione a questo problema è mettere al centro una politica economica più sana. Ma c’è un altro fenomeno, abbastanza differente, che è il desiderio di proteggere un’identità nazionale sia dai nuovi immigrati che dall’unità europea. Per molto di questo do pure la colpa alla UE, perché si è concentrata interamente sull’unione economica senza curarsi anche di una struttura politica e, men che meno, di promuovere emozioni a sostegno dell’idea di un bene comune. Gandhi e Nehru unificarono l’India molto più con i simboli e le emozioni che con la politica. E sapevano che la responsabilità politica e i buoni principi costituzionali dovevano essere posti fin dall’inizio di ogni unificazione.

 

All’interno degli studi sullo sviluppo umano, la diseguaglianza di genere è ritenuta centrale perché si presta come banco di prova per valutare la reale qualità della vita di uno stato. Lei pertanto afferma che “la politica internazionale e il pensiero economico devono essere femministi”. Come spiegherebbe a una giovane donna europea l’urgenza di una mobilitazione ispirata al liberalismo femminista?

 

Ogni mobilitazione dovrebbe iniziare con uno studio dei problemi. I problemi che le donne devono affrontare in Europa non sono gli stessi che hanno le donne di altre nazioni, così ci si deve chiedere quali sono i problemi più urgenti. In molte nazioni, il problema più urgente per le donne è ricevere un’equa alimentazione e assistenza sanitaria e avere l’opportunità di andare a scuola. Questo di fatto non è il problema delle donne in Italia. Ovviamente il problema della violenza sessuale all’interno di relazioni sentimentali è uno dei più urgenti in Europa, e in Italia è stato riconosciuto come particolarmente grave e ha dato avvio a una nuova legislazione. Altri problemi includono forme sottili di discriminazione sul lavoro, la mancanza di sostegno per la cura di bambini e di anziani, nonché la sottorappresentazione delle donne in politica. Gli Stati Uniti hanno gli stessi problemi. Quindi inizierei a descrivere i problemi in modo chiaro, con molti dati alla mano.

 

 

Lei ha studiato anche l’oggettualizzazione del corpo. Che ne pensa invece quando a essere resa oggetto e merce è la propria identità, più o meno consapevolmente ceduta alle reti sociali e poi convertita in dati che alimentano il mercato?

 

Sono cose diverse messe insieme. Ciò che ho scritto riguarda la pubblicità e i media popolari che spingono le donne a mettersi sul mercato come oggetti per il consumo maschile. Non credo che i social media abbiano lo stesso risultato. Non lo so davvero, dal momento che non uso nessun social network. In ogni caso ho curato un volume sul bullismo e le molestie in internet, un problema davvero serio. È necessario pensare attentamente a come proteggere la gente dalle molestie senza limitare la libertà di espressione.

 

Uno dei dieci principi fondamentali del capability approach sottolinea come l’uomo debba essere in grado anche “di vivere in relazione con gli animali, le piante e con il mondo della natura provando interesse per esso e avendone cura”. Tuttavia l’umanità ha finora asservito la natura compromettendo per sempre l’ambiente. Che cosa pensa del paradigma della decrescita in relazione allo sviluppo umano? E, ancora, come rendere l’ambiente, quindi la nostra casa, soggetto effettivo di diritti?

 

Sono terribilmente preoccupata del problema del riscaldamento globale, che ha bisogno di essere affrontato immediatamente se vogliamo evitare il disastro. Ogni bambino in ogni scuola dovrebbe venire a conoscenza della situazione reale e credo che se la gente capisse davvero tale situazione non esiterebbe a mobilitarsi. Un altro problema altrettanto urgente è l’abuso degli animali. L’industria della carne tortura milioni di animali ogni giorno e la gente la mangia felice senza riflettere. È possibile trovare carne che è stata allevata umanamente e il successo di supermarket come “Whole Foods” dimostra come ci siano consumatori disposti a pagare di più per i controlli etici che fanno. Perfino le catene di fast food stanno iniziando a confrontarsi con le richieste dei consumatori per un allevamento più umano. Ma le cose stanno messe ancora molto male, e la situazione degli animali marini è pure estremamente disastrosa. Abbiamo bisogno di un completo riorientamento dei codici morali e legislativi in questo ambito. Sono orgogliosa del fatto che mia figlia, che fra poco si laurea in giurisprudenza, stia focalizzando il suo impegno sui diritti degli animali.

 

Nel quadro di “società giusta” per Lei rientra “una forma di liberalismo politico […] dove l’idea di pari dignità delle persone dovrebbe giustificare una sobria diffidenza nei confronti del sostegno pubblico a qualsivoglia concezione etica e religiosa”. In Italia la Chiesa cattolica gode ancora di ingenti contributi pubblici ed esenzioni fiscali (complessivamente stimati dall’Uaar intorno ai 6,4 miliardi di euro all’anno). Sembra che realizzare una “democrazia laica e libera, ma non antireligiosa”, come quella che propugna Lei, si scontri anche in Europa con eredità storiche e forze ancora vincolanti della tradizione. Che cosa ne pensa?

 

Penso un gran bene dei principi scelti dai legislatori della costituzione degli Stati Uniti: libero esercizio di religione associato al divieto di “establishment” religiosa – teso a significare non solo che una religione in particolare non deve essere preferita alle altre, ma anche che la religione in generale non deve essere preferita alla non-religione, o la non-religione alla religione. “Non establishment” nella pratica significa che un privilegio conferito a una religione deve essere dato in accordo al principio neutrale che include anche gruppi o individui non religiosi. Nel caso giuridico chiamato “Texas Monthly”, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato un’esenzione fiscale dedicata a riviste religiose, aggiungendo però che se si trovasse una qualche categoria neutrale, come “riviste a scopo caritatevole”, allora un’esenzione verrebbe accettata. Università religiose ottengono privilegi fiscali come parte della grande categoria di “istituzioni no-profit”. In altri casi la Corte ha spiegato chiaramente che un’esposizione con finanziamento pubblico durante le festività è costituzionale solo se riconosce una pluralità di religioni e di idee laiche.

Credo che l’Europa debba studiare questa storia, che dimostra come persone ragionevoli, con idee profondamente diverse ma con il bisogno di vivere insieme, abbiano raggiunto un accordo di principi. E non è che non avessero tradizioni, ma avevano capito che c’erano troppe tradizioni diverse e che nessuna tradizione doveva dominare su un’altra, perché il rispetto paritetico è cruciale. L’Europa oggi ha molte religioni (e in effetti le ha sempre avute, io sono un’ebrea di origini europee), ma questo fatto non viene sufficientemente riconosciuto.

 

L’Italia registra oggi un tasso di disoccupazione giovanile che supera il 44%. Un fenomeno che impedisce l’effettiva realizzazione delle “capabilities” personali, così come delle più basilari condizioni di dignità. Lei ha appena ricevuto il Premio Nonino come “Maestra del nostro tempo”. In qualità di maestra, allora, quali sono i valori che i giovani non devono mai perdere di vista per salvaguardare la propria umanità?

 

Nel mio discorso per il conferimento del Premio Nonino menziono cinque ambiti di impegno indispensabili:

  1. 1) Intelligenza e giudizio sulla base di dati di fatto piuttosto che di stereotipi e di retorica;
  2. 2) Coerenza di principi: come esortano sia Socrate che Kant, dobbiamo giudicare la nostra condotta con le stesse regole con cui giudichiamo la condotta degli altri;
  3. 3) Immaginazione e l’esercizio dello “sguardo interiore”;
  4. 4) Lavoro di squadra: coltivare la reciprocità e il rispetto vicendevole;
  5. 5) Speranza: deciso investimento sul futuro.

 

E “quando non vediamo margini per la speranza” – ricorda Martha Nussbaum citando Immanuel Kant – abbiamo il dovere morale di coltivarla “in noi stessi, in modo da massimizzare i nostri sforzi in nome dell’umanità, e cogliere ogni opportunità di far progredire i valori positivi che il mondo ci può offrire”. 

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