Albinea / Paesi e città

1 Luglio 2011

Le prime colline degli Appennini, a Sud della pianura padana, sono spesso la meta per le gite fuori porta delle città dell’Emilia. È così per Bologna, Modena, Reggio, Parma, Piacenza. Lì in estate l’afa è un po’ meno opprimente, in primavera e autunno si possono fare passeggiate che riconciliano con l’aria, gli alberi e il corpo. In dieci chilometri, dalla porta Sud di Reggio Emilia si arriva ad Albinea, un paese a 160 metri sul livello del mare, con la chiesa parrocchiale costruita sulla cima di una collina dalla quale si vede la città e gran parte della pianura. In inverno, quando il cielo è terso e la foschia grigia è spinta via dal vento del Nord, dalla chiesa si vedono i profili innevati delle Prealpi. D’improvviso, e con sorpresa, si ha la certezza che quella pianura che sembra non finire mai invece finisce, e che la valle del Po è davvero una valle, con le montagne tutt’attorno, un fiume che la taglia in due e che corre verso il mare.

 

Per arrivare alla chiesa di Albinea ci sono alcuni tornanti secchi. Sono stati per molti il luogo d’iniziazione al ciclismo: la prima piccola grande scalata, fatta con le stesse biciclette che si usavano in città, senza cambi e manubri speciali. Attorno alla chiesetta partono tante stradine pochissimo trafficate, dove da ragazzi era bello andare a camminare in gruppo, a volte in coppia, nelle domeniche pomeriggio. Alcuni poi decidevano di usare la chiesa per sposarsi. C’è sempre stata questa mania di cercare una chiesetta in collina per i matrimoni, come se sposandosi un poco in quota, si potesse vedere meglio dall’alto quello che sarebbe successo: un auspicio per una vita in discesa, forse.

Ad Albinea ci si andava per un gelato dopo cena, oppure al cinema, dove una volta, quando i film non scadevano così in fretta, si potevano vedere quelli da poco usciti in seconda visione spendendo la metà di quanto si pagava nei cinema del centro. Ci si andava di domenica per il pranzo in famiglia nelle trattorie dove si servivano soltanto le cose del posto. Accanto alle trattorie, in mezzo a parchi secolari, qualche castello, e tante importanti ville antiche, come si usava nei luoghi più belli attorno alle città: piccoli palazzi Schifanoia, seconde case dei conti e dell’aristocrazia: Villa Arnò, Villa Giulia e Villa Viganò, una volta dei padri Gesuiti, quindi, negli anni settanta, sede dell’istituto di studi comunisti “Alicata”, dove si formavano i quadri dirigenti del PCI. E poi tante villette costruite in quegli anni, magari con piscina, dove i benestanti si rifugiavano nei fine settimana per prendere fiato dal lavoro in città.

 

Le brevi escursioni fuori porta ad Albinea sembrano da sempre un rito tonificante: si lascia per un poco il grigio della pianura per salire e trovare un luogo in cui concedersi una pausa, guardando dall’alto quello che succede in basso: una specie di intermezzo, di respiro profondo, una vicevita: pausa e sguardo sulla valle dove, si pensa, dovrebbe consumarsi la vita vera, operosa, necessaria.

Ma quando in quelle giornate terse d’inverno, dalle colline dell’Appennino si intravedono le cime delle Alpi e ci si rende conto che la pianura non è senza limiti, allora, a volte, si ha la sensazione di sollevarsi davvero dal fondo della valle. E ci si accorge che forse la vicevita è la vita autentica, che la gita fuori porta non è un intervallo, ma è come la vita dovrebbe essere, sempre. Finzione estrema semmai è lo spazio pianeggiante e grigio di cui non si vedono i limiti.

 

Su una collina un poco più appartata, c’è un’altra chiesetta, Madonna dell’Uliveto, che aiuta a ribaltare la prospettiva. Come la chiesa parrocchiale di Albinea, anche questa ha origini medievali: si chiamava Santa Maria dell’Ulivo ai tempi di Matilde, più di mille anni fa, a testimoniare nel nome la presenza allora della coltivazione dell’ulivo in territori con un microclima mite, difforme dal resto del primo Appennino. E mite e silenzioso è oggi il complesso della Madonna dell’Uliveto.

Una decina di anni fa, la chiesa e gli edifici annessi sono stati trasformati in un Hospice, un centro di cure per malati terminali. Le stanzette arredate per accogliere i malati hanno la luce di un luogo famigliare. I mobili di legno, il pavimento in cotto, le travi del soffitto fanno di un ospedale una casa. I muri esterni alternano l’intonaco, tinteggiato con colori delicati, alle pietre antiche. Di pietra, seminterrato, è anche l’obitorio. Sono entrato lì diverse volte: per salutare una vecchia zia quasi centenaria, o un giovane amico scrittore che se ne era andato prima di avere scritto tutti i libri che avrebbe dovuto scrivere. È una cappella piccola, discreta, fatta per avvicinare le persone. Niente a che vedere con le camere ardenti gelide, di cemento armato, che si trovano nei nuovi cimiteri o negli ospedali della città, dove tutto sembra fatto apposta per annullare ogni rito, per togliere il più in fretta possibile quest’ultima incombenza, quasi che la morte non debba creare disturbo allo scorrere delle cose.

Una volta al mese, la domenica pomeriggio, Madonna dell’Uliveto si apre alla città per un’occasione di incontro e di ascolto. Di solito musica, concerti da camera, gruppi vocali, solisti. La rassegna si chiama Phos Hilaròn, luce gioiosa. Sono le prime due parole di un antico inno della Chiesa greca, che si cantava al tramonto, quando si accendevano le lampade della sera. Tra il pubblico ci sono a volte alcuni malati, a volte i parenti, ma è un momento sempre di forte emozione. Una gita fuori porta che, gioiosamente, come solo la musica sa fare, ti tiene, per un poco almeno, sulla soglia, nel passaggio fra giorno e notte, quando il cielo non è più uniforme e i suoi colori hanno mille sfumature, e imprevedibili.

 

Entrando in questa casa si ha l’impressione che d’improvviso svanisca la grande finzione nella quale siamo immersi ogni giorno. È come se la naturalezza con cui gli operatori dell’Hospice si prendono cura dei malati, e la stessa serenità dell’edificio, con le sue pietre e i suoi fiori, le siepi e i cipressi, facessero splendere quella vita che resta. È come se, arrivando in questo luogo fuori porta, un poco in alto rispetto alla città affaccendata e indiscreta, si riuscisse a vedere meglio che la vita è autentica solo se accompagnata dalla naturale consapevolezza della morte.

La malattia costringe a volte a periodi di apparente sospensione. A volte il corpo resiste alla malattia più di quanto sembrerebbe normale. Se è concesso, o imposto dal corpo resistente, questo periodo, e se attorno ci sono luoghi discreti e civili, questi momenti da attesa si trasformano in vita piena. E allora dall’alto delle colline si vede che a Nord, oltre la pianura, oltre il fiume che la taglia, ci sono le Prealpi, e la pianura padanaè solo una grande valle.

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