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Pushkar, la grande fiera, e l’hic et nunc

Gli zoccoli ancora da ferrare scalpitano a vuoto a Pushkar, Rajasthan, India del Nord, avamposto del deserto di Thar, e sono pistoni che infuriano senza scalfire il confine violento di una semi immobilità obbligata. Silenziosi, sentenziosi come colpi di martello, i calci demoliscono dune di sabbia e ne formano di nuove, il deserto è una creatura animata, e i frequenti nitriti sono disperati, grida poderose e garrule di femmine partorienti.

 

 

I purosangue in posta, e ce ne sono migliaia distribuiti per tende e padroni che paiono tutti predoni impavidi pronti alla bisboccia della notte, sono in piedi su tre gambe, perché una delle anteriori è piegata in due ed è legata, sollevata e paralizzata per mezzo di corde spesse e annodate con maestria. Solo l’equilibrio precario convince le bestie all’apparente mansuetudine.

 

La sensazione dell’arto reciso, dello scompenso di natura, sottomette persino il desiderio selvaggio di scatenarsi in furia, e d’altronde c’è bisogno di proteggere la mercanzia dal suo stesso istinto, dall’inaudita vitalità di una merce che è merce ma è viva, dai giochi tumultuosi che i puledri inscenerebbero se lasciati in possesso del candore imberbe. Gli articoli del campionario vanno accuditi, preservati dalla sete e dall’istinto. L’incrocio con i cammelli e i dromedari al trotto, il frastuono e le risa dei carovanieri, i canti dei gruppi di femmine in sari policromi e cavigliere, le grida repentine e l’incedere caotico della folla che pare sempre condurre con sé alcunché di detonante, sono fenomeni che per un giovane stallone significano soprattutto tensione, minaccia e nervosismo crescente.

 

Allo zenit dell’impazienza, quando i corpi nerboruti rischiano di capitombolare al suolo a causa di qualche movimento troppo azzardato, un guardiano di età qualsiasi tra sei e cent’anni li redarguisce con lo scudiscio e poi torna seduto a bere, a pasteggiare dolci di miele o schiacciate fritte di acqua, sale e farina. I clan stanno seduti nella polvere mimetizzandosi al deserto, sotto tende lise o lussuose, a seconda di quanto s’è mostrato munifico il destino negli ultimi tempi, nella calura ardente dell’ombra, tra gli anziani che paiono tutti santoni e detengono pose solenni da fachiri, come se proprio le posture fossero l’unica proprietà privata.

 

Le bestie possono urlare, piangere, possono ammattire, sfinirsi e soccombere, purché non si spezzino una gamba o non la spezzino a un vicino. Ognuno di loro vale quanto un coupé nuovo e rosso fiammante di fattura occidentale, e da domani, e per tre giorni e tre notti, nella grande fiera inizieranno le operazioni di compravendita, e per i carovanieri più abili il problema del sostentamento sarà risolto per molti mesi. Incasseranno i contanti, cresceranno altre bestie, raggiungeranno altri mercati in Pakistan, in Mongolia o chissà dove.

 

Domani sarà caos. Ci saranno migliaia di nomadi, mercanti, proprietari di bestiame provenienti da ogni parte dell’Asia, ma la grande fiera ormai non appartiene soltanto a loro, col tempo sono penetrate striature d’Occidente, merito di coloni e lord inglesi che già un secolo fa venivano qui a scegliere i purosangue arabi per il Royal Ascot del Berkshire. Merito di turisti in cerca di hashish di buona qualità a costi contenuti o di spiritualità palingenetica. Merito dei tour operator che sanno bene quanto vale la vertigine dell’esotismo, ed è per accogliere meglio loro e anche me, è per far divertire i bambini e dimenticare la durezza della vita in sempiterno movimento che, forse, a nord-ovest dell’altopiano, un folto gruppo di uomini a petto nudo sta terminando di erigere una kalachakra d’acciaio, mentre venditori ambulanti di zucchero filato color fucsia, avvolto in sacchi di cellophane perché non si insudici, confabulano e si lamentano per gli scarsi affari.

 

 

E a ben vedere le ruote del tempo sono due, anzi sono tre, grandi ruote panoramiche che apparendo in controluce riportano alla mente Londra, Parigi, Vienna e Coney Island, sezionano il cielo in spicchi arroventati dall’incalzante tramonto. I grandi raggi metallici, le travi, i perni e le fuoriserie in miniatura ai loro piedi, i calesse e i fiocchi rosa di cartapesta sempre appartenuti a fiabe straniere antiche e moderne presto gireranno come carillon, ma già demoliscono l’illusione di realtà, e mi riportano all’iper-realtà dei ricordi intermittenti, al luna park itinerante dell’infanzia e ai suoi carnevaleschi artefici, gli ultimi nomadi del meridione d’Italia.

 

Mi preparo a scattare una foto, ma lo spazio d’immagine che volevo catturare è usurpato. Una nuova regina lo recrimina, anzi lo esige, lo fa suo. Ha dieci anni forse meno, un sari verde acqua decorato di fiori e pois neri e una corona di seta rossa, occhi turchesi e glaciali a dispetto della pelle scura di terracotta, bracciali collane e chincaglierie al collo, ai polsi e alle caviglie, laddove l’istinto ancestrale della sensualità dispone di tracciare le estremità sul corpo dell’animale donna. E com’è possibile, mi chiedo, che questa bambina sfidi già l’obiettivo con ruffiana naturalezza, com’è possibile che sappia già che non potrò resisterle, che finirò per fotografarla e pagarla come chiede, confermando e alimentando la sua già debordante vanità? Il suo trionfo è immediato. Scatto e pago 100 rupie, rispettando l’accordo tacito. Lei accenna un sorriso, un inchino, incassa e s’allontana, sovrana com’era arrivata, e io sento di essere stato sconfitto, forse volontariamente, ma sconfitto. Era lei il focus, l’oggetto del desiderio. Io non valevo nient’altro, ai suoi occhi, di una foto a pagamento.

 

 

Ma è quasi sera, e per le elucubrazioni non c’è più tempo. Il buio indurrà i puledri a dormire, in piedi sulle tre zampe che restano, proprio come vivono la loro stasi incomprensibile che per qualsiasi uomo sarebbe nient’altro che prigionia. La luce di un grande faro innalzato come nuovo sole artificiale a presidio dell’intera vallata di sabbia è il loro totem ed è il mio, e appena gli artificieri lo accendono i riflessi sparigliano i frattali come se fossero foglie secche polverizzate dal vento monsonico carico di detriti. Così come la nuova luce fa brillare a festa le tenebre in divenire, così i mantelli delle bestie ricoperti di polvere ritrovano le loro maculate policromie. Il raggio argenteo diviene subito tetragono alla sfida con le pupille accondiscendenti e inermi di chi guarda, e d’improvviso la polvere sembra rugiada. Eppure io mi tocco la fronte ed è essiccata, disidratata e sporca, e probabilmente inizierei ad avvertire disagio fisico e spossatezza se camminando senza meta non fossi incantato da un purosangue giovane che dev’essersi divincolato dal suo giogo, dal suo destino apparente, per disperdersi in avventurosa fuga.

 

È bianco d’avorio, ha i piedi d’acciaio perché è di razza araba, e qualche macchia più scura anticipa il nereggiare della coda. Incede libero come se fosse alla grande fiera di Pushkar per comprare e non per essere venduto. È superbo ma sembra tranquillo, trotterella, poi incorona una duna con un salto che mi fa pensare a Pegaso e conquista il controluce, come se intendesse mostrare alla folla la propria silhouette. Si sente il protagonista di Ombre Rosse. Si blocca dinanzi a una pozza per bere, poi scatta via fulmineo e per poco non travolge una carovana di turisti inglesi a bordo di un carro dalle ruote mastodontiche, perché non s’insabbino. La portantina è trainata da un cammello bardato a festa, con drappi rossi e corone, con veli dai pon-pon variopinti e gli occhi truccati, un giullare di corte imbellettato come un maharajah che non sembra per nulla affaticato dal suo opprimente lavoro. Allo scatto di Pegaso i turisti inglesi gridano di paura, un bastione di sabbia che pareva roccia argillosa si disgrega e crolla. Un nembo, un fumogeno di sabbia si solleva e occlude la visuale, ma dopo un attimo si scorge ciò che accade. Poche lunghezze di corsa vigorosa e un lazzo afferra il fuggitivo che si dimena, il collare di corda comprime la sua potenza brada, ma più i muscoli infuriano più l’oppressione si fa soffocante. Un gruppo di quattro uomini in turbante circonda la preda, l’accerchia come in un assalto notturno di briganti, uno di loro salta sulla groppa nuda di Pegaso con un salto che è più un volo, un altro afferra le sue briglie, altri due si aggiungono per tirarlo e bilanciare i rapporti di forza. La nube di sabbia s’ingigantisce, mi avvolge, poi lentamente il vento la disperde, Pegaso è battuto, riportato al recinto.

 

Quale metafora in fieri, più del caotico moto gravitazionale degli atomi sabbiosi che formano il deserto cambiando freneticamente posizione, descrive così bene, seppur sottotraccia, il grande spettacolo dell’uomo nomade, e al tempo stesso, il repentino e non meno intrepido passaggio di ciascuno nella vita? E qual è l’unità di misura quadridimensionale dello spaziotempo? La vita abituale, a casa, durante la quale mi domando spesso come curare la serpeggiante sensazione di disinteresse, dopo qualche ora in fiera s’è subito azzerata a un flebile ricordo.

 

Mi sono scrollato di dosso il distacco, che non è apatia e non è vigliaccheria ma è solo preservazione, selvaggia e disperata, contro una realtà escrescente, simulata, dilatata fino all’obesità dalla saturazione tecnologica e dal principio di virtualità come forma di sostituzione del mondo. Qui la sola simulazione possibile è individuale, quindi umana e non sistematica, e la realtà è ancora pura, in fieri, meravigliosamente, violentemente ambigua. Quanto sopravvivrei quaggiù, dove a cinque anni i marmocchi sanno già cavalcare a tutta velocità nel deserto e maneggiare una sciabola? A Pushkar, ciò che ho sperimentato come condizione momentanea del corpo è stato il senso dell’azione irreversibile, irreparabile. La vita è ancora governata dall’antico principio di realtà che non sottostà al giogo della sua costante rappresentazione. Mi chiedo cosa sarei in questa esplosone di bisogni umani ancora essenziali, dove l’unico spettacolo possibile è quello dell’hic et nunc. L’avventura è l’unico bene di cui c’è penuria assoluta nella vita a casa, lontano da Pushkar, e nemmeno si può comprare alla grande fiera.

 

E allora tanto vale rassegnarsi, mi dico. Prima che cali definitivamente la notte c’è da lasciarsi alle spalle il grande mercato e spostarsi verso il lago. Potrò assistere, da eterno spettatore, alle danze per il Kartika Purnima, sotto il plenilunio, insieme ai devoti in pellegrinaggio verso lo Jagat Pita Shri Brahma Mandir, uno dei pochissimi templi di tutta l’India dedicati al grande Brahma, creatore dell’universo prima della sua riproducibilità tecnica.

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