Jeff Nichols. Take Shelter

4 Luglio 2012

Le badlands americane sono piatte e sconfinate, non nascondono nulla, non lasciano via di scampo. Per il cinema sono un luogo iconico in cui dare vita a un fantasma che non si ciba del buio, della sorpresa, dello spavento, ma del loro contrario: la luce, l’attesa, l’ansia che si insinua lentamente.

 

Pensate a Intrigo internazionale, all’aereo dall’alto, a Cary Grant che vede tutto e non sa dove fuggire o nascondersi: ovunque si muova è a tiro, ovunque si giri è solo terra piatta, nessun riparo o quasi. La paura lo circonda, lo soffoca. Sopravvive, certo, ma il ribaltamento di prospettive, il troppo spazio dove fuggire e dunque l’impossibilità di fuggire, generano un trauma soprattutto per lo spettatore.

 

 

A Hitchcock ovviamente non importava nulla delle terre selvagge, dei misfits, della disperazione bella e maledetta: ma come spesso è accaduto nel suo cinema, nello spazio infinito del suolo americano aveva intravisto una terra di nessuno da riempire con il rimosso di una nazione.

 

E cinquant’anni dopo, parecchi Malick, Springsteen, Monte Hellman e road movie dopo, il giovane regista Jeff Nichols, classe 1978, a detta di molti il talento più promettente del cinema americano, tre film all’attivo, esploso lo scorso anno proprio con questo Take Shelter – che da noi arriva solo ora, ed è già tanto che ci arrivi – e consacrato poche settimane fa con il suo ultimo film, Mud, in concorso a Cannes, riprende l’idea hitchockiana di spazio americano aggiornandola al nostro mondo, alla paura elevata a sistema di pensiero e non solo a meccanismo narrativo e simbolico.

 

 

In Take Shelter, cioè “trova riparo”, è lo sguardo aperto sulle immense pianure dell’Ohio a condannare gli abitanti di un mondo quieto e sotto minaccia: l’impossibilità di una fuga, di una protezione, sta nell’occhio, nel semplice atto di guardare una realtà interamente visibile, senza ostacoli, aperta e impudica. Lo sguardo spazia all’infinito, accede a tutto – a un uragano all’orizzonte, a un groviglio scuro di nuvoloni, a stormi coreografici di uccelli – e si fa travolgere da tutto, non trova appigli, resta accecato dalla propria ipermetropia.

 

La bravura di Nichols sta nel minare alla base il realismo del linguaggio classico, l’implacabile sistema che comprende nello schermo, attraverso il montaggio narrativo, la complessità del reale. Nichols abbraccia la totalità della voce americana per eccellenza, il suo realismo immanente, e si spinge oltre: nell’alternanza di primi piani e di piani medi, di piani d’insieme e snodi narrativi, trova un eccesso, un qualcosa di troppo, che sfocia nell’iperrealismo di una dimensione così chiara e netta da svelare i segni del caos. Ed è lì che nascono le presenze invisibili del suo mondo e del suo cinema, la natura imperscrutabile di una paura senza nome e dai mille volti: qualcosa che c’è eppure non si vede, qualcosa che non si vede eppure che c’è, qualcosa che si insinua, che distrugge e vanifica.

 

 

Il discorso, chiaramente, non è solo politico o metaforico, con tutto ciò che già sappiamo sull’America del dopo 11 settembre e delle guerre preventive. È soprattutto una questione di rappresentazione. Con Take Shelter Nichols si chiede come il cinema americano classico possa interpretare la contemporaneità, rispondendo a un collettivo bisogno di chiarezza di fronte all’invasione visiva di cui siamo vittime.

 

Take Shelter trova nella luce la propria oscurità, nella terra il proprio riparo, nel buio che segue l’eccesso di luce la propria rinascita. Un cinema che riprende tutto, che vede tutto, che al di là di ogni possibile caos o paura realizza la propria classicità, non può che essere la realizzazione dell’angoscia hitchockiana, la risultante di una serie di forze centrifughe annullatesi in un equilibrio precario eppure resistente.

 

 

Nichols non cerca soluzioni e al tempo stesso non insinua dubbi per puro piacere: quello che vuole fare è mettere in scena una palingenesi dello sguardo e dell’anima americana. La guarigione di cui ha bisogno, come nel caso della malattia mentale che colpisce il protagonista, non mette fine alle paure e alle inquietudini dell’uomo comune, ma porta al controllo e alla gestione dell’esistente. Nel magnifico finale il campo visivo si fa ancora inghiottire dalla minaccia di un triplice e spaventoso uragano: ma l’abbraccio di una famiglia come tante è lì per combatterlo, per affrontarlo, opponendo la realtà di un mondo né giusto né sbagliato, semplicemente vero, all’invasione dell’imprevisto e del caos assoluto.

 

Come ha scritto Salvatore Scibona nel suo magnifico romanzo La fine: “la paura è una freccia puntata verso il nulla”. Ed è proprio quel nulla che pervade le immagini di Take Shelter, così splendide e vere da abbagliare: un nulla pieno eppure visibile, al quale Jeff Nichols prova a dare un bersaglio, trovando nell’inossidabile famiglia americana un capro espiatorio, ma anche un punto dove la freccia possa sbattere e finalmente fermarsi.

 

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