La città fossile / Matera

18 Novembre 2018

Molti turisti affluiranno nel 2019 a Matera, per quell’anno capitale europea della cultura. Ma non vedranno i Sassi – la parte antica di Matera – come mi apparvero quando nel 1986, per la prima volta, li vidi. 

 

I Sassi sono una delle città più antiche del mondo, dopo Gerico in Palestina e Aleppo in Siria, esisteva già nel Paleolitico. Ma quando vi andai i Sassi erano una città completamente morta, ignorata dal turismo. Col tempo poi ho potuto vedere la morte di questa città morta. Oggi essa brulica di vita. Vi andavo per fare l’amore con una ragazza di Matera. È come si arriva in una città per la prima volta, per quale ragione ci si va la prima volta, che cosa ti è successo là la prima volta, quel che resterà indelebile per te di quel luogo, come un imprinting. Perciò per me, tuttora, Matera resta una stravagante città erotica. 

 

Si paragona sempre l’Italia geografica a uno stivale. Ma la si potrebbe vedere anche come una figura umana, il Nord con le Alpi è la testa, Calabria-Sicilia sono una gamba, la Puglia l’altra gamba, Corsica-Sardegna il braccio destro, il braccio sinistro manca. In questa silhouette la Lucania – la regione di Matera – è giusto il pube dell’Italia. Posso consigliare ai lettori una luna di miele non a Venezia o a Bangkok, ma a Matera. E questa connotazione erotica non è una mia idiosincrasia. Già lo scrittore Carlo Levi negli anni ‘30 vedeva che “il sesso in Lucania è inevitabile, ha la forza di un dio”. Notava che, in quella terra allora contadina, gran parte dei bambini erano nati fuori del matrimonio. Non c’erano prostitute in quei paesi – la disponibilità sessuale delle donne le rendeva superflue, allora.

Citerò spesso Levi, che all’epoca fu mandato “al confino” in un villaggio lucano dal fascismo in quanto contrario al regime. Il “confino” era una residenza forzata in un’isola o in un paesino sperduto del Sud. È notevole che, a differenza della Guyana per i francesi e dell’Australia per gli inglesi, il fascismo non mandasse gli oppositori nelle colonie italiane all’epoca, come Libia, Eritrea, Somalia o Etiopia, ma nel Mezzogiorno; pensando, non a torto, che l’entroterra delle regioni del Sud fosse più isolante dell’Africa o di un’isola.

 

Da due anni manco da Matera. Almeno fino a due anni fa, non si passava mai per Matera. Come all’isola di Pasqua, bisognava andarci apposta, anche se la Lucania è un’isola pubica non circondata dall’oceano, ma direi occultata, acquattata in una piega del tempo. Per Matera non passa nessuna linea ferroviaria, non passa alcuna autostrada importante. È ai margini della regione più marginale d’Italia, oggi detta Basilicata come a voler far dimenticare il nome con cui la si è sempre chiamata: Lucania. E qui io, restituendole la sua dignità, così la chiamerò. 

 

Se si vuole raggiungere Matera in treno, bisogna scendere alla stazioncina di Ferrandina, e poi da lì fare altri 36 chilometri di stradaccia in auto. La linea in cui si trova la stazione di Ferrandina, Potenza-Metaponto, è del tutto secondaria, ci si arriva su treni vetusti e tossicchianti. L’aeroporto più vicino, quello di Bari, è a ben 65 chilometri. 

 

Anni fa a Matera si costruì una stazioncina ferroviaria, nella quale però non è stato edificato alcun binario. La si può visitare come un monumento moderno abortito, alte piante irte al posto della strada ferrata, sembra uscita da un quadro di Magritte.

 

 È come se l’Italia avesse nascosto in una tasca del proprio territorio questa città scabrosa. Palmiro Togliatti, leader del partito comunista all’opposizione, nel 1948 parlò di Matera come “vergogna nazionale”. È una pustola ancestrale di cui vergognarsi, o una perla da mostrare al mondo? Oggi ci si è decisi per la seconda alternativa.

 

I Sassi – la “vergogna” – furono sgomberati a partire dal 1952. Quindicimila persone – la metà della popolazione dell’intera città – subirono questo urban cleansing dopo che ci si era accorti che le condizioni igieniche dei Sassi erano terribili. I Sassi sono rimasti deserti fino a pochi anni fa. Poi a poco a poco le case dei Sassi sono state ristrutturate, vi si sono costruiti bagni, cucine... E wifi, e antenne e parabole per la TV.

 

Andai a Matera per la prima volta in auto. Dopo Potenza, capitale della Lucania, inoltrandosi nella regione profonda, il paesaggio cambiava: solo colline tondeggianti, gialle e brulle, come accasciate da una pigrizia secolare, un deserto ondulato, immenso campo di rovine di agricolture povere. Capii cosa volesse dire Carlo Levi con “cupa passività di una natura dolorosa”. Andando avanti, cresceva l'impressione di entrare in un mondo ex. Non era più il paesaggio chiassoso, variopinto, caotico del Sud: avevo passato un'invisibile frontiera del tempo, ero entrato in uno spazio inattuale. “Terra senza fiori, brulla, come una testa rapata da cui emerge un pelume cortissimo”.

 

Attraversando la Lucania, ben presto un’angoscia indefinibile, estetica, mi catturò. In quelle terre non ci si sente “a casa propria”, esse hanno un qualcosa di unheimlich. Le cittadine lucane sembrano quasi soffocate, sotto tono, appaiono remote, aliene, non attuali. Ma allora, perché questa Lucania così respingente mi affascinava? Mi affascinava proprio perché mi respingeva. La Lucania è criptica, anche quando si maschera da terra accogliente. Sembra nascondere un segreto tra le falde del suo “paesaggio bianco, monotono e calcinoso”. 

 

Quando finalmente arrivai a Matera, dovetti percorrere un agglomerato di case moderne costruite negli anni ‘50 e ‘60 per dare un tetto alla popolazione dei Sassi, strappata ai suoi antri originari. All’epoca, per costruire la Nouvelle Matera Radieuse, si fece appello ai maggiori architetti italiani, ma il risultato lascia molto perplessi. E chi era nato e aveva abitato negli inabitabili Sassi ha spesso lamentato il proprio esilio in questa Matera banalmente moderna. La Matera delle archistar pare un vasto insieme di prefabbricati allestiti per accogliere terremotati, anche se il “terremoto” di Matera è il suo splendido centro inquietante.

 

Giunto al centro della città, andai nell’unico hotel che, all’epoca, avesse vista sui Sassi. Vi arrivai al tramonto. Una volta entrato in stanza, andai verso la finestra, e vidi il Sasso Barisano. Rimasi folgorato. 

 

Cinquant’anni prima si era trovata di fronte alla stessa scena la sorella di Levi, che ce ne parla in Cristo si è fermato a Eboli. Costei era giunta una mattina del 1936 a Matera

 

 

Allontanatomi un poco dalla stazione [allora ce ne era una, di stazione!], arrivai a una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall'altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi. Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l'inferno di Dante, in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto. Alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera.

 

Anche io ora ero di fronte a quel precipizio. Era come una sola enorme scultura rugosa ricavata dalla roccia, luccicante come oro sbiadito sotto gli ultimi raggi di un sole morente. A differenza del 1936, quando i sassi brulicavano di abitanti di bassa statura con volti spesso ingialliti dalla malaria, nel 1986 nessuno viveva più in quella massa spessa di sassi attraversati da scale anch'esse di sasso che si inerpicano con capriccio su colline raschiate. E in fondo a questa lava di case-incrostazioni non c'è un fiume, o una vallata, nulla: solo un buco, nascosto nella terra brulla, il fondo di un pozzo dove la ressa delle case pare precipitare per esserne inghiottite. La città sembra aggrapparsi alle pareti interne della voragine per non cascarvi. Una colata immobile verso quella vulva invisibile. E sul ciglio più alto di questo imbuto, delle caverne scavate nella roccia, occhi neri che crivellano le pareti, occhieggiano come ciechi che sorveglino la città circostante, guscio senza vita. 

 

Anche io ero finito in quel vicolo cieco, in quel finale morto – dove latravano i cani, forse alla luna, veri padroni di quel cimitero di pietra. O forse erano lupi.

 

Pare che il nome Lucania venga dal latino lucus, bosco; o dal greco lykos, lupo. Una plaga insomma di boschi e di lupi, selvaggia, teatro ideale per le cacce di Artemide. Per secoli culla e covo di briganti, inconciliabile con qualsiasi grande agglomerato metropolitano. Oggi non ci sono i boschi perché per secoli l’hanno disboscata per piantare grano in una terra del tutto inadatta; il risultato è oggi una regione di colline e rupi brulle. La popolazione lucana è minuscola, poco più di 500 mila persone. 

Matera è diventata scenario preferito di film a sfondo religioso nel mondo antico. Dei 55 film più importanti girati a Matera, sei sono di ambientazione biblica. Lo scopritore di Matera come scenario ideale di storia sacra fu Pier Paolo Pasolini: girò Il Vangelo secondo Matteo a Matera e in un paesino non lontano, Badile, nel 1963. Quarant’anni dopo, sulla sua scia Mel Gibson scelse Matera come fondale del suo La Passione del Cristo del 2004, grande sagra di sadismo puro scambiato per propaganda pia. L’ultimo è il Ben-Hur hollywoodiano del 2016 diretto da Timur Bekmambetov.

 

È un paradosso che questa regione che dà un volto alla Palestina della Bibbia riveli invece un fondo non-cristiano, o pre-cristiano. Non foss’altro che per la persistenza, soprattutto in ambiente rurale, di pratiche magiche ereditate da un passato abissale. Gli Antichi consideravano il lago d'Averno a Cuma, vicino Napoli, l'entrata dell'Inferno. Il lago d’Averno oggi è una contrada amena, colorata, vivificata dal lago e dal mare. Come proponeva la sorella di Levi, l'entrata degli Inferi avrebbe dovuto essere piuttosto Matera. Eppure questa entrata ideale all’Inferno è diventata il fondale fotogenico di film religiosi.

 

Non è forse un caso che il libro che fece conoscere questa terra dimenticata in tutto il mondo si chiami Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Levi nel 1945. Il titolo riprende un adagio dei contadini lucani all’epoca, che dicevano: “Noi non siamo cristiani. Cristo si è fermato a Eboli”. Nel linguaggio popolare dell’Italia del Sud “cristiano” significa “essere umano”. Insomma, “noi non siamo esseri umani”. Eboli è una cittadina a sud-est di Napoli: oltre Eboli, una frontiera invisibile separa la regione di Napoli – famosa, turistica, chic – dal Sud profondo, da quel buco nero della storia che sono Lucania e Calabria. Anche se oggi la Lucania non è la regione più povera d’Italia – Puglia, Sicilia, Calabria e Campania sono ancora più povere. Perché nel frattempo in Lucania sono state portate le industrie, la Fiat impiantò una grande fabbrica a Melfi.

 

Ma “noi lucani non siamo cristiani” è una frase che andrebbe presa anche alla lettera. La cristianizzazione di quelle terre, per millenni, è stata solo abbozzata, abborracciata, il cristianesimo là è stato una leggera pellicola appiccicata su un fondo rimasto pagano. Attraverso il mondo contadino, in tutta Europa, si è rintanata per secoli una resistenza cocciuta, inerziale, ironica al Cristianesimo, il quale ha sempre maledetto la magia. Da qui, forse, quello straripare erotico pagano che mi catturò all’epoca.

 

Oltre alla Matera medievale, i Sassi conservano ancora spelonche del Paleolitico. Si vedono tracce dei suoi abitanti che risalgono a 15.000 anni fa. Molte delle case che scendono in profondità nel calcare dolce e spesso della gravina sono state abitate senza interruzione dall'età del bronzo fino agli anni ‘50. La prima definizione di Sasso come rione pietroso abitato è in un documento del 1204. I Sassi è una città paleontologica, che nel corso dei millenni ha conservato come congelati lasciti dei vari secoli senza mai cancellare del tutto i propri passati sprofondati nel tempo. Matera si è auto-conservata senza bisogno di essere luogo protetto dell’UNESCO.

 

Eppure nel 1993 Matera è stata proclamata dall’UNESCO Patrimonio dell’umanità. Non per l’inquietante bellezza dei Sassi e per i beni artistici che contiene, ma per la sua unicità archeologica: essa mostra le prime tracce conosciute di adattamento di Homo sapiens a un ambiente inospitale, perché scarso di acqua. A Matera si vedono le più antiche cisterne a noi note, oltre che grotte adibite probabilmente a immagazzinamento. Nel corso dei millenni, le cisterne hanno scandito la vita della città. Nel 1991 si è scoperta nel centro cittadino una monumentale cisterna, detta il Palombaro Lungo, di cui si era persa anche la memoria pur essendo stata costruita nell’Ottocento. Matera, città di pietra, ha dovuto risolvere – come Los Angeles – l’eterno problema dell’acqua. 

 

Fare l’amore in quelle spelonche paleolitiche è tentazione troppo forte per le coppie. Ada e io non vi resistemmo. In pieno giorno, schivando i rari gruppi turistici, era facile trovare grotte e cunicoli deserti, cappelle sotterranee illuminate con parsimonia, corridoi imprevisti, cripte silenziose che attraevano baci e improbabili posizioni amorose, come se la necropoli avesse sornionamente allestito rifugi per permettere agli amanti il brivido di amplessi fuggitivi. E lo spessore delle pareti di roccia soffocava i gridi amorosi.

 

Nella grotta che ci fece da alcova, però, sentivo attorno a me qualcosa come una presenza. Eravamo soli, Ada e io, eppure avevo l’impressione che qualcuno o qualcosa ci stesse accanto, quasi sentivo l’alito di una vicina assenza, come se nel silenzio dei Sassi interrotto dall’ululare dei cani lupi, una sorta di frastuono non udibile circondasse i nostri corpi spossati. Lo feci notare a Ada che, sorridendo, disse: “Forse sono i monachicchi”.

 

“Da bambina – mi raccontò – nostra madre, la sera, ci portava tutte e tre noi sorelle a letto, e spesso ci diceva ‘Se non dormite, arriva il monachicchio’”. Ma non si trattava di una minaccia di qualcosa di atroce, come il lupo o il Mammone; era minaccia di un’insonnia, di un restar svegli per lo scatenarsi di una vita infantile che non ha potuto svolgersi. La minaccia di un’eccitazione perenne senza sonno.

 

Credo che ogni zona d’Europa, o del mondo intero, abbia qualche sua variante di credenza negli spettri. Ma la declinazione lucana colpisce per la sua originalità. Campagne e villaggi della Lucania sono abitati da spiritelli detti monachicchi. Sono bambini morti prima del battesimo. A Napoli abbiamo e munacielli, così detti perché l’ectoplasma che fa da alone alla loro sagoma inconsistente ricorda il saio dei monaci: sono spettri casalinghi, si insediano per sempre nella casa che fu la loro da vivi e accolgono i vari inquilini o con benevolenza o con malevolenza. I monachicchi lucani invece vivono nelle grotte, il che spiega quel loro fluttuare nella spelonca che Ada e io avevamo scelto. Benché invisibili, questi bimbi senza carne si affollano attorno agli umani, infliggendo loro scherzi, dispetti, marachelle, ma mai danni seri e davvero dolorosi. Non odiano i viventi, li stuzzicano, li snervano con le loro impertinenze, come se volessero assolutamente farsi notare, buffamente, da chi ancora vive. Essi sono come il lapsus o l’atto sbadato della vita, ti solleticano i piedi o ti rovesciano sul ventre la brocca d’acqua che stai spostando, si infilano negli interstizi vuoti dell’esistenza per farti sentire la loro birbantesca vitalità. Il loro punto debole è il cappuccio rosso che ciascuno di loro porta, e che ne fa un’irresistibile metafora del pene: se qualche vivente, per avventura, riesce a strapparne uno bucando la coltre che separa lo spazio della materia da quello dello spirito, è urgente che il monachicchio recuperi il suo cappuccio, al più presto. Il cappello è appendice indispensabile perché essi possano proseguire la loro frenetica e allegra pseudo-vita. I grandi, lunghi silenzi di quell’”immobile mare di terra” che è la Lucania sono come il velo di un’atmosfera in realtà affollata di piccoli spettri, brulicante di indomabile e ininterrotta vita puerile.

 

I monachicchi sono insomma infanzie mai entrate nella vita del senso, e che quindi occupano le crepe, le scanalature del non-senso che squarciano la regolata piramide o scacchiera del mondo. Non essendo stati “completati” dal battesimo, sono completati post-mortem dal loro buffo cappuccio, rosso come il glande, folletti che denunciano la brulicante presenza di una vita incongrua, pletorica, che disturba la cadenza pianificata, coordinata, del mondo adulto.

 

I più ricchi a Matera vivevano in case di pietra che poggiavano nella pietra; i più poveri, di solito contadini, abitavano nella pietra, in grotte, che un tempo erano state anche chiese rupestri, di cui ancora restano lacerti di affreschi sacri medievali stemperati dal tempo. Oggi molte di queste caverne, abitate fino a cinquant’ anni fa, sono piccoli musei: l’ambiente è ricostruito come era allora, vi si ritrovano le stesse povere cose, i giacigli, le madie, i vetusti attrezzi agricoli, la conocchia, e una voce registrata spiega come vi si vivesse.

 

In queste case-grotte, in uno spazio angusto si abitava in tanti – i genitori, i figli, i nonni, gli zii… – e con loro alcune bestie, l’asino o la mucca o la pecora. Quei trogloditi avevano distinto tre strati all’interno della grotta: le bestie sotto, in buchi e pozzi; gli umani in mezzo; e, sospesi su culle pensili, i lattanti. Vi imperversava la malaria, che falcidiava i poveri come mosche. I bambini erano preferibilmente affetti dal tracoma; la dissenteria e una sorta di febbre nera, forse di origine africana, kala azar, erano di casa. Medici ignoranti, neghittosi o privi di risorse offrivano a questa marea di malati un solo rimedio, toccasana d’altri tempi: il chinino. Sempre e solo chinino. Nelle scuole pubbliche maestri e maestre si guardavano bene dall’insegnare, i ragazzi uscivano analfabeti più o meno come vi erano entrati. Così i poveri avevano vissuto per secoli, senza che nessuno, nel resto dell’Italia urbana e colta, se ne accorgesse. 

 

Il mondo se ne accorse solo dopo la seconda guerra mondiale, grazie al talento di Carlo Levi e del poeta lucano Rocco Scotellaro (1923-1953), tutto d’un tratto. Se ne accorse attraverso la denuncia politico-letteraria. Dopo il successo di questi autori, cominciò quindi l’operazione di spopolamento dei Sassi, e l’industrializzazione della Lucania. Così, una volta diventato visibile, quel misero mondo contadino che quei brillanti scrittori avevano fatto emergere dalla rimozione è svanito nel giro di qualche anno. E questo non solo perché, ovviamente, il Cristo di oggi – i media, la tecnologia, le auto – è arrivato anche in Lucania. Non è casuale il fatto che questi autori siano giunti giusto in tempo, sull’ultima scia dell’antico, per rivelarci quel mondo poco prima che sparisse. (Ed è sparito davvero? O si è nascosto tacito nelle pieghe del manto del Cristo tecnologico?) Forse è stato proprio il fascio di luce che quegli scrittori hanno gettato su quel mondo a farlo, ben presto, dissolvere. Quando “i cristiani” si accorgono dei “pagani” e li amano, il paganesimo muore.

 

Ho parlato con un paio di vecchietti che hanno vissuto l’infanzia e la prima adolescenza in una di quelle spelonche dei Sassi. Quei veterani parlano di quella vita sassosa con nostalgia, il ricordo li commuove. Si dirà “si rimpiange sempre la propria infanzia, anche se è stata poverissima”. Il punto è che in quelle grotte, piene di animali e di odor di minestra di farro, ci si amava. Ciò che negli anni ‘40 e ‘50 appariva mostruoso, oggi non solo ci affascina, ma sentiamo di aver perduto un modo di vivere che non sapendosi intollerabile era tollerato bene, e che vive nei ricordi dei vecchi con il gusto dolceamaro del rimpianto.

 

E c’è un tratto che rende tutt’oggi Matera unica: essa è praticamente priva di criminalità. In un contesto meridionale dove prosperano la mafia, la camorra (criminalità organizzata napoletana), l’ndrangheta (criminalità organizzata calabrese), la Sacra Corona Unita (criminalità organizzata pugliese), Matera è un’oasi di benevolenza.

 

Bisogna consolarsi pensando al fatto che i nostri posteri troveranno una commovente bellezza in quello che noi oggi leggiamo come dilagare di una impoetica banalità. Questo mondo che ci appare sempre più omogeneo, aridamente globalizzato, tra qualche decennio forse apparirà diversamente. Saranno i McDonald’s, presto scomparsi, luoghi rari che si vanno a visitare così come oggi visitiamo le catacombe o i Sassi? Certo chi seppelliva nelle catacombe non avrebbe mai pensato che quei luoghi, magari per loro orripilanti, sarebbero diventati siti di elezione di un turismo planetario. Il nostro presente piatto apparirà ai posteri, come la banalità dei Sassi commercializzati di oggi, una sorta di straziante perdita di un vissuto che non ci sarà più. I morti ci seducono con la loro assenza, il passato ci sfugge, ci snobba, perché sappiamo che non lo possederemo mai. Ed è questo l’incanto, quasi insopportabile, della Lucania, di Matera, landa che ha collezionato millenni di assenze. Un mondo, una città, devote a essere sempre, in ogni epoca, anche il proprio passato.

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