Passaporto biometrico a Londra

15 Aprile 2015

Un mese fa sono andato a St. Lucia. Un mese e una settimana fa mi sono accorto che il mio passaporto era scaduto da mesi. Sono riuscito a ottenere un passaporto svizzero provvisorio a Londra e a partire poco più tardi del previsto. A St. Lucia la colonna per il controllo passaporti è così ingiustificata da sembrare un monito, l’affermazione di qualcosa. Forse: «Rinunciate al tempo accelerato e funzionale, lasciatevi assorbire dalla risacca dello spazio puro e si riempirà di felci giganti e grovigli pluviali, diventerà mare e oceano, unione e cancellazione dello spazio e del tempo». Ma non credo. Quando infine arriva il mio turno il giovane impiegato gira e rigira i miei documenti, c’è qualcosa di anomalo, non vado in hotel, non sono qui in vacanza, e per cinque minuti buoni lui sembra domandarsi cosa potrebbe domandarmi, poi mi chiede un numero di telefono e io glielo do, e via verso il prossimo controllo.

 

Ora sono in partenza per Boston. Gli USA hanno amabilmente semplificato il processo di accettazione per gli europei grazie al programma di visto ESTA, che puoi fare da solo on-line su diversi siti e a prezzi diversi, tra 14 e un’ottantina di dollari. Per creare il senso di minaccia che prelude a ogni discorso sulla sicurezza, va detto che l’accettazione del visto ESTA non garantisce l’accesso quindi per ora il finale di questo articolo è aperto. A furia di pagine internet e telefonate skype ho capito che col passaporto provvisorio il visto ESTA non funziona, così ho iniziato la pratica per un vero passaporto biometrico svizzero a Londra. In termini personali, questo realizzare tardivo che la mia identità era scaduta da tempo, per poi passare da una provvisoria identità d’emergenza e infine ottenere, in fretta e furia e calma, una nuova identità trasformata, mi sembra azzeccato (e il mantra dei miei dati anagrafici ripetuti in colloqui e formulari vale come concentrato di sessioni psicanalitiche o avemaria). In tutti gli altri termini: una menata.

 

Heathrow sta competendo con Gatwick (o viceversa) per l’ampliamento, forse per questo puntano su un servizio mai visto, un nugolo di signorine (britanniche e americane) in tailleur amaranto che vengono a offrirti il loro aiuto non appena alzi il mento di un paio di gradi. Una mi deposita davanti al primo controllo di sicurezza, dei trabiccoli dietro i quali sono appostati attendenti indiani o pachistani a cui devo rivelare da quanto conosco gi amici che vado a trovare, che lavoro fanno. Poi check-in (attendenti perlopiù asiatiche), controllo di sicurezza principale, gate. Lì vengo selezionato per un extra controllo di sicurezza «random». Sul lato sinistro della sala c’è un tavolino che non riluce come gli altri, e una persona che non sorride come tutti gli altri impiegati Delta. È molto piccolo e con le ossa fini, una sorta di fringuello dopo i mesi invernali, anche il naso è aguzzo, la cortesia appena un po’ inquietante, malgrado uniforme e guantini c’è un vago senso di sudicio, anche la tecnologia è un po’ deludente: passa un foglietto sul mio laptop, ipad e cellulare, e lo infila in una macchinetta che dopo un attimo pixela PASS. La chierica di capelli cortissimi e ispidi effettua una rotazione laterale affinché i suoi occhietti azzurri chiari mi lancino un’occhiata rapida, tanto enigmatica quanto significativa, quando risponde alla mia domanda con un sibilo: «explosives».

Sono in aereo. Il CEO della Delta dallo schermo mi istruisce sui core values della sua ditta: honesty, integrity, respect, perseverance, service. Priorità prima: safety. Il loro impegno: fare quello che è giusto per i loro clienti. L’aereo manovra.

 

 

Due settimane fa ero a Berlino, così diversa da Londra. A Londra lo spazio è lottizzato, spartito e etichettato. Qui non puoi fumare (anche se all’aperto), qui sei «libero di fumare» (un metro più in là). «Quello, un sigaro? Una patata? Un pannolino pieno? La totale capitolazione della pianificazione urbanistica londinese di fronte al grande capitale la si riscontra proprio qui, in questa collezione improbabile, infantile, casuale di sex toy che penetrano ottusamente l’aria privatizzata» scrive il Guardian dello skyline londinese. Molti dei nuovi grandi edifici sono cinicamente sinceri quando affermano, e lo fanno tutti, di essere una città verticale, una città nella città. Dato che sono strettamente privati e sorvegliati, dove sarebbe lo spazio pubblico che caratterizza gli agglomerati umani? Più o meno dove lo si trova, sempre di più, a Londra: da un’altra parte. Nell’ultimo decennio sempre più aree di accesso pubblico sono sviluppate e gestite da compagnie private: non solo le cittadelle di uffici e negozi ma zone di passaggio a cielo aperto, i nuovi parchi come l’Olympic park, le rive del Tamigi, piazze, strade e mercati. Perfino il pacchiano progetto del Garden Bridge, pensato perché la gente faccia i pic-nic sul fiume, sì, ma non più di otto alla volta e prenotando in anticipo. In tutti questi posti il cittadino deve essere pronto a rinunciare a dei diritti e ad assumere dei doveri (in alcuni centri commerciali, un dress code...). Non te ne accorgi consuetamente. Ma se ne sono accorti, per esempio, gli Occupy London quando hanno dovuto rinunciare alla manifestazione in Paternoster Square, dove ha sede la Borsa, per il semplice motivo che appartiene alla Mitsubishi e può essere chiusa al pubblico, e hanno penato a trovare uno spazio pubblico da occupare nella City.

 

A Berlino le cose sono diverse, da questo punto di vista forse opposte. Aeroporto di Schönefeld. Stanze spoglie, sporche, lentezza burocratica, nessuno sfoggio di tecnologia o gamme cromatiche. Questa era Germania dell’Est. Cielo plumbeo. E quando si esce, di più. La ghiaia aguzza rompe la rotella del mio trolley e lo strascico fino alla stazione del treno dove, nell’androne sotterraneo, devi avere l’importo necessario in moneta: l’automatico non accetta banconote o carte di credito, e non solo non c’è un’anima, non c’è neanche una biglietteria. Riesco solo a comprare un biglietto ridotto, facendo affidamento sulla flessibilità dei tedeschi e la loro comprensione in materia di agevolazione del debito (va detto che questa facile ironia è tendenziosa: la signora controllora ha poi accettato di buon grado la mia spiegazione). E salgo in treno, ferraglia immobile nella tundra immobile.

 

Che poi si metterà in moto e al vuoto di alberi secchi e chiazze di neve grigia succederà la parata di blocchi abitativi e fabbriche mano nella mano. Ma anche in città, ogni volta, sono colpito dal vuoto. Dallo spazio ampio e disoccupato. Le strade larghe, parcheggi liberi, lotti non allottati, gli edifici abitativi un po’ più bassi di quanto ti aspetti, una prospettiva che anche tra i nuovi palazzi modernissimi ti fa percepire, dietro l’angolo, il vuoto.

 

Allo stesso tempo, non è un vuoto che ispiri un senso di libertà, possibilità o anche solo abbandono, stasi (ehm...), quanto qualcosa di non visto ma presente, ben presente e cementato. Questa impressione ha trovato conferma vedendo il nuovo edificio dei servizi segreti, Bundesnachrichtendienst (BND), di cui i berlinesi criticano la posizione, così centrale, in Chausseestrasse proprio tra Mitte e Wedding, lì dove i prezzi degli appartamenti raddoppiano e si sfoggiano cassette delle lettere fiscali di compagnie fisicamente altrove – cioè dove il tempo presente convive con l’ovunque. È uno stabile immenso, architettonicamente interessante quanto leggermente angosciante e opprimente – e ancora di più quando si ritrova la facciata a cellette verticali in altri enormi edifici, vicino al Bundestag e altri punti chiave. Questo mastodonte di inferriate mi è piaciuto, rispondo agli amici berlinesi, perché mi mostra il volto di quanto percepivo invisibile nel vuoto tutto attorno. Latenza più che vuoto, quindi qualcosa di rimosso e potenzialmente pericoloso.

 

Sono in volo verso Boston. Mentre consumo il peggior cibo da aereo in decenni (gli champignon hanno la fibrosità del lucido cuoio sintetico cinese e per mettere a fuoco questa impressione li ho mangiati quasi tutti – mica grave, direte voi, se sei uso a addentare borse o cinture) penso alle palme.

 

Le palme di St. Lucia, o meglio alcune palme di St. Lucia. Quelle che costellano i resort, architettano il paesaggio, avverano il luogo comune (sarà il cugino stronzo dello spazio pubblico? e del bene comune? amico del male minore?) necessario per confermare una traballante serie di ipotesi riguardanti il rilassarsi, il tempo, la vacanza, il proprio lavoro e la propria vita. Soppiantano la vegetazione spontanea, come le acacie della poesia di Walcott («mi sentivo così libero scrivendo sotto le acacie»). Insomma, sono un servizio di sicurezza, e infatti servono anche a semi-celare le mura di cinta. La capigliatura è anomala, ma sono lì a proteggere il nostro diritto di vedere le cose come non sono ma come ci è stato detto che sono in un lungo discorso che ci ha convinti: tutto va bene. Siamo noi i buoni. Gli altri non stanno poi troppo male. Siamo in buone mani.

 

E penso a due strane palme metalliche, longilinee, fronzose erette sul retro dell’edificio BND. Non proprio la prima cosa che ti aspetti di trovarci. A meno che qualcuno lì la pensi come me, altre motivazioni simboliche potrebbero essere: le fronde frastagliate come reticolo di informazioni (segrete, rubate) che nell’universo-mondo digitale in cui ci confessiamo ogni secondo convergono in un centro intelligente, lì. E il fatto che siano piante sembra confermare che è tutto normale, la natura fa il suo corso. Mentre quei lunghi tronchi, be’, loro se ne sbattono di rondini e primavere: due colonne messe al punto giusto bastano per asserire un impero.

 

E scrivere «impero» basta per portarmi a Zbigniew Herbert. Nel suo saggio Securitas Herbert descrive come questa dea fu inserita nel pantheon romano agli inizi dell’Impero, a protezione dell’imperatore, quasi furtivamente e senza alcuna preparazione teologica. Difatti i sobri romani riscontrarono presto una contraddizione: il legame con una sola persona privava la dea dell’indispensabile universalità. Seguirono lunghi dibattiti e infine il senato si trovò a dover decidere se avere una o due dee Securitas, ma non deliberò mai. E, sornionamente, solo la Securitas dell’imperatore rimase. Cito la fine del saggio del poeta polacco, che traduco dall’inglese:

Securitas appartiene alla specie dei mostri. A confronto, che roba sono tutti quegli infantili mostri-giganti, draghi, mezzi uomo mezzi bestia, ibridi cuciti insieme alla bell’e meglio? Securitas ci somiglia. È un mostro dal volto umano.

Come ogni divinità, Securitas trae forza vitale dalle nostre speranze e paure. Conosce a fondo la psicologia. Non prodiga l’eterna giovinezza, che è un trucco da ciarlatani. Non promette altri mondi, né ci inganna con concezioni della giustizia, perché alla fine dei conti tutti noi – nelle profondità del cuore – facciamo esclusivo affidamento a un atto di compassione finale. Securitas ci mette faccia a faccia con la crudele alternativa: sicurezza o libertà. Tertium non datur...

 

Sicurezza, cos’è la sicurezza? Una formula esangue per la felicità. Una vita senza lotta».

 

Alzo gli occhi dal tavolo con lampadina incorporata della biblioteca del Dartmouth College (sì, sono negli USA, ho preso il libro di Herbert in lettura in biblioteca), e la vedo. Sul muro. Guarda languida verso la bibliotecaria. Securitas. Una sua incarnazione, nel murales di Orozco: la più terribile delle figure in questo affresco che rappresenta L’epica della civilizzazione americana e dove quindi la competizione è feroce, tra la cacciata di Quetzalcoatl, militi ignoti o l’accolita di accademici-scheletri che assistono compiaciuti al parto di una madre-scheletro, ovviamente, di un bimbo morto (Dei del mondo moderno, mica male per la commissione di un’università). Ma, provo la stessa disperazione tornando a guardarlo, Cortéz è di gran lunga il più terribile perché non è grottesco o sformato come gli altri ma è pacato, longilineo, elegante e nobile nei modi, un po’ triste, un po’ stanco del mare, la mano inguantata di maglia quasi carezza la massa di corpi nudi ai suoi piedi, lui guarda la bibliotecaria, la sua faccia è umana. Securitas. In tutto il grigio fulgore della sua corazza.

 

Josè Clemente Orozco, sezione del murale al Dartmouth College, Hanover (NH)

 

Un film scemo ora mostrerebbe il flash-back di tutte le sue facce incrociate nel corso di questa narrazione, le palme scapigliate, le voci al telefono, attendenti e impiegati. E, chiaramente, il suo avvento ti fa stare bene, o almeno dà sollievo. Almeno so di cosa sto scrivendo ora. E, non meno importante, so cosa farò stasera: in questa innevata cittadina universitaria del New Hampshire danno Citizenfour, il documentario su Ed Snowden.

 

11 settembre. Patriot Act. L’NSA mette in atto quanto da tempo voci dissidenti, anche al suo interno, avevano prospettato, ma su scala inimmaginata. Tutti i dati che passano dalle tecnologie digitali – cellulari, email, social media, google, ecc., ecc. – possono essere e vengono raccolti. Indiscriminatamente. E possono venir interrogati in qualsiasi momento, per creare metadata e cioè una narrativa sull’individuo basata sulla combinazione incrociata di cosa ha detto, scritto, acquistato, visitato ecc. Il potere totalitario che ci siamo liberamente scelti sta ai Putin, agli Isis, come Securitas sta agli altri mostri pacchiani e obsoleti. Invisibile e inodore, ci mente solo nella misura in cui noi mentiamo a noi stessi, e è minima, una volta che si è scelta la sicurezza sulla libertà.

 

E dovrei fermarmi qui. Ma la libertà di espressione? Che difendiamo a suon di slogan anche quando va deliberatamente a provocare e offendere uno strato della nostra società già provocata e offesa? Forse ha un valore reale solo se unita alla libertà di reticenza. Quando è libera di definire i propri limiti, non tanto in termini assoluti (e tantomeno commerciali e sensazionalistici) quanto relativi alla libertà di non dire, o di non rendere pubblico: una valutazione non imposta (anche se vigono legislazioni contro altre espressioni discriminanti, prima tra tutte la negazione dell’olocausto) bensì personale, ma pur sempre, o a maggior ragione, una valutazione: tra la libertà di esprimere e la libertà di non esprimere. Proprio la libertà che i servizi di sicurezza occidentali violano con la raccolta dei nostri dati privati, la potenziale pubblicità di ogni nostra esternazione, la compilazione della storia delle nostre vite su questa terra a suon di clic. E mentre leggo che l’amministrazione Obama – che ha perseguito più persone in nome dell’Espionage Act (1917!) di tutte le amministrazioni precedenti messe insieme – intende tuttora perseguire e far chiudere WikiLeaks, mi chiedo se la necessità di ricorrere a un codice per proteggere il nostro diritto alla privacy (leggi: libertà) potrebbe dare risultati analoghi a quelli che ha spesso dato la necessità di aggirare la censura (il cinema degli stati satelliti durante il comunismo!) e mi rispondo di no, certo che no, non solo perché ciò che può offrire uno stimolo al linguaggio artistico porterebbe alla schizofrenia se esteso alla totalità delle nostre comunicazioni, ma soprattutto per il viso umano e proteiforme di Securitas: non sai da cosa ti devi proteggere finché non sarai inserito retroattivamente in una stringa di metadata che ti etichettano in un modo o nell’altro.

 

Sia come sia, se a un livello questa condizione porta alle espressioni di terrore individuali, quasi improvvisate, che hanno colpito (dal suo interno: non dall’esterno, dal suo interno) l’Europa in questi primi mesi del 2015, c’è un altro livello che forse è più terrificante ancora: più individuale, più interno. Sempre la stessa scelta: sicurezza su libertà. Ma nell’ambito della nostra esistenza, della nostra vita privata, la vita di cui ci priviamo lasciandoci narrare dai nostri «metadata» anche ai nostri stessi occhi, nel nostro processo di individuazione.

 

Auden, parlando d’amore in Salta prima di guardare:

Una solitudine profonda come il mare

regge il letto su cui siamo insieme, amore:

anche se ti amo, dovrai saltare;

il sogno di sicurezza deve scomparire.

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