I Calabroni, L’ambulante, e il "Canto alla durata" / Peter Handke: I primi libri e un film-intervista

23 Gennaio 2018

Peter Handke è salito alla ribalta della cronaca letteraria giovanissimo, nel 1966 (è nato nel 1942 in Carinzia, da una famiglia della minoranza slovena), con le sue provocazioni al convegno degli scrittori Gruppo 47, di cui facevano parte i maggiori esponenti della letteratura tedesca post-bellica (da Grass a Böll, da Lenz a Walzer), e con le sue prime opere teatrali. I suoi primi romanzi, contemporanei a quelle, nel complesso sono stati stroncati o trascurati. In Italia sono stati pubblicati abbastanza presto, tranne il primo, I calabroni, tradotto solo nel 1990 e poi riedito nel 2004 da SE (trad. di Bruna Bianchi) e ora di nuovo, a breve, anche da Guanda, che ha da poco ristampato, nella vecchia traduzione di Maria Canziani, anche il secondo romanzo, L’ambulante, dandoci un’occasione di tornare agli esordi dello scrittore. Lo sguardo potrà essere integrato, per un importante aspetto dell’evoluzione successiva, dalla visione del notevole documentario-intervista Canto alla durata. Omaggio a Peter Handke, regia di Didi Gnocchi per 3D produzioni, in programmazione su Sky arte.

 

L’impatto con i primi testi dello scrittore carinziano non è facile oggi come non lo è stato per i suoi primi lettori di 50’anni fa. Handke esordisce sotto il segno dell’aggressività e del rigetto. Il suo primo gesto è di provocazione. Invece di blandire il lettore e lo spettatore a teatro, come fa la disprezzata, da lui, cultura di massa, lo sfida, mette alla prova la sua pazienza, lo irrita, lo insulta persino (Insulti al pubblico è il titolo quanto mai esplicito del lavoro teatrale che l’ha reso famoso dall’oggi al domani appunto nel 1966, anno in cui usciva anche I calabroni) e al contempo chiede, o meglio: pretende, la sua benevolenza. Se no si smetterebbe di leggerlo (la tentazione c’è, abbastanza spesso anche). E uno non può scrivere per negare il suo destinatario. Va bene non compiacerlo, frustrare e denunciare le sue consuetudini, i suoi istinti più bassi e la pigrizia che ne deriva, ma negarlo non si può, dal momento che si scrive. Diciamo allora che Handke, come tutti gli artisti d’avanguardia e gli sperimentatori coerenti, pretende un lettore (spettatore, ascoltatore ecc.) diverso dal solito, o presunto tale: uno che, anche se sembra frustrante, vuole essere destabilizzato, vuole uscire dai propri schemi percettivi e mentali, cambiare il modo di approccio alle cose, alla realtà, alle forme e al linguaggio. E cosa gli offre in cambio? Questo, appunto: uno sguardo spiazzante, una segmentazione e una concatenazione delle percezioni e della realtà impreviste, una precisione descrittiva microscopica, quasi allucinata, la conoscenza delle forme espressive e narrative e dei loro meccanismi, trucchi, cliché e effetti.

 

Gli fa dono proprio dell’attenzione, quella che lui stesso esercita per primo. I suoi testi obbligano a restare sulla parola, sulla frase, a non correre avanti o tornare indietro o spostarsi all’esterno per connettere e capire, anche se senza queste proiezioni, senza questa temporalità stratificata nello stesso momento della lettura puntuale, la parola e la frase attuale risulterebbero illeggibili, insensate. Gli fa dono della lentezza, della percezione della complessità di ogni minimo gesto e evento, e dei modi in cui esercitarla; delle sospensioni del bisogno di rassicurarsi mediante il riconoscimento di una direzione, di un insieme e della cornice che separa e insieme inquadra e unifica.

 

 

Attraverso la scomposizione meticolosa di percezioni e sensazioni e la descrizione di ogni cosa, gesto e azione che vengono colti dal narratore o stanno nello spazio dell’evento evocato ma perlopiù sottaciuto, sembra che si arrivi a definire un’immagine completa della realtà, ma essa risulta così satura, così compatta e omogenea, da essere irriconoscibile e soffocante. Il lettore segue irretito questo lento processo, respirando paradossalmente al ritmo veloce scandito da una sintassi analitica prevalentemente paratattica, senza che però venga soccorso da nessuna, non si dice spiegazione, ma solo contestualizzazione, o dalla possibilità di alzare la testa per cercare una visione dall’alto o da fuori, panoramica, comprensiva. Ha individuato e riconosciuto ogni elemento, e non ha capito un accidente.

 

Quando si ferma per una pausa, per staccare e cercare di mettere insieme ciò che ha letto, si trova di fronte solo una raffica di microazioni di cui non intende la ragione e che avrebbero potuto benissimo essere diverse, o diversamente disposte, senza che niente cambiasse. Accade qualcosa; cioè: è scritto che accade questa o quella cosa, che le cose sono così, che il dettaglio è questo e questa la sequenza, ma non c’è direzione, solo successione; non finalità, anche e soprattutto narrativa, solo ostensione. Poi qualcosa, a fatica, si mette comunque in ordine; una esile, renitente, denegata trama si disegna, ma il disorientamento dettato dall’accumulo di dettagli permane, come se fossero percepiti da uno sguardo schizoide che si muove velocemente in tutte le direzioni incapace di legarli almeno in una parvenza unitaria, ma al contempo tutti descritti con la precisione ossessiva e totalmente irrelata che deriva dall’eccesso di vicinanza, da una focalizzazione miopissima e inflessibile. 

 

Sembra che il linguaggio sia tutto di cose e azioni, e invece è proprio la referenza a essere messa in discussione (“pensavo agli eventi e alle cose pensabili come se ne esistessero soltanto i nomi”, I calabroni, p. 70) mentre viene al contempo rivelata la sua formazione, o piuttosto la sua presupposizione dettata da formule e stereotipi, dove, per citare il Beckett di L’innominabile, il ‘pensiero’ e la ‘parola’ stanno “l’uno accanto all’altro, come due cani di terracotta”, a cui si potrebbe accostare anche un terzo cane, ‘il sentire’, tutti e tre neutralizzati da automatismi rassicuranti che agiscono solo come conferma dell’esistente non come è (questo è semmai il compito, opposto, dell’arte) ma di come ci viene detto che sia, cioè imposto. Così che il linguaggio funziona solo come una trappola, un marchingegno che serve meno a capire che a mistificare la realtà e la verità. 

 

“Se tuttavia io facessi uscire la notizia dalle mie labbra, potrei modificare questo corso naturale delle cose, e avverrebbe qualcosa di diverso. Ma nel cervello, prima che le pronunziassi, le parole mi si disfacevano in sillabe e lettere che non ero più in grado di intendere” (I calabroni, p. 19). 

Occorre quindi smontare, ribaltare, e denunciare, smantellare quelle formule preconfezionate e quegli stereotipi, le figure retoriche (come mostra in modo efficacissimo lo straordinario libro di “poesie” Il mondo esterno dell’interno dell’esterno, del 1969, accolto tra critiche feroci e diventato quasi subito un classico amato da tantissimi lettori), gli standard formali e narrativi, le regole di genere, i vincoli, eccetto quelli che l’autore stesso sceglie e declina e rigira in tutti i modi e le salse, senza però spezzare o infrangere, mai, l’integrità delle parole e il rigore calibratissimo della sintassi, per quanto essa sia una gabbia, un’armatura che costringe e (de)forma. Al massimo va scomposta per ripartire dai costrutti semplici, basilari.  

 

Ogni frase è leggibilissima e per nulla ambigua o misteriosa. Lo è invece il suo legame con le altre e l’insieme. Nelle prime opere di Handke, persino in L’ambulante che è un giallo sui generis (e direi anzi un contro-giallo), non c’è una linea narrativa riconoscibile; non c’è crescita di tensione né suspense; non arriva mai un climax né un’agnizione; tutto procede orizzontalmente, sul puro asse metonimico si potrebbe dire, una cosa dopo l’altra, anche quando i tempi verbali sono vari; una accanto all’altra, con lo stesso valore, come frammenti che solo la linearità del linguaggio impone di disporre in successione, mentre dovrebbero convivere in uno stesso insieme, come un puzzle di cui non si notano le giunture ma nemmeno si distingue, tuttavia, il disegno. Qua e là, disperse nel flusso, piccole rivelazioni punteggiano quella che solo per convenzione possiamo chiamare narrazione e mettono i quasi invisibili paletti di una possibile trama elementare, un filo, di un colore molto simile al resto tanto che non sarebbe eccessivo parlare di monocromia, che si fa notare a un occhio indagatore (e molto ben intenzionato), come a delineare uno sfocato ritratto della famiglia contadina del protagonista, prima bambino durante la guerra in compagnia di un fratello che a un certo punto annega mentre lui perde non si capisce come la vista, poi adulto ormai cieco, e della vita sua e della sua ristretta comunità paesana, in I calabroni, e dei due delitti e delle relative indagini, sempre in un contesto provinciale, in L’ambulante, e le storie dei rispettivi narratore e protagonista, piene di buchi, omissioni, e forse di mistificazioni e menzogne bell’e buone.

 

 

La compulsione a dire e a descrivere (paradossale in I calabroni, dal momento che il narratore è cieco) sembra essere totalizzante, non voler trascurare nulla, ma si tratta di un compito impossibile, tanto che il narratore confessa: “Intenzionalmente qualcosa non è stato menzionato” (p. 72), come se la smagliatura potesse essere rammendata dall’intenzionalità. Invece qualcosa non menzionato lo è sempre e comunque. Dicendolo però, l’omissione acquista risalto, le lacune diventano evidenti, tanto più, al limite, quanto più acribiosa è stata la descrizione. 

 

Anche nel momento in cui, all’inizio di ogni capitolo di L’ambulante, i meccanismi del genere (qui il giallo) sono esibiti e commentati, tutto è gestito secondo una sistematica, rigorosa strategia della delusione delle attese: reticenza programmatica, indicazione che sottace più che suggerire; provocazione, sospensione, deviazione, interruzione, cambio di prospettiva ecc. Il lettore è sfidato, condotto fino al limite. Le defezioni sono preventivate (trattasi però di filistei, che sono la maggioranza come ognun sa). A remengo!, vien da pensare. E lo si pensa.

 

Per limitarsi alle opere degli anni ’60, prima della “normalizzazione” avvenuta a partire dal decennio successivo con Breve lettera del lungo addio e il capolavoro Infelicità senza desideri, entrambi del 1972, in I calabroni Handke prende di petto e contraddice o stravolge tutti i cliché ecc. (senza dirlo, senza denunciarli se non in alcuni passaggi sprezzanti che però potrebbero anche essere letti altrimenti); nell’Ambulante si dedica a smontare, e eludere, i meccanismi formali del “giallo”; in Prima del calcio di rigore, del 1970, recupera la narrazione ma, pur restando ancora nel “giallo”, disinteressandosi dell’enigma e dell’inchiesta, si focalizza sul colpevole e sul suo rapporto vacillante con se stesso e con la realtà, ribaltando quindi il punto di vista abituale, e trasferendo il discorso sul piano esistenziale (non psicologico, mi raccomando: che quello è tabù). L’ambiente è spesso provinciale, contadino, a parte l’inizio di Prima del calcio di rigore, ma il clima dominante, in tutti e tre, più come contesto di scrittura che come argomento tematizzato, è quello della società oppressiva e capitalista come viene vista a partire dagli anni ‘60, che produce la separazione tra il soggetto e la realtà, il conflitto di classe che non trova sfogo se non nella violenza privata, una generale alienazione e reificazione, e tutti quei bei concetti obsoleti, e dunque fallaci, che non corrispondono più alla realtà gioiosa e pacificata in cui sguazziamo, felici, noi.

 

Tutto l’arsenale delle avanguardie, e dell’allora recente école du regard, viene saccheggiato e sfruttato senza pietà, e si direbbe anzi con gusto. L’attacco, allora, era contro il “realismo” del gruppo 47 in Germania, contro un impegno politico che secondo Handke si manifestava solo nei “contenuti” e in prese di posizione ideologiche magari forti ma espresse in uno stile piatto e vuoto senza affrontare invece, come uno scrittore dovrebbe sempre fare, il linguaggio e le forme; ma il discorso potrebbe venir buono, ogni tanto, anche oggi, come antiveleno contro l’assuefazione all’invasione dello “storytelling” universale, ormai imperante senza contraddittorio né alternativa, come un nuovo dato “naturale”. Contro la facilitazione della lettura a tutti i costi, il gioco della seduzione spiccia che passa attraverso la blandizie del torpore come sotto un arco trionfale (ci sono anche le trombe e i tromboni). Contro l’autorizzazione che tutti si concedono di raccontar scemenze importantissime come se niente fosse (perché no? perché io no?), l’accattonaggio dell’empatia. 

In quegli anni, nessuno è più alieno da questi trucchetti di Handke, che certo non se ne risparmia altri, a volte puramente opposti, cioè ad essi complementari, ma è anche capace di un intenso lirismo, che ricorrerà più spesso fino a diventare a volte dominante, nelle opere successive. Si veda I Calabroni, p. 157 “Ciò che vidi non lo vidi con l’occhio, ma grazie al fremito delle cose inanimate stesse … come se questa inanimatezza … per colui che la guardava senza gli occhi potesse fremere di dolore e trasmettere al guardante questo dolore estraneo, e come se quel ridicolo lamento all’interno di me stesso … fosse soltanto l’inestirpabile, l’ineliminabile lamento di queste cose”, una frase potrebbe essere estratta anche da un libro di 20-30-40 anni dopo. In momenti come questi anche la sintassi si amplifica e respira.

 

 

Handke decostruisce, smonta e mette a nudo i meccanismi della narrazione e della cosiddetta invenzione, dello stile; mostra come la rappresentazione più aderente della realtà sia solo una delle tante possibili (“Sono soltanto esempi”, I calabroni, 35; “Racconto. Mi affretto a raccontare il seguito. … Ora termino, di seconda mano, il racconto”, Id. 36), frutto di scelte che prima ancora di essere dettate dal contenuto (cose da dire, storia da portare avanti/costruire) sono formali, strutturali, linguistiche, ritmiche (anche per la prosa – soprattutto per la prosa, perché in poesia è scontato).

(Tutto vero. Utile. Ma che noia a volte!)

 

Gli eventi più significativi, nel primo romanzo, e i due centrali nel secondo, non vengono narrati: viene descritto tutto ciò che sta accanto e prima e dopo, in una sequenza la cui sola consequenzialità è quella dell’imprescindibile temporalità della scrittura, di fatto però confutata da ciò che nelle singole frasi viene detto. La stessa sintassi, mentre sembra assecondare questa linearità, di fatto favorisce il disorientamento e se delinea qualche forma è solo tratteggiando il perimetro, o costruendo un reticolo o una sagoma vuota, un calco, attorno all’evento eliso, o a ciò che viene taciuto, che andrebbe desunto proprio a partire dai margini che gli stanno attorno, dal vuoto che essi circoscrivono. “Circoscrivono” è una buona approssimazione. Se non che i frammenti (le frasi, gli oggetti, le azioni) pertinenti a questo scopo non si distinguono da quelli che non lo sono. Una certezza del procedere non c’è. Pochi sono i passaggi dove una qualche relazione rende perspicua l’azione o una sua parte permettendo di estrarla dal continuum e di combinarla con altre in una sequenza abbastanza coerente e non troppo ambigua (per es. il capitolo 6 di L’ambulante, nel quale l’ambulante viene interrogato come sospetto: ma come e perché si sia giunti a sospettarlo e interrogarlo non viene detto). 

Mentre nel giallo la comparsa di particolari gesti o parole o oggetti è sempre finalizzata, a breve o lungo termine, alla (ri)costruzione dell’azione e alla comprensione del delitto o dell’enigma, qui il loro accumulo diventa il primo enigma da districare (e un innocuo delitto la cui vittima rischia di essere il lettore), il caos da cui districare ciò che è significativo e rispetto a cosa, così da individuare le sporgenze e le asperità in tanta pura liscia contiguità che isola ogni cosa o frase depauperandole di significato proprio mentre le ab-solve da ogni nesso, cioè mentre le assolutizza allo scopo di rivificarlo e arricchirlo.

 

Alla base di queste narrazioni esplose stanno la stessa disgregazione e la dissoluzione dei legami che improntano la loro forma: tra le cose; tra l’individuo e la società; tra il soggetto e la realtà; tra il soggetto e il linguaggio e i simboli; tra il soggetto e se stesso. Il supporto e fattore di coesione che veniva da fuori è crollato. “I fatti presi nel loro insieme non danno ancora il fatto” (L’ambulante, p. 154). Nessuna comunità o fede o ideologia viene più in soccorso rimandando agli individui una immagine di sé e del mondo che garantisca della loro integrità e unità; restano solo il disorientamento, lo scollamento, la separazione e l’angoscia, ai quali non c’è rimedio né scampo. Altra prospettiva non sembra possibile. Ma poi pian piano l’individuo, secondo Handke, dovrà cercarli da qualche parte, in sé prima di tutto, se vuole salvarsi, salvare la vivibilità, la vita, un rapporto con il mondo in qualche modo saldo, non costantemente spezzato: non come momenti salienti però, come epifanie o baleni di qualche rivelazione (che comunque possono essere un fattore scatenante del cambiamento, come si vede in L’ora del vero sentire), ma come persistenza e continuità, nella convinzione che, in qualche modo, come scrisse Quevedo, “solamente lo fugitivo permanece y dura”. Così facendo rischia però di approdare all’idealizzazione (e poi alla difesa a oltranza, anche per puntiglio, per spirito da bastian contrario, per il gusto, stavolta imperdonabile, di stare dalla parte sbagliata: come nella difesa di Slobodan Milošević) di luoghi e comunità sognate, come la Slovenia della famiglia materna, la “nona terra” e altri paesaggi dell’anima.

 

 

Nel frattempo quella che si presenta al lettore, per usare delle parole che Arturo Mazzarella riferisce a un diverso ma non così lontano contesto (Le relazioni pericolose, Bollati Boringhieri, 2017, p.  26), è “una distesa di schegge insensate equivalenti nella loro inconoscibilità”: nella loro pretesa, si potrebbe dire nel caso del primo Handke, di essere conosciute da sole, per sé, irrelate, in virtù della loro presunta evidenza, del loro offrirsi in pura flagranza. Di fatto però, in questo modo, esse affiorano sul proscenio per un attimo dal buio, nel lampo di un flash, e subito vi tornano senza lasciare traccia. E il soggetto che cercava in esse, nel tentativo di riconoscerle e esperirle, un ancoraggio o un rifugio si trova ancor più spaurito e angosciato. Non fa in tempo a credere di averlo trovato, che subito gli crolla addosso. Di conseguenza si isola, diventa lui stesso assoluto, ma talmente slegato da qualsiasi reciprocità e relazione da non coincidere nemmeno più con se stesso, da non sapere più chi è poiché niente e nessuno glielo dice e gli rimanda un’immagine credibile e accettabile. Gli altri, estranei, tutti, non più solidali e nemmeno indifferenti, diventano minacciosi ed entrano allora con te in una relazione solo conflittuale: vogliono influenzarti, condizionarti, plasmarti, non per integrarti nelle ricchezze della socialità o lasciarti nella relativa tranquillità dell’indifferenza, ma, quando non tendono a una delle tante forme di annientamento, per soggiogarti nella subordinazione quando va bene, o, più di frequente, nel sopruso del potere incondizionato.

 

Ogni percezione e descrizione è chiusa in sé medesima, isolata nella presunzione di eternità di ciò che è assoluto (sciolto da ogni legame, secondo l’etimologia). Ma quand’anche la raggiungesse sarebbe l’eternità di un presente puntuale, perso nel tempo, più che fuori dal tempo. Galleggiante come una scoria, sia pure con un suo brillio, nel flusso indistinto e inafferrabile del tempo. 

Non è poco, comunque, verrebbe da dire. Non lo è, infatti. Ma è anche pochissimo, perché, subito, assolutamente inconsistente. Non è l’eternità, anche se i poeti si compiacciono di crederlo. È subito svanita: una pienezza che è già svuotata nell’attimo in cui viene colta. È naturale allora, ma non scontato, che per uscire dall’asfissia del tempo eterno ridotto a un punto, Handke ricerchi poi non la continuità, che sarebbe posticcia, dal momento che è stata infranta una volta per tutte, e più ancora riconosciuta nella sua favoleggiata immediatezza come una costruzione fasulla funzionale all’asservimento, ma un orizzonte in cui le cose, i luoghi, la natura in tutte le sue espressioni, magari si eclissano a lungo, ma poi ritornano, si ripetono, effimere eppure mai del tutto perse o cancellate, persistenti anche nelle loro eclissi invece; un orizzonte in cui “finalmente ogni frase consegue dall’altra” (L’ambulante, p. 164): la durata

 

Ma per arrivarci occorre che l’io abbia trovato una sua qualche solidità, non definitiva né monolitica ma comunque abbastanza stabile, o capace di consistere per qualche tratto senza dissolversi immediatamente o andare in frantumi non appena nominato e riconosciuto, ed è quello che Handke ha fatto con le opere degli anni 70 e 80, in un lungo cammino che passa da momenti estatici, come in L’ora del vero sentire e da un recupero del senso e dei luoghi (Lento ritorno a casa) e dello stare, dell’abitare, negli spostamenti della sua residenza prima a Parigi, poi a Salisburgo, poi nella Carinzia dell’infanzia e di nuovo alle porte di Parigi, dove vive tuttora.

 

La definizione e la descrizione della sensazione e dell’esperienza, più che del concetto della durata (ma sarebbe più opportuno dire, come fa Handke stesso, la poesia d’amore in cui solo essa può trovare una voce), trovano la loro più importante formulazione nel poemetto in versi liberi intitolato appunto Canto alla durata (del 1986, prima ed. italiana trad. di H. Kitzmüller, ed. Braitan, 1988, esaurito; ora Einaudi, 2015), a cui è stato dedicato il citato film di Didi Gnocchi Canto alla durata. Omaggio a Peter Handke. Il documentario, ambientato nella casa in cui Handke abita nei dintorni di Parigi e in alcuni dei “luoghi della durata” delle vicinanze, è una lunga intervista allo scrittore curata da Alessandra Iadicicco, con la partecipazione di Bruno Ganz che legge alcuni brani del poemetto, e con le voci di Michele Placido e Alarico Salaroli. Nell’intervista Handke commenta quanto espresso in modo intenso nel Canto e si diffonde sulla sua vita e sull’importanza decisiva che la “sensazione” della durata, come lui la chiama, ha in essa.

 

 

La ricerca della durata, il suo rinvenimento e la sua cura, sono il tentativo di aderire alla propria vita e di trovare non solo una pacificazione, tanto più necessaria per chi è afflitto, o dotato, di “una sensibilità in costante conflitto con i passaggi e gli snodi epocali del suo tempo” (H. Kitzmüller, Peter Handke, Bollati Boringhieri, 2001, p. 8), ma una composizione che consenta di tenerne insieme tutti i momenti, le persone e le cose più importanti, che non sono necessariamente i più vistosi. 

“L’unico mezzo che fa sì che la durata tenga, dice lo scrittore, è la fedeltà a ciò che si ha vissuto… la fedeltà formale, nello scrivere, riferire… ritornare… è l’unica via, non è una strada maestra, una via regale, ma è un piccolo sentiero… La strada per la durata è la fedeltà, la fedeltà alla forma... che è l’estetica… Si tende a screditare l’estetica, ma l’estetica è l’istanza dell’etica.” “La durata ha a che fare con gli anni, i decenni… la nostra vita… ecco, la durata è la sensazione di vivere.”

Più che un consistere, insomma; più che uno stare nella serenità di un’acquisizione o di una conquista, si tratta di tenere vivo, senza deflettere ma anche senza forzare, quasi sottomettendovisi ma nel senso della disposizione all’accoglienza più che della 

disponibilità a sostenere una prova, ciò che più ci è importato nel tempo, ciò che traccia la via e ci definisce, la forma dell’esperienza più che le singole cose esperite: non semplicemente vivere, ma la “sensazione di vivere”, che forse si potrebbe tradurre meglio con il vivere sentendosi vivere, la sua intensità. 

Vien da pensare, a leggere il libretto e pensando all’atteggiamento che esso esprime, quel che Kafka scrisse a Felice a proposito delle parole di una canzone che amava: “Ogni strofa è un’esclamazione, e un inchino”.

 

Sembra una forma di misticismo laico, immanente, che a una lettura spiccia rischia di emanare un profumo dolciastro, di facile consolazione, mentre invece è una conquista, il frutto mai acquisito una volta per tutte di un costante impegno, perché tale, contro tutte le distrazioni, l’indulgenza e la pigrizia, è la fedeltà a se stessi nel tempo, il tener fermo ciò e chi ci è caro, anche quando non ci si pensa (e ancora di più allora), e custodito dentro di noi, che dura e non pesa, e ci avvolge e riscalda senza che noi ci facciamo caso, per riscoprirlo solo ogni tanto con una sensazione forte e insieme quieta in un oggetto, la ripetizione di un gesto, il ripresentarsi di un momento o di una parentela tra spazi insignificanti, quotidiani, senza nome.

 

Ma forse il senso della durata non è nemmeno questo; non è il ritorno dello stesso o la percezione di continuità che si instaura attraverso la ripetizione e la ricorrenza di certi atti o sensazioni o la presenza continua, anche se spesso silenziosa e in disparte, di oggetti e ricordi ecc., ma solo il sentimento che la nostra vita non è a pezzi, disseminata in frammenti e scarti che se ne stanno irrelati, ciascuno per conto proprio e senza la possibilità di un senso comune o di qualsiasi legame: che persiste, nel mondo attorno a noi, qualcosa che rimanda alla nostra persona e, in noi, qualcosa della presenza che non tramonta del mondo.

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