L’ultimo Mahabharata di Peter Brook / Battlefield, una meditazione in forma di fiaba

26 Maggio 2016

In un raccontino hassidico due amici parlano insieme e uno chiede all’altro: “Ma come sarà il mondo dopo la venuta del Messia?” E il secondo gli risponde: “Sarà come è adesso, noi parleremo qui, il bambino dormirà di là nella stanza, tutto sarà come è ora, soltanto un po’ diverso”. Forse questo scarto leggero, quasi inavvertibile, e tuttavia decisivo, con cui un mondo traspare da un altro, è quel che più rimane impresso nello spettatore di Battlefield, lo spettacolo con cui Peter Brook e assieme a lui il drammaturgo Jean-Claude Carrière e la co-regista Marie Helène Estienne sono tornati sul Mahabharata. Non si spiega altrimenti la profonda sensazione di pace che qualcuno confessa di aver provato davanti a quella che tuttavia gli sembrava una semplice recita che del teatro smorzava i rumori più animosi, smussandone i rilievi, a cominciare da un tono in cui l’interpretazione e la narrazione si sospendono a vicenda: è poca cosa questo Brook, anzi no, a pensarci bene, è tutto. È il mare di fango e di sangue in cui la terra è stata trasformata dalla disastrosa battaglia finale tra i fratelli Pandavas e i cugini Auravas per il possesso di una città che poi il Gange spazzerà via, anche se di questa catastrofe sulla scena non si vede nulla – è talmente immane che solo nella parola ha lasciato un segno. 

 

Tre uomini e una donna che parlano, alcuni bastoni appoggiati alla parete di fondo, un percussionista giapponese, Toshi Tsuchitori, che siede sulla destra del proscenio con il suo tamburo tra le gambe, un po’ in disparte come un testimone. Non la musica, ma solo una parte di essa, il rythmos. Pochi colori, quelli dei mantelli e degli scialli, il rosso e il giallo, essenze vivide e accese dalle luci di Philippe Vialatte come in un quadro di Rosso Fiorentino. La rigorosa economia di un regista che ha inflitto il colpo di grazia al teatro come opera d’arte totale e sommatoria di altre discipline artistiche ma che in nessun altro spettacolo, nemmeno in quelli che accompagnano la sua lenta uscita di scena, è apparsa altrettanto radicale, altrettanto nuda. Eppure è dal poco di una messinscena visibilmente concentrata su ciò che resta, su ciò che viene dopo – dopo la catastrofe, dopo il Mahabharata di cui ha scontornato un episodio, persino dopo il teatro di cui Brook, come suggerisce Massimiliano Civica, mantiene soltanto la punteggiatura – che si srotola un vertiginoso intarsio di storie che contengono altre storie. 

 

Foto di Caroline Moreau. Jared McNeill, Sean O’Callaghan, Ery Nzaramba, Carole Karemera. 

 

Battlefield è una meditazione che gli attori passano agli spettatori sotto forma di fiaba, mettendoli di fatto nella stessa condizione in cui i bambini indiani ricevono il Mahabharata, oralmente, da un narratore (come Brook e Carrière la ricevettero una prima volta, nel giro di alcune notti, dal racconto di Philippe Lavastine). E ogni gesto di Carole Karemera, Jared McNeill, Ezry Nzaramba e Sean O’ Callaghan, prende le misure in questa offerta cerimoniale: sobrio, lieve, elegante (di un’eleganza organica, che i corpi sembrano aver ingerito come un farmaco), con punte di humour che di tanto in tanto attraversa placidamente la quarta parete per liberare nel pubblico il respiro di una risata aperta, finalmente priva di cinismo – si ride, pensate un po’, per un verme che parla e dice di trovare anche lui i suoi “piaceri nella vita”, si ride di paradossi metafisici che di colpo acquisiscono l’arguzia dei proverbi, si ride perché siamo in quella dimensione che la tradizione ebraica definisce aggadah dove la favola è la verità, ma nella forma dell’oblio, e lo scherzo pesa quanto il pensiero.

 

Leggeri per profondità, come avrebbe detto Nietzsche, e tuttavia restando nel cuore di una tragedia cosmica, anzi sprofondandoci dentro sempre di più, come quell’uomo che alla fine dello spettacolo entra nel ventre di un bambino e ci scopre l’infinito.

Non stupisce che il regista britannico abbia dichiarato che gli spettatori ideali del suo spettacolo sono persone come Obama, Putin e altri grandi della terra: ambientato tra le rovine invisibili di una guerra totale, Battlefield racconta di prìncipi che non vogliono governare (proprio come Arjuna che poco prima della battaglia si chiede “perché combattere?”), di re che al potere preferiscono la solitudine, di madri torturate dal rimorso di aver abbandonato un figlio. De te fabula narratur, racconta che l’unica azione possibile non è quella che agisce nel potere, ma quella che sospende la rinuncia ad agire una volta scoperta la propria impotenza. 

 

Attratto nel cerchio del racconto, scavalcando persino la barriera architettonica del palcoscenico all’italiana, lo spettatore non ha neanche il tempo di registrare tutte le risonanze che si sprigionano tra le figure di un’epopea che cominciò a vedere la luce quattro secoli prima di Cristo, ne è colpito, come da un’aria di famiglia. Forse è per via di Sean O Callaghan, potente attore irlandese perfettamente a suo agio nei panni di un nobile indù, che una livida luce shakespeariana illumina la storia del re che, disgustato dal male che ha generato, volta le spalle agli onori per ritirarsi nella foresta e vivere come un’asceta. Se ne va come Lear, ma è cieco come Edipo (o Gloucester, o Tiresia, e in genere, tutti coloro che hanno ottenuto in dono una seconda vista).

 

Foto di Caroline Moreau. Jared McNeill, Carole Karemera, Ery Nzaramba. 

 

Ed è la suggestione che lega insieme i miti, a farci sobbalzare quando veniamo a sapere che la principessa interpretata da Carole Karemera concepì un figlio dal sole e lo consegnò alle acque, come Mosé. Duryodana, il figlio rifiutato, era in realtà il fratello di Yudhisitra, principe vittorioso e sopravvissuto, perché è sempre tra fratelli che ci si uccide, ora è un guerriero maledetto che, come nell’Antigone, va seppellito. In una delle immagini culminanti del racconto, il vecchio re e la principessa che si sono esiliati nella foresta vedono attraverso il fuoco le schiere di guerrieri morti entrare nel cielo, e li riconoscono uno a uno: è quell’ingresso di anime in paradiso, quella ricapitolazione finale, che nella teologia cristiana prende il nome di apocatastasi.

 

Echi, coincidenze, somiglianze che si possono tranquillamente mettere sul conto di Carrière e di Brook-Estienne come corsivi intenzionali del loro lavoro di traduzione. O semplicemente, ci si può dire con Grotowski che “ciò che umano trova analogie ovunque”. Il sortilegio che li fa apparire è lo stesso che rapidamente li cancella, perché questa cerimonia è pur sempre un gioco. La sua principale magia anzi consiste nel mostrare apertamente l’artigianato che la costruisce; così in Battlefield, gli animali parlano, come nella Conferenza degli uccelli che Carrière trasse da uno dei più famosi poemi sufi per un altro spettacolo di Brook, ma non c’è nessuna maschera di animale in scena: il verme che vorrebbe attraversare la strada prima dell’arrivo del carro è uno scialle rosso che viene lentamente arrotolato usando un piede e un bastone; il falco che sfida il re è la testa della Karemera che, strabuzzando gli occhi, si appoggia con il mento a un’asta. Krishna appare come vuole e quando vuole, per entrare nel corpo di qualcuno gli basta indossare il suo mantello. Niente è nascosto, tranne, magistralmente, l’arte, che trasalisce in lievi, precisi tocchi da pennello zen.

 

Finché nel finale da una delle classiche sospensioni brookiane – che fa tornare alla mente il bacio che suggellava un suo Grande inquisitore di alcuni anni fa – scaturisce un’impressionante fermo immagine degli attori seduti uno accanto all’altro, dove niente si muove, ma tutto vibra, come se l’eterno fosse appena trapassato nel tempo. La risposta all’ultima, fondamentale, domanda è un nome mormorato all’orecchio che nessuno sente, ma che pure viene pronunciato. L’ultimo teatro del novantunenne Peter Brook, il suo teatro testamentario si mette veramente, come scrisse Georges Banu all’epoca di Un flauto magico, sotto il segno dell’evanescenza del Prospero shakespeariano. Ma quale atto, finalmente, è più magico di quello con cui la magia rinuncia al proprio potere e restituisce al mondo il suo incanto? “Tutto sarà come è ora, solo un po’ diverso”.     

 

 

Dopo le recite al teatro Argentina di Roma e alla Pergola di Firenze Battlefield si può ancora vedere allo Storchi di Modena il 29 e il 30 maggio alle 21.

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