Come parlare della guerra in casa / L'Isis e i bambini

30 Marzo 2016

Io ho visto in televisione che c’era la guerra, ho sentito parlare della guerra nel telegiornale, io ho sentito alla tv che facevano la guerra. I piccoli captano segnali, intercettano sguardi, spiano le smorfie sui volti dei grandi per decidere se è il caso di allarmarsi oppure si può stare tranquilli. I recenti attentati terroristici possiedono la particolarità delle cosiddette “nuove guerre” degli anni Novanta del Novecento, tutte indissolubilmente legate alla loro rappresentazione mediatica ed estetica. Il contatto con il Male avviene sullo schermo, “focolare virtuale” che mette in comunicazione nostre e altrui identità. In ogni momento e a ogni latitudine è possibile l’“irruzione dell’imprevisto catastrofico”: dopo l’11 settembre 2001 la guerra invisibile è diventata un filo che penetra sottotraccia, rimescolando pensieri, shakerando emozioni. Le vittime e i carnefici, i “valori” dell’Oriente e dell’Occidente, la politica e la violenza sono sprofondate insieme nel cratere di Ground Zero. Le due torri gemelle infuocate e spezzate ormai stanno lì, ficcate nel nostro immaginario di adulti, gli ultimi attentati suicidi nelle capitali europee amplificano la guerra psichica, che corrode la mondialità globalizzata, insinua la paura sugli aerei e nei metrò. Confermata la previsione del sociologo tedesco Ulrich Beck: l’individualizzazione del conflitto rende possibile che il nemico sia dappertutto, tocca al singolo cittadino dimostrare di non essere socialmente pericoloso.

 

Le informazioni visuali, come già si accorse Walter Benjamin riflettendo sulla Grande guerra, non accrescono la nostra capacità di narrazione. Per elaborare e ricordare ci vuole una storia, la possibilità per l’Io di ritrovare il suo centro nel mondo – infatti chi vive situazioni estreme ricorre spesso alla scrittura del diario. E chi ha raccolto materiali su come risuona dentro, nelle stanze protette dell’ascolto analitico, un fuori che pone in forme inedite il rapporto tra distruttività e quotidianità, incontra spesso la forma del diario, prima intimo poi pubblico, come mezzo per vivificare la ripetitività delle immagini, dire l’esperienza e i vissuti, riflettere sui quesiti “filosofici” dei propri figli. Un’operazione non facile in esistenze metropolitane ritmate dal pieno d’ansia (sono dieci milioni gli italiani che denunciano attacchi di panico), mentre le zone sicure si rimpiccioliscono in ognuno di noi. E nei sogni si moltiplicano le esplosioni.

 

Alberto Pellai, Edgar Morin, Riccardo Mazzeo e Marco Montanari riflettono e dibattono sugli effetti che il terrore nell’anima può produrre sul funzionamento della psiche infantile, sulla visione di chi, adolescente, cresce e dovrebbe andare incontro al mondo, sui pregiudizi e sugli stereotipi che contribuiscono a un diffuso senso comune.

Si vorrebbe che i bambini non sapessero, non avessero visto qualcosa che anche per i grandi non è facile comprendere politicamente e mentalizzare affettivamente. Sono immagini che i più piccoli “buttano fuori”: sono i disegni appesi alle pareti di ogni asilo, sono le case solide/traballanti/scoppiate che riempiono i fogli, perché le case sono sempre il contenitore dei sogni e del cuore, è la guerra che l’adulto a volte scopre proprio nel disegno del bambino.

Parlare di ISIS ai bambini, (Erickson, pp.148) è un libretto agile, smilzo ma denso, a cura di Dario Ianes, docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano: cerca le parole, descrive le cose, usa il pensiero politico e sociologico per informare l’adulto, genitore insegnante educatore, renderlo emotivamente competente di fronte alle domande e alle paure del bambino. 

 

Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, autore di molti volumi e di favole per bambini, impegnato nella prevenzione in età evolutiva, usa il concetto di traumatizzazione collettiva per descrivere lo stato di allarme penetrato nelle nostre case dopo l’11 settembre 2001. La traumatizzazione diretta è quella in cui si è personalmente colpiti da un accadimento violento – Pellai sottolinea la validità dell’intervento con l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), una tecnica che affronta i ricordi non elaborati che possono dare origine a molte disfunzioni. “La terapia con EMDR si basa sull’assunto che i pensieri, le emozioni e i comportamenti negativi siano il risultato di memorie non elaborate. Il trattamento prevede delle procedure standardizzate che includono la focalizzazione simultanea su associazioni spontanee di immagini, pensieri, emozioni e sensazioni corporee legate all’evento traumatico e la stimolazione bilaterale che avviene comunemente attraverso la forma di rapidi movimenti oculari”. L’EMDR ha l’obiettivo di ridurre la sofferenza del singolo e desensibilizzare la comunità colpita ed è stato usato in molte situazioni, in particolare nel conflitto jugoslavo.

 

 

La traumatizzazione indiretta è quella, invece, che ci riguarda tutti, che trasforma il mondo esterno in un pericolo, dove l’altro da me è un estraneo poco affidabile. Pellai affronta il nodo delle discussioni infinite sull’uso del mezzo televisivo, quel qualcosa che non si sa come si diffonde: la differenza è la presenza dell’adulto e la sua modalità di reazione. Le tonalità espressive, i gesti e le posture del corpo sono trasmettitori consci e inconsci di messaggi che permettono al bambino di distinguere il mondo interno da quello esterno. Così, quella che può sembrare una banalità, non lasciare il bambino solo davanti alla televisione, si conferma una situazione educativa significativa.

Certo, qui il discorso si complica, perché i nostri bambini sono una risorsa scarsa, vivono superprotetti, li si vorrebbe al riparo da tutto il negativo – è sufficiente osservare quanto la scuola primaria faccia fatica a contemplare e affrontare un lutto familiare che colpisce un bambino.

Marco Montanari, funzionario internazionale, consigliere politico della missione civile dell’Unione Europea in Niger, che ha partecipato a missioni in Caucaso, Asia centrale e Sahel, costruisce una geografia concettuale dello stato islamico che permette di orientarsi nella storia presente e remota di una cultura che nell’attualità si presenta deformata con il volto dell’Isis.

 

Riccardo Mazzeo, editor storico della Erickson, autore con Zygmunt Bauman di Conversazioni sull’educazione, con Miguel Benasayag di C’è una vita prima della morte? e con Ágnes Heller di Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione (in uscita), conversa qui con Edgar Morin.

“Molti nostri figli non escono più, si incontrano de visu il meno possibile. Magari vanno in palestra ma non camminano. Sono pieni di filtri, si proteggono e si schermano, disimparano la pratica del coraggio e del conflitto, rifuggono le persone che non conoscono e finanche sempre più spesso quelle che conoscono, e di cui preferiscono apprendere gli aspetti meno graditi da una distanza di sicurezza che permetta loro di sospendere qualunque contatto in caso di difficoltà. Lo stato di sicurezza alimenta le insicurezze e le paure più plumbee e invalidanti: cerchiamo di non dimenticarlo”.

Per Mazzeo, quello che “ora entra in gioco e rischia di collidere in una classe è la percezione del proprio compagno musulmano come un bambino molto diverso da sé, diverso al punto che, una volta cresciuto, potrebbe diventare come quegli uomini malvagi che tagliano le teste e che uccidono persone innocenti, colpevoli solo di essere andate a un concerto o alla partita un venerdì sera. Tale percezione è pesantemente influenzata dalle ingiunzioni che si ricevono talvolta in famiglia, dalle convinzioni, non importa se irrazionali, dei genitori. Ma un bambino, fasciato dalle istanze di genitori che magari credono alle sirene populistiche secondo le quali chi viene da fuori costituisce una grave minaccia per la nostra sicurezza, il nostro lavoro, la nostra stessa vita, come può guardare senza sospetto e preoccupazione il compagno di banco che gli è stato dipinto come «il nemico»”?

 

Per Morin l’obiettivo è guardare alle diversità come un valore, costruire una scuola, per dirla con Bauman, in cui la mixofilia prevale sulla mixofobia. “Da almeno vent’anni raccomando di inserire nelle nostre scuole l’insegnamento di quel che è la conoscenza, vale a dire anche l’insegnamento di ciò che provoca i nostri errori, le nostre illusioni, le nostre perversioni. Oggi appare, più che necessario, vitale integrare nel nostro insegnamento, dalla scuola primaria fino all’università, la «conoscenza della conoscenza», che permette di opporre alla riduzione, al manicheismo, alla reificazione una conoscenza capace di collegare tutti gli aspetti, finanche quelli antagonistici, di una stessa realtà, di riconoscere le complessità in seno a una stessa persona, una stessa società, una stessa civiltà”.

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