Carissimi padri della Grande Guerra

12 Febbraio 2015

Carissimi Padri... almanacchi della “Grande Pace” (1900-1915): proprio come un almanacco, il nuovo progetto culturale avviato a Modena da Claudio Longhi, regista e studioso di teatro, si svilupperà lungo l'arco di un intero anno articolandosi in cene-spettacolo, incontri, proiezioni di film, letture, laboratori e atelier per culminare, come era stato per il precedente Ratto d'Europa (qui la recensione), in uno spettacolo vero e proprio che debutta al Teatro Storchi il prossimo dicembre. Insieme a un gruppo di lavoro ormai consolidato che assomiglia sempre di più a una compagnia stabile d’altri tempi, Longhi coinvolge ancora una volta l’intera città, questa volta nella esplorazione degli anni della belle époque, ovvero di quella stagione di apparente Grande Pace in cui storicamente si rintracciano le scaturigini della Grande Guerra; per sviluppare così una riflessione sui giorni presenti – tempo di una nuova Grande Pace – che ancora poggiano sulle macerie di quel conflitto, come resti spuri di quelli che Kraus ha definito Gli ultimi giorni dell'umanità.

 

 

 

Chi sono questi Padri, e perché sono Carissimi?

“Carissimo padre” è l’attacco della Lettera al padre di Kafka. Un testo che racconta un conflitto generazionale attraverso le parole di un giovane che si confronta con la strabordante autorità paterna. Quelli della Grande Guerra sono anni in cui una generazione di figli viene mandata al macello da una generazione di padri; carissimi, in una doppia accezione: diletti, certamente, ma anche costosi, perché letteralmente costano la vita dei figli, e perché muovono capitali. Il progetto si fonda sull'idea che accanto alla generazione di giovani mandati fisicamente al massacro ve ne sia un’altra, che pure si confronta con quei padri: noi stessi, eredi di quel tempo poiché è la Grande Guerra ad averci precipitati nella dimensione di radicale globalizzazione di cui stiamo facendo esperienza oggi.

 

Come si è posto di fronte alla questione ineludibile della “raccontabilità” della prima guerra mondiale?

Il primo pensiero è andato alle pagine di Benjamin sulla crisi della narrazione della Grande Guerra, sull’impossibilità di raccontare quel mondo; un limite che è stato sfidato e superato solo da Karl Kraus. Di fronte a questo nodo abbiamo cominciato a pensare alla possibilità di concentrarci non sugli anni della guerra, ma su quelli che l'hanno preceduta, a interrogarci su quale sia stato il percorso che ha condotto a quella non-esperienza. Così abbiamo deciso di raccontare un tempo racchiuso tra due date: il 1900, anno intrinsecamente simbolico che coincide con la Grande Esposizione Universale di Parigi – con cui comincia anche un libro di Margaret MacMillan, 1914. Come la luce si spense sul mondo di ieri, che abbiamo molto frequentato nell’ideare il progetto – e il 1915, ovvero l'anno di entrata in guerra dell’Italia. Esplorando quella stagione ci si accorge di strani e inquietanti parallelismi con quanto sta succedendo oggi. Sono anni infatti, quelli, in cui i conflitti, anche terribili, si consumano solo alle periferie del mondo; a Parigi, Londra, Roma si vive invece una sensazione di tranquillità: una delle più lunghe paci che il mondo europeo in senso stretto abbia conosciuto fino ad allora. Un po’ come adesso, che da settant’anni viviamo in una bolla di pace apparente. Il progetto insiste quindi sull’universo della belle époque per riflettere su cosa a un certo punto abbia portato l’Europa a scatenare una guerra mondiale, perché possa essere non un’operazione di pura encomiastica celebrativa ma di riflessione vera e profonda sull'oggi.

 

Il progetto si confronta quindi con una sorta di “miraggio della fine della storia” per il quale ci siamo convinti di essere al riparo da future apocalissi proprio mentre dentro noi si consuma quotidianamente il dramma della sensazione di una imminente sciagura. Perché?

Mi viene in mente l’adagio brechtiano “non sfugge al passato chi dimentica il passato”. L’intenzione di fondo è evidentemente di confrontarsi con la Storia, nell’ottica di “incidere perché le cose possano cambiare”. Le pagine introduttive del libro della MacMillan raccontano che gli europei della belle époque sono come turisti che viaggiano attraverso un paesaggio con la convinzione di essere liberi nello scegliere la strada da percorrere e non si rendono conto che a ogni passo si stanno di fatto immettendo in una via che poi non ammetterà più ritorno, in un processo che non sarà più possibile disinnescare e che paradossalmente tutti credevano non si sarebbe mai attuato. Ripercorrendo la cultura di quegli anni si nota il proliferare di grandi romanzi di “fantascienza”, che parlano di probabili future guerre; pensiamo a La guerra dei mondi di George Wells. Fiorisce, soprattutto in Inghilterra, una letteratura sterminata di finti romanzi di guerra che stranamente preludono alla prima guerra mondiale, proprio mentre c’è la ferrea convinzione che quel conflitto non ci sarà mai. L’idea di fondo è che un progetto come Carissimi Padri serva a riflettere sulla Storia per evitare di scivolare in una dinamica della stessa natura.

 

 

Come siamo passati dagli anni della Grande Pace a quelli della Grande Guerra?

I primi del Novecento sono anni retti da una fede incondizionata nel progresso e nella tecnica. Nonostante siano anche gli anni della cultura del decadentismo, vi è nella società diffusa la percezione di una situazione di operosa tranquillità, di un fiorire dei commerci, dei traffici. Ci sono immagini molto belle che usa anche Keynes per descriverli, per esempio quando parla del ricco mercante di Londra che si sveglia la mattina e dal suo letto può ordinare il tè dalle Indie. C’è una idea di Europa vera. La classe borghese colta è mediamente bilingue. Per gli intellettuali di quegli anni è normale vivere da europei: Ibsen scrive il Peer Gynt tra Roma e Napoli, tutti fanno cure in sanatori svizzeri... E improvvisamente tale circuitazione viene travolta da una montata di nazionalismi che portano a suicidare quella stessa idea; scoppia una terribile guerra che dura di fatto fino al 1944 – con una strana pace in mezzo che di fatto non è una pace – che spacca in due il Novecento. Dalle ceneri di quella devastazione nasce l’idea di Europa attuale. In questo senso c’è una forte continuità tematica con il Ratto, che indagava proprio quell’idea. Il parallelismo con la contemporaneità è evidente; abbiamo un’idea di Europa ma anche delle montate nazionaliste che stanno destabilizzando gli equilibri, con nodi di tensione che ancora una volta arrivano dall’oriente. Quando parlo di parallelismi invito però a prestare attenzione; credo si debba adottare uno sguardo brechtiano: “Vedere da lontano per guardare meglio, con la coscienza che il tempo è passato e le cose sono cambiate”.

 

Come è stato per il Ratto d'Europa, Carissimi Padri si sviluppa secondo un modello circolare: il gruppo di lavoro coinvolge i cittadini di Modena in un percorso di appassionante esplorazione e la scrittura dello spettacolo si nutre a sua volta di ciò che questo percorso produce. Posto che le due cose non possono essere colte singolarmente e che ritengo che l'impostazione partecipativa del progetto si inscriva poi nello statuto poetico dello spettacolo, è vero che lei, ma dovrei dire forse Emilia Romagna Teatro che promuove il lavoro e con cui ha sviluppato una collaborazione permanente, sta puntando sempre di più sulla struttura progettuale nel suo complesso, prima ancora che sullo spettacolo, in direzione di una infiltrazione sistematica della cultura teatrale all'interno della comunità modenese...

Il progetto nasce in continuità con l’esperienza precedente del Ratto d'Europa, non solo da un punto di vista contenutistico, come dicevo prima, ma anche da quello strutturale, nel senso di un’idea di teatro che c’è dietro. Sono convinto che in Italia sia ormai necessaria una riflessione vera sul rapporto col pubblico. Negli ultimi decenni per ragioni storiche-sociologiche-antropologiche il nostro teatro si è chiuso in una dimensione autoreferenziale, in cui si lavora a misura di un pubblico di addetti ai lavori, e si è sviluppata una certa tendenza a raccontare di sé alle persone che ci sono simili. Mi capita di osservare che spesso si ha la sensazione di essere il palpitante centro della galassia e di non rendersi conto di essere invece finiti all'estrema periferia della società civile. Ricordo quando feci da assistente alla regia per i Fratelli Karamazov di Ronconi: voleva assolutamente creare uno spettacolo in cui si uscisse da un certo minimalismo contenutistico per rifare del teatro il luogo in cui delle persone si mettessero a discutere del fatto che Dio esista o meno. Si tratta di un problema di fondo della nostra cultura – si pensi a Le due tensioni di Vittorini, a tutte le polemiche di Calvino sulla difficoltà di aprirsi alla scienza –: il teatro conosce oggi una oggettiva difficoltà a farsi punto di incontro di esperienze diverse. In passato l'architettura teatrale era l’oggettivazione di una architettura sociale, e questo era possibile in ragione della funzione pubblica che veniva riconosciuta all'arte scenica. Oggi per l’intellettuale medio italiano è una attività ricreativa, una forma di intrattenimento, non una esperienza culturale vera. Questi progetti nascono da una necessità di rifare del teatro un luogo dove economisti, storici, antropologi, tornino a incontrarsi e confrontarsi.

 

Perché è necessario, per ritrovare questo spazio, proprio una forma progettuale tanto articolata che si incunea così a fondo nella comunità?

C’è un problema oggettivo di ricostruzione del rapporto dell’attore con una comunità di riferimento. L’attore dei primi del Novecento era riconosciuto come tale, il suo lavoro veniva frequentato e giudicato in rapporto alla memoria che si aveva delle sue prestazioni precedenti. Ora l’attore teatrale non ha più alcuna riconoscibilità. Io credo fortemente che vada ritrovata quella dimensione, perché ritengo che il teatro – e cito il titolo di uno dei testi fondatori della storia del teatro in Italia, Il teatro e la città di Zorzi – ponga sempre il problema della città. Quando lavoravo con Ronconi come assistente mi trovavo regolarmente delegati i progetti di formazione del pubblico perché da sempre per me l'idea di fare teatro è collegata alla necessità di inserire quella esperienza dentro un discorso culturale più ampio affinché le venga restituita dignità e riconoscibilità.

 

 

Quello che dice incontra abbastanza agevolmente l'idea di fondo della riforma, dell'istituzione dei Teatri Nazionali, al di là dei pregi e dei difetti della legge, di cui non parleremo in questa sede.

Non è l’etichetta in sé, il punto: è la necessità di pensare che qualcosa viva stabilmente in un luogo, con la possibilità di sviluppare una qualità di ricerca e approfondimento che soltanto la stanzialità può garantire. Quando abbiamo cominciato a parlare del Ratto d’Europa sembravano discorsi di là da venire. Invece un anno fa è uscita la legge che prevede l'istituzione dei Teatri Nazionali, quindi è evidente che la questione esiste. Già dai tempi dell’Arturo Ui c’è sempre stata nei nostri lavori una forte attività di interazione con le scuole perché ci poniamo il problema, di fondo, dell’educazione teatrale. Quella teatrale è infatti una lingua che si parla per analogia, perché ci si finisce dentro o perché la si studia, ma mai la si frequenta per abitudine culturale. Se non porti le persone a conoscere questo linguaggio come fanno ad accorgersi che esiste? La sensazione che ho io è che ci sia una profonda necessità di teatro ma che non ci sia una domanda perché le persone non sanno dargli un nome, dal momento che non conoscono proprio quell’esperienza. Poi quando la scoprono vi si attaccano come alla carta moschicida. Il Ratto d'Europa ha esasperato un’ottica che informava già i primi progetti, spalmandola non più solo nella dimensione delle scuole ma sulla città. Con Carissimi Padri c’è un ulteriore sviluppo. L’operazione del Ratto puntava ad arrivare a persone che non erano abituate a quel genere di esperienza; il che ha creato anche dei problemi, poiché per converso le persone che avevano una abitudine teatrale hanno avuto un po’ di insofferenza nei confronti di certi modi da cultura “pop”. Con Carissimi Padri proveremo a ricucire, a fare incontrare queste due tipologie di spettatori. E qui devo registrare un piccolo risultato già centrato. Al primo incontro del ciclo di lettura a puntate de La Montagna Incantata di Thomas Mann, un romanzo notoriamente di una difficoltà improba, abbiamo trovato la biblioteca Delfini invasa di gente che si è avvicinata a noi con il progetto precedente, ma anche da un pubblico a noi nuovo, tra cui rappresentanti di una certa borghesia colta modenese, che invece aveva l'orticaria a venire agli appuntamenti del Ratto.

 

Questo discorso sul pubblico però sembra universalmente valido. Quale relazione c’è invece tra i contenuti di Carissimi Padri e la struttura del progetto? Quale forza specifica trae una ricerca su quegli anni da un lavoro sul territorio tanto radicato che uno spettacolo, da solo, non potrebbe ottenere?

Questo discorso prescinde totalmente dal lavoro sulla Grande Guerra, certo. Quello che lega forma e contenuto, tuttavia, e che era vero anche per il Ratto d'Europa, è che ci si trova davanti ad argomenti di una complessità tale che sfidano le misure e portano a pensare in grande in termini quantitativi. Non a caso Gli ultimi giorni dell'umanità è scritto per un teatro di Marte perché nessun teatro di misure umane lo può contenere! Questi argomenti non stanno su un palcoscenico. Hanno necessità di andare oltre, e quello che arriva sulla scena è solo una parte di un qualcosa che lo eccede, di cui si nutre e con cui dialoga incessantemente.

 

A differenza del Ratto d'Europa, in cui lo spettacolo si strutturava su una drammaturgia collettiva, per Carissimi Padri ha commissionato un testo a Paolo di Paolo...

La scelta forte, in realtà, è stata di scegliere un romanziere come drammaturgo. A Paolo non ho commissionato un testo teatrale canonico; gli ho chiesto di scrivere liberamente senza porsi il problema della messa in scena. L'esigenza che si è imposta invece è stata quella di intrattenere un rapporto continuo con la compagnia, con gli attori, e di tenere conto di tutto il percorso che stiamo facendo. Uno dei nodi intorno ai quali stiamo ragionando, per esempio, è la forma rivista/cabaret/varietà. Tra le varie attività del progetto ci sono le cene-spettacolo, durante le quali alterniamo momenti in cui si mangia a sequenze di cabaret, con l'idea di raccontare i quindici anni dal 1900 al 1915, concentrandoci su singoli periodi per ogni cena. La prima era dedicata al 1900, e c'erano quattro inserti a numero costruiti attingendo a materiali vari, quasi tutti recuperati dall’epoca, riviste satiriche, Kraus, storie raccontante dai nostri partner. Questo materiale viene poi passato a Paolo che lo utilizzerà per costruire le sequenze di cabaret dello spettacolo. In altre parole, per questo spettacolo, chiediamo al drammaturgo di mettere un suo sigillo, di consegnarci una storia sua che nasca attingendo al materiale che noi stiamo producendo e raccogliendo.

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