Nuove Pratiche fest: un punto di partenza

Le pratiche dell'innovazione culturale sono da agire, sperimentare, verificare e indagare. Il confronto è quindi essenziale, un dialogo aperto con chi viene da esperienze affini o diverse è sempre il modo più efficace di meditare e mettere alla prova intuizioni, obiettivi, tattiche e strategie. La stessa definizione di “innovazione culturale” è tutto fuorché non-problematica. Nel giugno 2012, quando cominciavamo a dare forma a cheFare, parlavamo più che altro di “pratiche culturali di innovazione sociale” o di “innovazione sociale in ambito culturale” perché ci sembrava evidente che il settore culturale avesse bisogno di ripensarsi e reinventarsi per continuare a produrre qualità. Oggi la formula innovazione culturale riassume bene tutti i nodi intorno ai quali continuare a ragionare se si ha cuore la cultura quale veicolo di trasformazione sociale. È stato quindi un segnale molto positivo che tra settembre e ottobre ci siano state tante e numerose occasioni di incontro e dialogo ArtLab, Fatti di Cultura, Nuove Pratiche, Cultura Impresa. Tra questi, l'appuntamento palermitano è riuscito a mettere in contatto soggetti diversi provenienti da mezza Italia e a farli dialogare su pratiche e strategie. Il testo di Cristina Alga e Barbara Imbergamo che pubblichiamo oggi ci sembra un resoconto fedele di quelle giornate.

 

 

La collaborazione tra CLAC, duepunti edizioni e Sociolab durante il festival di Palermo ai Cantieri Culturali alla Zisa dedicato all'innovazione culturale è stata un'esperienza di “attraversamento” di nuove pratiche: l’obiettivo di una riflessione corale e partecipata, l’utilizzo di metodi strutturati di discussione per costruire una agenda degli obiettivi, una rete forte di partner e partecipanti da tutta Italia, un viaggio al sud che diventa, in controtendenza, “centro” d’Italia.

L’obiettivo dell’invito era chiaro: discutere di come cambia il settore culturale precisando cosa è innovazione culturale e quali sono le politiche che vorremmo. Tra gli obiettivi anche quello di confrontarsi sul tema “economico” che sottende tutti i discorsi sull’innovazione culturale per ciò che riguarda gli operatori e per ciò che riguarda le politiche culturali in generale. Il festival ha, infatti, avuto il merito di porre una questione sul tavolo, che normalmente resta sottotraccia, quella delle condizioni di vita di chi fa innovazione culturale. Ha cioè deciso di trattare il tema dell’innovazione non astrattamente dai bisogni degli operatori. La riflessione si è così alternata tra politiche e pratiche, tra bisogni personali e strategie del settore.

 

L’esito del lavoro di workshop è leggibile in un report che racchiude la sintesi delle discussioni e che ne traccia un loro veloce profilo; la presentazione del report, discusso durante una tavola rotonda di conclusione, ha confermato che questo incontro fa parte di un percorso di riflessione collettiva e nazionale di quella che forse inizia a delinearsi come una comunità, pur nelle diversità, che si riconosce se non l’identità, l’aspirazione all’innovazione del settore culturale.

Se le “nuove pratiche” si sono percepite chiaramente – le abbiamo viste all’opera nella due giorni nelle modalità di lavoro, nel modo di costruire reti, nell’approccio con cui operatori e operatrici si confrontano tra loro e con il proprio lavoro, e nella dimensione sociale, di coesione, di responsabilità che sembra connotare a fuoco questa generazione di 20-40 enni – ci sembra ancora tutta da battere la strada dell’agenda e della costruzione delle politiche, e vorremmo continuare a farlo proprio a partire da quanto è emerso.

 

 

Il tema del lavoro e dell’impresa. Il sé e le politiche culturali

 

No profit, rischio, sostenibilità, impresa, low profit, assistenzialismo, reddito, business plan, profitto, sovvenzioni, sono le parole che si sono susseguite e incrociate variamente, e in modo ricorrente, in tutte le discussioni alle quali abbiamo assistito.

L’invito a osservare il tema anche sotto il profilo delle condizioni economiche ci sembra ancora da sviluppare. A mostrare che il “re è nudo”, e a spostare la discussione sul livello della concretezza, è stata anche la costruzione partecipata di un istogramma sui redditi che le persone presenti al festival ricavano dalla propria attività di innovazione culturale. L’istogramma induce a prendere atto che il “mio basso reddito” è uguale a quello “dell’altro che siede accanto a me” e autorizza a porre sul tavolo la questione, senza timore.

 

L’esigenza di concretezza è stata molto ribadita e il desiderio, fortissimo, di confronto delle esperienze personali aveva a che fare sicuramente con il tentativo di orientarsi prima ancora che orientare le politiche.

Se, dunque, quello che è serpeggiato tra i tavoli è stato davvero un metodo nuovo - la ricerca di collaborazione tra gruppi, un modo di fare le cose insieme che non si può considerare usuale nelle consuetudini e generazioni precedenti - è anche vero che questo ci dice molto sulle persone e meno sulle politiche e, soprattutto, ci dice che è necessario distinguere il piano personale da quello delle strategie del settore per potere fare dei significativi passi avanti.

 

Ci è parso, infatti, che non a tutti i partecipanti sia chiarissima la distinzione tra termini e temi che riguardano la dimensione del lavoro e della retribuzione dei singoli e quelli che riguardano le politiche di settore e le scelte di governo in questo ambito. Il fatto che il lavoro vada comunque retribuito e che low profit e no profit non siano termini che attengono la sfera personale ma bensì quella “imprenditoriale” – sembra scontato – ma è importante ribadirlo. Una volta assodato che il lavoro deve essere pagato, è su questi aspetti che si deve riflettere costruendo politiche condivise e partnership articolate che vadano al di là del pubblico/privato. Il tema del profitto, del business plan, del rischio di impresa, sono questioni che attengono anche alle politiche culturali: il modo di intendere la cultura, l’impatto sociale che questa deve avere, i ruoli dei diversi attori politici e sociali nel fare innovazione culturale e nel promuoverla.

 

 

Tenere indistinti i fronti del lavoro e delle politiche comporta forti rischi e ambiguità. Il rischio è di abdicare acriticamente all’importanza di un “sostegno pubblico alla cultura” e di individuare nella parola “impresa” la soluzione – spesso illusoria – a tutto. Il punto è chiarire, prima di tutto a noi stessi, cosa significa impresa culturale. Una volta fatta chiarezza su questo punto si può discutere positivamente su quale sia il compito “imprenditoriale” dell’innovatore culturale e quale sia il suo compito “sociale”, e definire insieme le linee guida per una politica pubblica che indirizzi il legislatore.

 

Per noi l’impresa è “espediente” – come suggerisce Marco Liberatore trovando un termine ancora più chiaro di “strumento” – per realizzare prodotti e azioni culturali che abbiano ricadute sociali e non temano la componente anche conflittuale dell’innovazione; è espediente per creare reddito, per dare solidità al lavoro culturale, per valorizzare a pieno il contributo pubblico che pure deve esserci, soprattutto in certi contesti geografici e per certe forme culturali, senza sprechi. È un fare impresa estraneo alle dinamiche finanziarie e alle rendite e sarà nostra responsabilità fare in modo che sia così.

 

A questo punto si può discutere di quali siano le politiche adeguate, di quale sia il ruolo della cultura, di come vada promossa e innovata e con quale sguardo e sostegno, quanto sia o meno opportuno chiedere un approccio “manageriale” alla cultura, quanto sia opportuno “rischiare” dei soldi pubblici per sostenerla e costruire coesione sociale o quanto invece questo sia “assistenzialismo” o se si può, più utilmente, uscire dalla dicotomia assistenzialismo/impresa pensando che fare cultura è una sfida diversa che fare polli arrosto e non tutto può essere quantificato in termini di ritorni monetari.

 

Sono tutte piccole considerazioni, delle quali sono costellati libri, volumi e articoli sul tema. Ciò nonostante, a costo di sembrare pedanti, pensiamo che questa distinzione semplice vada fatta e che vada colta l’occasione anche per accorgersi che al discorso sulle politiche è intrecciato una riflessione sul lavoro e sull’impresa che emerge come un bisogno molto forte e con termini molto diversi da quelli novecenteschi di lavoro e impresa.

È necessario, secondo noi, fare ordine sui termini e sui piani per potere sperare che innovazione culturale significhi davvero innovazione, che collaborazione e co-gestione non siano solo risposte resilienti alla crisi ma scelte consapevoli e durature e che innovazione culturale non debba essere intesa come (e lo diciamo provocatoriamente) “fare cultura senza soldi”, ma invece come costruzione di nuovi modelli di vita e lavoro.

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