Maria Papadimitriou. Agrimiká

29 Maggio 2015

Nel momento in cui l’Europa misura le proprie incertezze sulle probabilità che il “Grexit” irrompa a ridisegnare il proprio futuro, la Grecia affida a Maria Papadimitriou il compito di rappresentare la nazione al cuore delle turbolenze europee in una Biennale che intende interrogarsi sul futuro del mondo, anzi sui molti, tanti futuri, come il curatore Okwui Enwezor ha voluto chiarire fin dal titolo dell’edizione di quest’anno: All the World’s Futures.

 

Maria Papadimitriou, Installation view, AGRIMIKÁ, 2015. Courtesy T.A.M.A. Temporary Autonomous Museum for All and the Artist

 

L’artista ha letteralmente “trasferito” dalla città di Volos al padiglione greco ai Giardini della Biennale, s montandolo pezzo per pezzo e rimontandolo, un negozio tradizionale che tratta e vende pellicce di animali selvatici. L’opera, che porta il titolo Why Look at Animals? Agrimiká, parla di animali, del rapporto con l’altro, della parte selvatica di noi stessi, di come l’uomo si relaziona con il mondo animale, dei confini tra ciò che è umano e ciò che segna questa distinzione, di ciò che è possibile addomesticare e ciò che invece è predestinato a resistere. Nel fare questo parla anche della sacralità del lavoro e degli oggetti della vita quotidiana, del rispetto per la morte, del sacrificio e della ineluttabilità del destino umano, dello scorrere del tempo e della Storia e dell’Economia che sovrastano la vita delle persone. Allude però anche alla speranza, alla ricerca di un nuovo punto di partenza che potrebbe essere la tabula rasa che ci si trova di fronte quando si inizia a togliere il velo delle finzioni che cercano il restituire l’immagine di un mondo perfetto, edulcorato dalla morte e dalla fatica del vivere ..... questo e tante altre cose che la curatrice Gabi Scardi sintetizza in una definizione che le comprende tutte quando descrive quest’opera come un ”teatro immersivo di contraddizioni”.

 

Il negozio di Volos, espace trouvé trasferito e ricollocato all’interno della Biennale, è pieno dei segni di chi lo ha abitato per anni. La sua immagine caotica, densa e costruita da tanti frammenti, è il frutto di una stratificazione che accoglie ogni cosa: strumenti di lavoro, gli animali impagliati, oggetti d’uso, materiali, pellicce, souvenir, ritagli di giornali, foto di famiglia, immagini trovate... tutto metabolizzato in quello che appare un grande affresco che ha preso forma nel corso del tempo, lo stesso che ha accompagnato la vita del tecnico-conciatore che lo ha abitato dal dopoguerra a oggi.

 

Maria Papadimitriou, Installation view, AGRIMIKÁ, 2015. Courtesy T.A.M.A. Temporary Autonomous Museum for All and the Artist

 

Quando si chiede all’artista di raccontare il proprio lavoro, colpisce come la storia abbia un punto d’inizio preciso: l’incontro con Dimitris Ziogos, l’anziano conciatore di pelli titolare del negozio che Papadomitriou ha voluto al centro della sua installazione in Biennale.
 

Maria Papadimitriou vive ad Atene ma buona parte della settimana la passa a Volos dove è docente alla scuola d’arte. È qui che durante una passeggiata senza meta nella città vecchia nota l’insegna di un negozio con una parola in greco a lei sconosciuta agrimiká. La curiosità la spinge a varcare l’ingresso di quello spazio che avrebbe traslocato (esattamente così com’era) nelle stanze del padiglione greco dei Giardini della Biennale.

 

Cosa significa agrimiká? La parola conserva una certa vaghezza che le permette di toccare vari significati ma la sua radice indica come universo di riferimento la caccia, e si estende dagli animali che non è possibile addomesticare fino all’armamentario di cui l’uomo ha bisogno per imporre la supremazia su di essi. Se dunque la parola agrimiká offre la chiave di lettura dell’opera, è anche la prima immagine che appare varcando l’ingresso del padiglione, e in qualche modo riporta il visitatore al momento della “scoperta” (così la chiama Papadimitriou) che coincide col primo incontro con questo luogo.

 

“Quando ho letto l’insegna Pelle, Legna e Agrimiká, racconta Papadimitriou. “Mi subito ha colpito perché era la prima volta che incontravo questa parola. Sono greca ma non avevo idea di cosa significasse così sono entrata per chiederlo. Il negozio sembrava abbandonato. In un angolo due vecchietti erano intenti a bere caffè. Chiesi loro se fosse un negozio o un museo o il soggiorno di un’abitazione privata o che altro. Uno di loro (l’uomo protagonista del video proiettato all’interno del padiglione) mi disse che era un negozio ma che non era più in attività perché da tempo non c’era più richiesta del prodotto del loro mestiere così adesso usavano questo luogo come una specie di soggiorno per invitare gli amici o chi volesse a passare a dare un saluto. Disse anche che il giro d’affari era ormai ridotto a quasi zero ma che un tempo le esportazione erano arrivate a toccare anche 1 milione e mezzo di pelli all’anno e che il loro commercio aveva avuto un giro d’affari esteso e aveva rifornito aziende di tutte le parti del mondo, dalla Germania ai Balcani. Loro stessi erano abituati a trattare ogni giorno oltre 300 tra volpi, orsi, tassi o capre, mentre attualmente non capitava loro di lavorano che una o due pelli alla settimana. Disse che continuava a tenere aperto per gli altri, i suoi amici e le loro famiglie, perché la gente della città vecchia di Volos lo conosceva ed era abituata a passare per scambiare quattro chiacchiere. E, infatti, ogni giorno qualcuno entrava, più che altro per fermarsi a parlare del passato e raccontare storie come sono abituate a fare gli anziani. Era una specie di strana agorà. Ne approfittai per farmi spiegare cosa significa Agrimikà. Mi spiegò che è una parola che ha a che fare con gli animali selvatici ma che serve a indicare anche tutto l’armamentario utile per catturarli perché un tempo si conviveva con gli animali selvatici, se ne aveva paura, e li si cacciava mentre oggi esistono allevamenti dove gli animali sono cresciuti in gabbia con il solo scopo di macellarli: una vera e propria un’industria dove torturano gli animali. Al contrario, loro si erano sempre posti in una condizione di profondo rispetto per gli animali. Mi ha molto colpito il modo che Dimitri ha di manipolare le pellicce di questi animali, di prendersene cura, quasi di accarezzarle e di proteggerle perché le pellicce sono il simulacro dell’esistenza di questi animali.

 

Questo mestiere, conciare le pelli, ha un profondo legame con la morte. Paura, morte, l’importanza della vita e della morte, bene e male sono questioni che emergono costantemente nelle sue parole. Esprimono un pensiero che si è affinato proprio nella relazione continua con gli animali. In un certo senso, mi colpisce il fatto che nel negozio avvenga una trasformazione e questa trasformazione è un processo di tipo artistico”.

 

Maria Papadimitriou, Installation view, AGRIMIKÁ, 2015. Courtesy T.A.M.A. Temporary Autonomous Museum for All and the Artist

 

Descritto quale Cabinet de Curiosités, raccolta di Memorabilia, il negozio di Volos è un luogo in cui tutto è ricondotto alla scala familiare e domestica dell’oggetto d’uso. Una dimensione rassicurante da cui emergono solo gli animali o quello che è resta del loro stato selvatico carpito attraverso le pellicce appese un po’ ovunque. In questo senso il luogo racconta il potere delle cose d’uso comune di diventare metafore e di saper raccontare la storia nel suo divenire, pur nella dimensione minuta, domestica, familiare, tanto che il co-curatore Alexios Papazacharias ne parla in termini di “micro-metafore”. Poi, aggiunge: “Il luogo è impregnato di un forte senso di umanità ma non basta a neutralizzare l’impatto delle altre presenze che abitano questo luogo: quello degli animali o ciò che resta di essi. Le pellicce appese o conservate con cura non nascondono la brutalità del loro destino. La brutalità del fatto oggettivo irrompe nella banalità dell’atmosfera familiare”.


Nel negozio di Volos quello che prende forma in tutta la sua disturbante ambiguità è la relazione tra esseri umani e animali, con tutto il suo portato di violenza e necessità che si confonde e si scarica al contatto con l’universo ricettivo, lento, intimo e dignitoso del vecchio conciatore di pelli, talmente in sintonia con l’habitat che si è costruito nel corso del tempo da averlo reso una specie di estensione, di habitus, della sua stessa natura.

 

Questo anfratto rimasto nel tempo a presidiare il centro della vecchia città di Volos è un microcosmo pieno di oggetti che si sono raccolti e sedimentati nel corso del tempo. Si direbbe in modo naturale perché non seguono un’intenzionalità di tipo artistico se non nel senso comune di abbellire il proprio ambiente quotidiano. Gli strumenti, i materiali o le tracce di un lavoro che ha permesso il prosperare della famiglia convive con gli oggetti d’affezione messi insieme nell’arco di una vita. Un accumulo che riflette la natura del suo proprietario, curatore, si potrebbe dire esagerando, di questo Merzbau cresciuto nel bel mezzo del Mediterraneo mentre il tempo pare essere scivolato davanti alle finestre della sua vetrina un po’ come accade dal finestrino di un treno, semplicemente invertendo i ruoli: rimanendo fermi mentre il paesaggio si muove all’esterno.

 

Questo negozio, che si offre come ‘oggetto trovato’, è l’espressione di un mondo sull’orlo dell’estinzione, travolto ed estromesso dalle logiche del consumo e dello sfruttamento che a sua volta resiste, forse affidando agli animali, o piuttosto al loro simulacro, il compito di rappresentarlo, quasi che l’antica frequentazione avesse prodotto una strana e sottile assimilazione tra animali e uomini, tra preda e cacciatore, e che col tempo se ne sia assorbito lo stato selvatico, il carattere di estraneità, lo status di presenza ripudiata ed estromessa dal corpo sociale.

 

Maria Papadimitriou, Installation view, AGRIMIKÁ, 2015. Courtesy T.A.M.A. Temporary Autonomous Museum for All and the Artist

 

Quando l’anziano conciatore, dall’alto dei suoi ottant’anni, esperto di vita e un po’ filosofo,  descrive nel video che accompagna l’installazione il proprio lavoro di “tecnico di pellami non lavorati” e si sofferma a raccontare la sua vita, gli animali, il destino degli uomini, lo fa con una dignità e una grazia che torna in molti lavori di una Biennale che Enwezor ha costruito mettendo insieme tanti piccoli microcosmi. Una sorta di filo che unisce sottotraccia le molte opere che indugiano sulla bellezza dei gesti di chi si muove con la consapevolezza di conoscere il proprio mestiere e li ripete con la sacralità di una preghiera recitata anche solo per se. Come nel compendio del lavoro umano raccolto da Antje Ehmann & Harun Farocki in Labour in a single shot o nei ritratti di lavoratori di Liisa Robert o nel film di Steve Mc Queen che indugia sui gesti precisi dei muratori intenti a costruire la tomba del giovane Ashes. Oppure nello spietato e poetico Factory Complex che fotografa una questione centrale del nostro presente: lo sfruttamento del lavoro e la condizione di asservimento delle donne lavoratrici. Le immagini piene di dignità e di grazia delle operaie riprese da Im Hueng-Soon fanno da contrappunto allo squallore e alla crudeltà dei metodi adottai per amplificare i margini di sfruttamento. Una condizione dolente, rassegnata ma forte di un’identità resa sempre più fragile che ha forse annoiato i visitatori in cerca di glamour ma che ha saputo entrare nel vivo di un’umanità messa a nudo tanto da valergli il riconoscimento del Leone d’Argento.

 

Quando chiedo alla curatrice se la corrispondenza con la mostra centrale di Enwezor è voluta, Gabi dice che questa coincidenza evidentemente è legata alla temperie culturale e politica di questo momento. “Noi non eravamo consapevoli di quello che stava mettendo in piedi Enwezor quando è nato questo progetto. È un lavoro nato autonomamente come sviluppo del lavoro che Maria Papadimitriou ha sempre fatto mettendo i margini e tutto ciò che viene estromesso al centro della propria ricerca”.

 

E il rapporto con l’architettura del padiglione?, chiedo. “Il negozio è stato trasferito nelle sue dimensioni reali e riscostruito dentro il padiglione in scala 1:1. È molto più piccolo però rispetto alle dimensioni della sua architettura. Tutto il resto, quindi una buona parte dello spazio del padiglione, rappresenta lo stato reale in cui si trova questo luogo nei tempi morti tra una Biennale e l’altra o perlomeno corrisponde a come noi lo abbiamo trovato nel momento in cui abbiamo messo piede in Biennale. Quello che abbiamo fatto è stato semplicemente evitare di toccarlo. Tutto quello che è presente in mostra, oltre al negozio, sono i resti e gli scarti delle edizioni precedenti che semplicemente non abbiamo né rimosso, né nascosto come normalmente si fa. A Venezia è molto costoso il trasporto, quindi in genere chi se ne va, si porta via l’indispensabile e abbandona tutto il resto. Così in genere il nuovo arrivato innalza delle pareti di cartongesso, crea il teatro che è la mostra, e tende a nascondere ogni traccia dietro le pareti o in qualche anfratto. Noi semplicemente abbiamo reso visibile quello che normalmente viene nascosto: tutto quello che è presente nel padiglione sono resti del passato. Un po’ come voler dire che se costruiamo un futuro su un passato che non prendiamo in considerazione per quello che semplicemente è, e continuiamo a rimuovere o a nascondere la realtà, il futuro non potrà che essere fragile”.

 

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