Istanbul: Taksim problem

19 Giugno 2013

Drink e tank, lacrimogeni e doner kebap, limonate e idranti, spari e fuochi d'artificio, mezzi corazzati e muezzin. A essere fatuo, a Istanbul, non è solo il turismo di sarcastico tempismo che vi ci può far capitare proprio nel weekend degli scontri fra polizia e manifestanti. Né il tassista agitato e cretino che vi parla in turco stretto, di comprensibile strilla solo: «Taksim, problem!» e, adocchiati passeggeri a destinazione «no problem» sul bordo della strada, infrange la più elementare deontologia per scaricarvi laddove, previa scarpinata in salita per viali spettrali, non potrete che passare dalla piazza-problem, alle 22.30 di sabato 15 giugno, la notte più calda degli scontri.

 

 

La città stessa, megalopoli onnicomprensiva, dà l'esempio per prima. Questi figuri in moderato assetto antisommossa hanno appena (e momentaneamente) finito di innaffiare i cittadini manifestanti con acqua e liquido urticante, ma sono gentilissimi e appena sardonici nel sorrisetto con cui mostrano la strada. Andate, andate. Impensabile passare da Istiklal Caddesi, il viale pedonale ora occupato per metà dalla moltitudine appena evacuata dal parco e dalla piazza. Ma basta prendere la via all'angolo e poi imboccare Ana Cesmesi Sokagi, la strada subito parallela, e c'è una ragionevole speranza di non avere problemi. Ma «We are not safe!», dicono. Eh, certo, grazie, e mentalmente si completa con un'italianissima esclamazione rafforzativa. Ana Cesmesi Sokagi è una sequenza ininterrotta e almeno per ora indifferente di discopub, ristorantini, con musica a palla che copre qualsiasi traccia sonora della rivolta solo temporaneamente sospesa, nella strada parallela. Ragazzi in senso proprio e in senso attempato la affollano, le loro birrette in mano, in piena e schiamazzante allegria. Là, The Times They Are a-Changin'; happy hour, qua. Come se negli anni Sessanta romani Valle Giulia fosse stata all'angolo con viale Ceccarini, Riccione (e del resto in un'altra spettrale nottata parigina, nel primo post-Mitterrand, è capitato di vedere dai tavoli dei Deux Magots un improvviso fronteggiamento tra qualche cordone di polizia e il corteo minuscolo e agguerrito di qualche Pantera locale: sembrava una di quelle rievocazioni storiche sons et lumières organizzate nei castelli della Loire, per turisti un po' puerili).

 

 

Pochi minuti più tardi, da una terrazza sul Bosforo, il groviglio si fa ancor più enigmatico. La rivolta si riaccende, ogni botto può essere di lacrimogeno, o peggio, ma anche rivelarsi innocente, per il fiorire di qualche fuoco d'artificio, dalle feste del sabato sera delle zone vicine. Sulla terrazza, qualche conciliabolo preoccupato, ma anche le usuali coppie al primo bacio, davanti ai drink e al quarto di luna d'ordinanza, sul Bosforo. Nelle case vicine, televisori accesi e sagome di spettatori che di tanto in tanto si rivolgono al balconcino per avere la prospettiva limitata, ma live, sugli eventi che la tv riprende. Lounge music, slogan ovviamente incomprensibili e vocalizzi di muezzin, tutto assieme. Ma ora le nuove cariche dei poliziotti spingono sulla folla di Istiklal Caddesi, e la estrudono di lì verso le vie laterali. Si troveranno ciottoli disselciati e, tornati all'albergo, un chiaro stato di emergenza appena finito, con asciugamani e bottiglie d'acqua, per manifestanti o anche turisti intossicati dai gas.

 

Nei giorni prima Istiklal Caddesi era una via di passeggio, con bei negozi, chioschi per gelati, castagne, oggettini e, en passant, vendita stradale di mascherine e occhiali da nuoto: difesa dai lacrimogeni. Dalla funicolare del Tünel uscivano ragazzi in jeans e maglietta, ma anche madri di famiglia, ometti e omacci di ogni sorta, tutti con aria non proprio svagata ma certo molto lontana dal truce ceffo del facinoroso desideroso solo di menare le mani. E anche gli innaffiatori urticanti, poco prima e poco dopo l'azione, non avevano nulla della milizia castigamatti, con tatuaggi e sonerie fasciste, che l'Italia ha conosciuto in tempi recenti. Lombroso, qui, serve a poco.

 

 

La violenza c'è stata, c'è e ci sarà: intensa e senza sbocchi politici delineati. Ma è come se fosse circoscritta, picchi di febbre in una patologia cronica e strisciante. Soprattutto, fra i manifestanti non sembrano essere arrivati black bloc e disperazioni nichiliste. E infatti la domenica mattina Istiklal Caddesi ha i negozi aperti, nessun danno sistematico alle vetrine e appena qualche veloce graffito spray su alcuni sportelli bancomat. Negli spiazzi file di pullman della polizia, con gli agenti che chiacchierano e consultano i telefonini, molti in borghese e più che causal; c'è anche una cisterna col cannone d'acqua, ma a funzionare ora sono i mezzi della nettezza urbana che l'acqua la rivolgono sul selciato e non in faccia alla gente. In piazza non si può entrare, lo impedisce un blando cordone di agenti e volontari con pettorina catarifrangente che reggono una striscia di plastica bianca e rossa, niente di che. Per terra, carte, mascherine, arance, cocci di bottiglia, sanpietrini smossi nelle laterali, dove su una specie di carrozzone coperto dormono buttati come capita alcuni ragazzi. Altri, su un marciapiede, gridano di tanto in tanto slogan, indisturbati e non disturbanti. Verso Taksim si tossisce ancora: nella prima mattina sono stati usati gas lacrimogeni per sgomberare gli irriducibili che volevano rientrare nella piazza e nel parco. Altri scontri si accenderanno per tutta la giornata, e per il lunedì è stato indetto uno sciopero generale, subito proclamato illegale da Erdogan e compagnia. 

 

Rossa, con mezzaluna e stella, la bandiera turca è sempre tenuta alta da molti manifestanti: la mattina si vede anche su negozi e balconi, come un'affermazione ostinata e anche commovente. A sventolare però sono anche molte altre bandiere, quelle della squadra di calcio Galatasaray, che un mese fa ha vinto il suo diciassettesimo scudetto. Non è qualcosa di fatuo: qui o lo è tutto o, molto più probabilmente, non lo è nulla.

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