Pippo Delbono. Sangue

17 Agosto 2013

Nell'era dei megabudget, Pippo Delbono pratica una cinematografia low cost: “Faccio l'attore di cinema per produrre i miei film... Che non sono low budget, ma zero budget”, e sottolinea l'origine ligure. L'attrezzatura? Un telefonino con obiettivo ad alta definizione e una telecamera da poche centinaia di euro: “L'uso del cellulare non è un dogma, o un'ideologia. Mi serve per cogliere quei momenti di intimità in cui ci togliamo la maschera. La bellezza del cinema sta in questi momenti straordinari.” Con il suo telefonino, è stato l'unico a filmare l'acciaieria Thyssen-Krupp dopo la strage del dicembre 2007 e ha inserito la sequenza nello spettacolo che ha dedicato all'episodio, La menzogna (2008).

 

 

La troupe si riduce a Pippo Delbono, regista, direttore della fotografia, operatore, speaker e attore  di pellicole come Amore e carne (2011, premio della giuria a Nyon-Vision du Réel) e Sangue (2013): il film è stato accolto con interesse al Festival di Locarno e travolto da un'ondata di panico morale sui giornali italiani, perché nel film compare Giovanni Senzani, ex professore universitario, brigatista rosso che ha scontato 17 anni di carcere di alta sicurezza (più 5 di semilibertà) per diversi reati, omicidi compresi, e ora “è libero per aver espiato la sua pena”. Qualche tempo fa ha visto Racconti di giugno, il monologo in cui Delbono racconta la propria vita in tre parole tabù, “sieropositivo, omosessuale, buddista”, e sono diventati amici.

 

Quello di Delbono è un cinema in presa diretta, quasi tutto in soggettiva, con la voce narrante del protagonista a raccordare le diverse sequenze. Capita anche nei suoi spettacoli teatrali, dove entra e esce di continuo dall'azione scenica, commentandola e innestandola. Il collante è l'autobiografia: “Come diceva Artaud, non sarei capace di fare un'opera d'arte che non fosse contaminata dalla mia vita.” Per alcuni questo è il cinema del futuro, guerrigliero e personale, fino al limite del narcisismo. Per altri è “un compitino”.
“Solo attraverso la poesia è possibile avere squarci di verità. Basta storie! Non crediamo più alle storie...” Come gli spettacoli, anche i film rifiutano una rigida struttura narrativa, il plot o la trama ben costruiti: “Non scrivo sceneggiature, aspetto che sia la vita a scriverla”. Procede per assonanze e contrasti, impressioni e digressioni, con una logica compositiva più musicale e pittorica che romanzesca. L'apparente casualità governa una macchina che costruisce emozioni e shock, per  squilibrare la morale corrente: “Non voglio essere politicamente corretto! Sono un artista libero, voglio essere libero di avere anche i miei pensieri”.

 

 

Sangue contrappone, attraverso il vissuto e le reazioni in presa diretta di Pippo Delbono, due vicende parallele: la morte della madre e quella della compagna di Giovanni Senzani, Anna, che non vediamo mai. Anche Amore e carne, che anticipava la scomparsa della madre, prendeva le mosse da un lutto: la morte di Pina Bausch, salutata ad Avignone da un palcoscenico cosparso di migliaia di garofani rossi, i fiori di uno dei suoi capolavori, Nelken: “L'importante non è rapportarsi con i morti, ma con la morte. L'importante è la morte come fatto. Il segreto dell'arte è parlare della vita parlando della morte. Sangue è una cerimonia degli addii”, spiega Delbono.

 

La prima e l'ultima scena del film – in una struttura narrativa circolare - ci portano tra le rovine dell'Aquila, la città morta, capitale delle promesse non mantenute. Poi, in un lungo piano sequenza, seguiamo i funerali di Prospero Gallinari, brigatista rosso, tra gli autori del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro, “uno dei compagni più umani” secondo la bizzarra definizione di Senzani. Ci accodiamo alla bara, usciamo all'aperto, vediamo lampeggiare i flash dei fotografi, i volti dei vecchi compagni di lotta e i ragazzi tutto intorno, cade la neve, seguiamo il mesto corteo verso la tomba, finché la camera non inizia a volteggiare verso i rami spogli degli alberi. “Abbiamo cantanto L'Internazionale. Ma nessuno di noi, i vecchi brigatisti, ha alzato il pugno. Mi sono sorpreso quando lo hanno fatto molti ragazzi, e hanno urlato quegli slogan”, commenta in conferenza stampa Giovanni Senzani. Quel funerale gli ha fatto rivivere quello di Aldo Moro e ha definitivamente sancito la fine di una storia, quella delle Brigate Rosse: “Io ho creduto alla storia. Se la mia storia è finita, come posso avere passioni?”, confessa la mattina; e nel pomeriggio, a evitare ogni equivoco, ripete che quella vicenda è finita, il mondo è cambiato.

 

 

C'è anche dell'ironia, in Sangue: per esempio nella sequenza in cui Delbono e Senzani vagano tra labirintici svincoli autostradali e dialogano con il navigatore GPS: “Gira a sinistra. A sinistra!” Si parla anche di Anna, che l'ha atteso durante i lunghi anni di carcere, malgrado la visione politica molto diversa dalla sua, e ora sta morendo di cancro; e della sorella di Senzani, “l'unica sicura che sarei uscito”, morta prima di vederlo libero. Entra in scena anche la madre di Pippo. Non ci sono speranze, solo dolore. Tra lei e il figlio si ricuce un dialogo interrotto: in dialetto lei gli racconta la sua fede, legge da un foglietto una preghiera, “forse l'ha scritta sant'Agostino”, dove si parla della vita oltre la morte. Gli mostra una foto dove forse si vede la Madonna – e la vediamo anche noi spettatori. “In Sangue ho potuto mettere la morte di mia madre perché c'era Senzani, e ho potuto mettere Senzani perché c'era mia madre.”

 

A inframmezzare le vicende principali, alcune immagini rubate alla Cavalleria rusticana di Leoncavallo, allestita da Delbono al San Carlo di Napoli: in scena con Pippo c'è Bobò, che dopo 45 anni di manicomio ad Aversa è diventato l'icona della compagnia: “Bobò si confronta con lo spazio, con il tempo, con la vita, con la morte. Ha il segreto del silenzio”. Come Pippo, come Bobò e altri attori della compagnia, Senzani è segnato dalla vita. Uno sconfitto, un marginale, un diverso, un paria... Accenna alle torture subite, e alle possibili contromisure: sullo sfondo, l'idea - condivisa tra i criminali - che a causare gli arresti sia la mancanza di un'efficace strategia difensiva, prima che l'idiozia di scelte sbagliate...

 

Ancora commedia. Senzani ha raccontato a Pippo che a Cuba curano il cancro con il veleno dello scorpione blu, forse vendono la medicina miracolosa e rivoluzionaria in Albania, a Durazzo. E dunque lo seguiamo in questa avventura sgangherata e piovosa, compreso un grottesco omaggio al Che Guevara via youtube.

 

 

I due episodi chiave nel film sono assai vicini, separati da due brani musicali. Il primo è l'agonia e la sepoltura della madre, seguita con puntigliosa attenzione dalla telecamera inserita nel telefonino: le mani di Pippo che stringono quelle della madre, le sue ultime preghiere, la camera ardente, la chiusura della bara: alla fine, dice Pippo, “non è più mia madre, ma la madre”. Il secondo è l'atroce racconto dell'esecuzione di Roberto Peci, fratello del “pentito” Patrizio: “A un certo punto ho sentito che Giovanni aveva la necessità di raccontare qualcosa. Ho visto un altro Giovanni, che non conoscevo. Una verità nei suoi occhi. E sono curioso. A quel punto il mio compito è stato solo quello di trovare le luci, l'inquadratura giusta. A volte le cose hanno un senso più profondo che al momento non capiamo, ma ho fiducia che il tempo lo possa far maturare”. Una confessione fredda, distaccata, che trasmette in ogni istante l'orrore.

 

Una notazione volutamente provocatoria regge l'accostamento: “Mia madre e Giovanni Senzani raccontano un paese, quello dei miracoli e quello delle BR, un paese fuori dalla realtà.” A scandalizzare Delbono, sono la menzogna, i silenzi della storia italiana, dalle stragi di Stato agli immigrati che annegano nel Canale di Sicilia, nell'indifferenza generale. Non vuole ricostruire la storia del terrorismo: “Da piccolo detestavo giocare con le armi, mi piacevano le bambole. Negli anni Settanta stavo da un'altra parte”, spiega Delbono. “Chi uccide ha già ucciso la propria rivoluzione”. Gli interessa altro: esseri umani che si raccontano, e un'altra verità, che passa attraverso il corpo, e lo sguardo. Pippo la insegue nelle sue inquadrature, danzando la telecamera con le braccia. E insiste: “Quello che disturba davvero nel film, il suo aspetto rivoluzionario, non sta nelle cose che dice, ma nel modo in cui le dice.”

 

 



Post Scriptum

 

Questo articolo non l'avete potuto trovare (e non lo troverete) sui giornali italiani, che si sono scagliati compatti contro Sangue. La crociata contro Delbono e Senzani è riuscita a mettere d'accordo tutti: “l'Unità” (“Una lezione d'inciviltà”) e “La Stampa” (“Un fiancheggiamento ipocrita, pubblicistico, artistico che inevitabilmente si risolve in una celebrazione del passato”), “Libero” (“Rai, la gaffe di cattivo gusto: viale Mazzini produce Sangue, il film con l'ex Br che uccise Peci”) e il “Corriere della Sera”. Dopo aver massacrato il film, il “Corriere” ne ha chiesto conto al direttore del Festival di Locarno, con un titolo involontariamente comico: “Politica, sesso, dolore: il festival degli eccessi”: ma di che altro parlano il teatro, l'epica, il romanzo (e adesso il cinema) dai tempi di Omero, Eschilo e Shakespeare, se non di potere, amore e morte, con i loro eccessi?
Persino “Il Fatto” (“Lo show indecente del killer delle Br”) s'è accodato al “Foglio” (“Sciagurato compitino brigatista”). “la Repubblica” se l'è cavata con un vago articoletto, sopra il quale campeggiava un'acuta fotointervista alla bella Eva Riccobono: “Mio padre mi ha insegnato un dialetto da scaricatore di porto per farmi sentire meno aliena rispetto alle coetanee”. Unica voce fuori dal coro, “il manifesto”.

 

La falange degli indignati ha poi trovato espressione politica nell'onorevole Gasparri, autore di un'interrogazione parlamentare sul film.

 

Mi ha colpito questa travolgente unanimità. Mi ha colpito anche, leggendo quegli articoli, che di fatto non si parlasse né del film di Pippo Delbono (molti di questi moralisti politicamente corretti  manco l'avevano visto), né di quello che è successo il 13 agosto al Festival di Locarno. Allora ho semplicemente cercato di raccontare quella giornata, inframmezzando la visione del film con alcune frasi rubate alla conferenza stampa della mattina e all'incontro con il pubblico del pomeriggio. Penso che i lettori (e gli spettatori) siano in grado di giudicare.

 

Un'avvertenza può forse spiegare questa mia eccentricità: seguo da quasi trent'anni il lavoro di Pippo Delbono, che giudico uno degli artisti più interessanti della scena contemporanea. E lo ammetto: mentre guardavo Sangue, mi sono venuti in mente il film collettivo Deutschland im Herbst, Nick's Movie di Wim Wenders e Caro diario di Nanni Moretti. Opere eccentiche, intelligenti, emozionanti, vere. Come Sangue.
 

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