Da Ghiffa a Lugano

23 Maggio 2015

Se vi dovesse capitare, come capita a me, di vivere in due paesi (europei, Germania e Italia) e di insegnare in un terzo paese (quasi europeo, Svizzera), conoscereste anche voi gioie e dolori del pendolarismo interculturale. Condividereste inoltre con me la problematica dello spostamento tra i luoghi, la cui agevolezza è inversamente proporzionale alla distanza. La cosa bizzarra è infatti che l'arrivare dalla casa tedesca a Göttingen all'università della Svizzera italiana (denominazione ufficiale), benché il percorso su rotaia sia di circa 800 chilometri, è una faccenda sì lunga, ma anche semplice e lineare: due treni, cambio a Basilea, 8-9 ore di viaggio lisce filate: giornali, tablet, smartphone, libri da leggere, tesi da correggere, qualcosa da sgranocchiare, ed è subito Lugano. Niente aerei perché Göttingen non ha aeroporto e Lugano ne ha uno piccolo piccolo per voli quasi esclusivamente interni, e il viaggio sarebbe ben più costoso, faticoso e aleatorio.

 

Le cose non così semplici quando mi tocca spostarmi dalla casa italiana, in una frazione di Ghiffa, posta sui dolci pendii delle colline della sponda piemontese del lago Maggiore, per raggiungere Lugano, distante, in linea d'aria, circa trenta (30) chilometri. Trenta chilometri che su strada diventano ottanta, un'ora e mezza di tempo (solo ed esclusivamente in totale assenza di traffico) se si percorre in auto la costa occidentale del lago Maggiore e la si abbandona entrando sull'autostrada per Bellinzona per poi ritornare verso sud in direzione Lugano (itinerario che non prenderemo nemmeno in considerazione perché si svolge tutto su mezzo privato su gomma). Non mi dilungo su altre avventurose varianti (treno da Verbania a Domodossola, da lì ferrovia a scartamento ridotto fino a Locarno, da Locarno a Bellinzona e di lì a Lugano (più di quattro ore); aliscafo per Locarno e poi treno ecc.(idem); treno fino a Milano e cambio per Lugano (idem).

 

I miei percorsi preferiti sono quelli misti, condotti con mezzi di trasporto di due tipologie (traghetto + treno) o persino tre (traghetto, auto, trenino). Affronteremo quest'ultimo, che si effettua scendendo con l'auto dal paesino collinare verso l'imbarcadero di Intra e, colà giunti, imbarcando l'automobile e se stessi su un traghetto, che lascia la sponda, oggi che i tempi sono grami, ogni trenta minuti. L'unica precauzione da prendere è, il mercoledì, quella di non partire troppo presto: si troverebbe l'accesso al traghetto intasato dai camioncini che trasportano mercanzia per il famoso mercato di Luino celebrato da Piero Chiara. Scampato quel pericolo, si va lisci; ci si imbarca per i venti minuti di traversata, si tira il freno a mano, si chiude l'auto, si esce sul ponte e si ammira il panorama, non come quei passeggeri, e sono i più, che se ne stanno chiusi tutto il tempo nell'abitacolo della vettura a guardar nel vuoto o sullo schermo, talvolta, anche se è vietato, a fumare.

 

 

Il traghetto lascia il piccolo porto tra gabbiani nell'aria e svassi, cormorani e smerghi sull'acqua o nell'acqua (ho imparato a distinguere questi uccelli acquatici proprio grazie alle mie osservazioni dal traghetto e ne vado molto fiera). Il traghetto oltrepassa a destra la collinetta con giardino botanico di Villa Taranto, poi il Mottarone, con la sua aria paciosa, Stresa e le isole. Sulla sinistra il lago si allunga, in fondo c'è la Svizzera, si vedono alte montagne innevate. Ma lo spettacolo più glorioso è alle spalle della barca, ché sopra la cittadina di Intra, oltre le colline verdi azzurre che formano una sorta di conca alla quale i battellieri danno una a denominazione volgare che non mi vogliono confessare, si vedono, nel mezzo, tutto bianco e azzurro, il massiccio del Sempione, e, a sinistra, le cime del Monte Rosa.

 

Mentre sono lì che ammiro il paesaggio mi colpisce una zaffata di profumo di soffritto; penso a una pasta alle vongole ma mi inganno: i battellieri mi spiegano infatti che, in piedi come sono dalle tre del mattino, si sono preparati alle nove una spaghettata aglio e olio. Ma già l'odore si attenua, il tragitto è breve, siamo a Laveno, da cui sbarco per iniziare il tratto in automobile del mio percorso misto, da Laveno a Ponte Tresa lungo la riva occidentale del lago, sotto quel cielo di Lombardia così azzurro, così leghista. Si attraversano le gallerie scavate nella roccia del lago, si segue la strada circondata da azalee in primavera e di ortensie fiorite dall'estate fino ad autunno inoltrato, si passa sulla strada costiera del paesino di Porto sul fondo di una valle dal nome inquietante, la Valtravaglia, se travaglio è sì franciosismo per lavoro, ma per lavoro duro, tortura di lavoro come il lavoro del parto. Sulla piazzetta di fronte al lago si affaccia l'albergo del Sole, che con le sue eleganti forme e coi caratteri della scrittura del proprio nome dichiara esplicitamente, anzi urla, di essere stato edificato negli anni '30 del Novecento. Potrebbe essere opera di qualche architetto famoso, del Terragni forse, no, quello costruiva a Como, però sempre lago è, chissà.

 

A Luino, dopo essere passati davanti alla chiesa di San Giuseppe e San Dionigi col suo bel porticato si abbandona il lago (e ricordatevi di farlo altrimenti non riuscirete più a raggiungere l'unico valico che unisce i due laghi, come mi è capitato un paio di volte) e si sale alle spalle della cittadina per attraversare il confine (ci sono ben due valichi, uno più agevole, le Fornasette, l'altro più impegnativo ma molto più suggestivo, Ponte Cremenaga) e sbucare nella valle del Tresa. Siamo in Svizzera e si vede. La vegetazione è la stessa ma il manto stradale è perfetto e i limiti di velocità vengono rispettati. Fino a Ponte Tresa il paesaggio non è così bello rispetto ai precedenti: la valle è chiusa e fredda, d'inverno piena di brina perché prevalentemente all'ombra. Il fiume, femminile in Svizzera e maschile in Italia («la» Tresa e «il» Tresa, misteri della toponomastica) è un emissario del lago di Lugano che sfocia nel lago Maggiore, passando la frontiera senza controlli. Se le acque andassero nell'altra direzione si potrebbe immaginare che sul letto del fiume si snodi un denarodotto subacqueo.

 

Quando arriviamo in auto a Ponte Tresa sono trascorsi, ricapitolando: dieci minuti dal paesello all'imbarcadero, cinque di attesa e biglietto, venti di traversata fino a Laveno, trenta per raggiungere Ponte Tresa Svizzera (perché c'è anche, al di là del ponte, Ponte Tresa Italia), paesotto con la densità di farmacie più alta del pianeta. A quel punto ci serve qualche minuto per parcheggiare la macchina (a pagamento ovviamente, ma la tariffa è modesta; basta usare il parcheggio «Park and Ride» della località successiva, Caslano, per pagare tariffe più che quadruplicate. Perché? Perché lasciare la macchina al parcheggio di Ponte Tresa per 24 ore costa 3 franchi e a Caslano 14?). Tant'è. Si parcheggia (cinque minuti ci vogliono tutti) e si prende la Ferrovia Lugano-Ponte Tresa (FLP), un trenino a scartamento ridotto; altri venti minuti e saremo sul piazzale della stazione di Lugano, dopo aver tagliato via tutto il traffico. Zac, via. Loro lì nelle loro scatole di latta a procedere a passo di lumaca e noi nel nostro agile trenino a guardarli sadicamente sentendoci tanto ecologici. Ancora acque lacustri da costeggiare, quelle del Ceresio questa volta, poi l'aeroporto di Agno, che a poco serve se non si viene da Ginevra, poi la periferia di Lugano con le sue colline cementificate cosparse di ville e case e condomini stile cubone o parallelepipedone. Dalla stazione di Lugano all'università si arriva a piedi in un quarto d'ora, oppure si prende l'autobus ma il tempo è quasi lo stesso e una camminata non fa male, e poi la strada è in discesa. Alla fine se ne sono andate quasi due ore, eppure questo è il percorso più breve.

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