L'Aquila: d’abord l’à-bord

4 Aprile 2014

Nell’agosto del 2013, prima di partire per L’Aquila, ho pensato di visitarla tramite Google Street View. In altre zone d’Italia ci sono immagini del 2008 che si compenetrano a quelle del 2011; ma se altrove il passaggio riguarda soprattutto l’incisione abitudinaria dei luoghi – la luce o le stagioni trascorse tra un intonaco e l’altro, attraverso l’evanescenza della Rete – a L’Aquila le conseguenze del sisma e la gestione della realtà sono state dirompenti perfino nel regno asettico di Google Street View, dove ancora oggi convivono il lontanissimo settembre 2008 – sette mesi prima del terremoto – e l’aprile del 2011, che potrebbe essere un aprile qualsiasi, indistinto, ma dalle inconfondibili sembianze del dopo. E in mezzo, sospesa, la dimensione parallela della realtà: corpi, uomini, animali e cose, che restano impigliati nella Rete.

 

 

 



Il cavallo senza nome


Nel settembre 2013 sono arrivata a L’Aquila e mi sono accorta della forte presenza della natura. La città è circondata dalle montagne. Le sorgenti del Vera. Il fiume Aterno. I boschi. Volevo accompagnare i visi, le persone, le case, gli oggetti di Google Street View con alcune immagini di ciò che circonda la città e diventano la città stessa. Tra Camarda e Assergi, dove sono state costruite alcune New Town, gli uccelli migratori hanno cambiato percorso, non passano più di lì. Poco prima del terremoto del 2009, i biologi che studiavano una colonia di rospi in prossimità della città, si sono accorti che gli animali abbandonavano, senza apparente motivo, le pozze d’acqua colonizzate poche settimane prima.

 

 

Il figlio di un uomo molto ricco e potente – uno di quelli che si occupano di ricostruire la città – ama andare a cavallo tutte le mattine, prima di colazione. Una mattina cade, si fa abbastanza male, tanto da dover essere soccorso. Incolpa l’animale e decide di punirlo: fa portare il cavallo in montagna, lo abbandona, affinché muoia di fame e di freddo.

 

 

Come spesso capita in questi casi, davanti a storie molto forti, ci si divide. C’è chi pensa che la storia sia frutto di quel passaparola distorto indispensabile all’oralità, che a ogni passaggio aggiunge o toglie qualcosa; e viceversa c’è chi vuole credere senza alcun dubbio. È sempre interessante la reazione umana alle atrocità. Io suppongo che questa storia sia plausibile, ma non è questo il punto. Non volendo fotografare le macerie, ho cercato di fotografare il cavallo.

 


Ho ripercorso la presunta via dell’abbandono, a fine estate. Sono salita da Assergi a Campo Imperatore in cerca del mio cavallo. All’andata ho incontrato bovini, brucavano pacifici i terreni lungo la strada. Sono arrivata fino all’appartamento 201, al secondo piano dell’albergo rifugio di Campo Imperatore, a 2112 metri, sotto lo sperone roccioso del Gran Sasso d’Italia, dove Mussolini ha passato dieci giorni di prigionia. Di fronte all’albergo c’è l’osservatorio astronomico che studia, tra le altre cose, anche le modificazioni del paesaggio dovute all’inquinamento, ai cambiamenti climatici. La metafora della distruzione è complementare alla metafora della ricostruzione. Al ritorno, ho incontrato una cavalla incinta.

Costruire una falsa identità


La fotografia è sempre stata tautologicamente legata alla memoria ma oggi questo vincolo comincia a sfilacciarsi. In Blade Runner i replicanti portavano in tasca false foto di famiglia per ricreare l’illusione dei ricordi che li ancorassero al passato. Ognuno di noi ha un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto”, e questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, se necessario ri-possedere la storia del nostro vissuto. Dobbiamo “ripetere” noi stessi, nel senso etimologico del termine. L’uomo ha bisogno di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé. Incapace di conservare un racconto o una continuità autentici, egli è indotto a un proliferare di pseudoracconto, a una pseudocontinuità, a pseudo mondi popolati di fantasmi.

 

 

Ecco, i fantasmi da cui ero partita. Accompagnare le fotografie di persone trovate in Google Street View – che continuavano ad esistere là – e che non avevo dimenticato, tornare alla dimensione identitaria. A Onna, epicentro del terremoto, ho camminato tra le casette di legno costruite con i fondi del Trentino. Mi sono ritrovata in un cimitero. È il tipo di paesaggio che conosco bene, lo fotografo, lo frequento, è L’Italia fuori dai centri storici, cioè l’Italia. Le persone escono poco di casa ma hanno costruito un ordine nel caos. Il giardino, le piante, l’adattabilità dei gerani e degli animali domestici.

 


Ho incontrato un uomo, mi ha raccontato tutta la sua vita, il rimpianto per Mussolini morto quando l’uomo aveva dieci anni, l’amore per la moglie amata fin dall’infanzia e ora morta.

Il luogo della cornice


Il motivo delle mie dispute sull’immaginario non è solo la figurazione di un racconto quanto la localizzazione geografica e l’esistenza materiale di un territorio che lo accompagna, quella di un’isola piantata nel mezzo dell’Italia. Nel Rinascimento, L’Aquila era la via di passaggio da Napoli a Firenze, è stata la seconda città del Regno, poi anche di confine, ma soprattutto è nota per essere la seconda città più fredda d’Italia.

 

 


Nell’ottobre del 2013 con lo scrittore Giorgio Falco siamo andati alla nuova città dell’Aquila. Giorgio Falco, in quei giorni, non è voluto entrare nel centro storico ancora distrutto, nemmeno ha voluto lambirlo. In effetti, il centro della città è sembrato non avere necessità di alcuna relazione con l’esterno, una chiusura incondizionata che esclude l’ambiente circostante, in una posizione insulare, appunto.

 

 

 

 

Così abbiamo passato quei giorni nelle frazioni, sul confine, e deciso di guardare non il bordo ma ciò che vediamo da lì, spesso con le nuove case alle spalle, un trampolino che lancia la nostra attenzione sulla dimensione leggendaria dell’isola estetica, e in questo senso analoga al sipario che apre e chiude lo spazio della rappresentazione teatrale o al silenzio che precede un’esecuzione musicale: non cercare né un semplicemente fuori, né un semplicemente dentro, come un oggetto estraneo che si è obbligati ad accogliere a bordo, dal bordo. Il est d’abord l’à-bord, diceva Derrida.

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