Carnet geoanarchico | 1 / Levanzo, istruzioni per l'uso

30 Maggio 2018

Per prima cosa non andateci. Andate a Favignana, a Marettimo, le Eolie, Salina, Pantelleria, le isole dei cocktail di chi nella vita si muove in barca a vela, o finge di farlo, dentro una luce inflessibile di tramonto. Non andate a Levanzo perché dovreste farvi bastare due ristoranti sommari e dei sentieri che per chilometri e chilometri attraversano un nulla selvaggio privo di glamour e di strutture ricettive. Che cosa potreste fare lì, se non una puntata periferica di qualche ora, un periplo attorno all’isola sopra uno scafo candido in affitto, o una rapida visita guidata alla Grotta del Genovese? Sbarcate da uno degli aliscafi battezzati con nomi di donna e senza quasi sentire il cemento del molo sotto i sandali salite su una jeep che vi aspetta e vi intruppa verso un’amena località attingibile in mezz’oretta di sobbalzi. Di lì, a piedi, sarete invitati a scendere un morbido declivio, lungo un sentiero arginato da steccati che a larghe anse e aeree terrazze vi squaderna in tutta la sua potenza l’oceano Mediterraneo, e bluastra e ulissiaca laggiù la puntuta Marettimo. Le visite si fanno al mattino ma, se non si avesse premura di tornare ai locali notturni di Favignana e Trapani e si passasse la notte in quest’isola di un dio minore, di lì si potrebbe godere d’un tramonto immenso, di quelli da non fotografare, con un mare blu pantone PMS 303 e il sole riflesso in acqua come milioni di scorze di mandarino. Ma non pensateci. Perché adesso i gabbiani, seccati dal vostro incedere sbuffante, fingono vertiginose picchiate sui vostri cappelli di paglia e il suono vibrato delle remiganti si mescola a quello dei marosi laggiù, che non si avvicinano mai, mai, come calcinacci impressi nella retina. Ma piano.

 

 

Avete aggirato la falesia e siete arrivati all’ingresso della grotta. Una rete di recinzione vi esclude dallo spazio antistante e una porticina di metallo, lucida e pesante come quella di un caveau, mura all’interno un budello di concrezioni calcaree e di sogni paleolitici e neolitici. La storia è nota. Gli isolani sapevano di quel luogo ma non ne sapevano niente, se non che era un’immensa conigliera naturale che loro, di tanto in tanto, andavano a rapinare con i furetti. Gli anguilliformi mustelidi entravano attraverso un buco per metà insabbiato e creavano all’interno l’inferno dei conigli. Questi si precipitavano terrorizzati verso l’orifizio e i cacciatori li acciuffavano per la collottola o, più umanamente, gli sparavano a bruciapelo. Un giorno di tanti anni fa, una non meglio precisata “ragazza fiorentina”, che per diporto soggiornava sull’isola, decide di visitare l’interno, il buco profondo. Striscia per qualche metro, percepisce che nel buio il soffitto si alza sopra di lei, fa vorticare la luce della torcia come una spada laser ed ecco, le immagini, l’arte, se volete chiamarla così, le pitture in grasso animale e carbone che rappresentano silhouette femminili, tonni, delfini, oranti, mascheroni, imprecisati esseri saltati fuori dalla testa di qualche uomo o qualche donna di 8000 anni fa. Informato della cosa, il modenese Paolo Graziosi corse a studiare la grotta nei primi anni Cinquanta del Novecento.

 

 

E scrisse un libro, intitolato Levanzo, che ho qui sulla mia scrivania. Per me, un cerchio che si chiude: da un lato il padre di Graziosi che a Savignano sul Panaro ritrovava la celeberrima Venere steatopigia nel buio di una cantina, perché veniva utilizzata dall’ignaro contadino come tappo fusiforme per una botte; dall’altro Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog, il documentario girato affrettatamente dal regista tedesco nella Grotta Chauvet in Ariège nel 2010. Due pietre miliari della mia personale fantapreistoria, perché la prima è una notizia falsa che si inventò mio padre quando ero bambino, la seconda è il finale del film dove Herzog riprende dei coccodrilli albini nati poco lontano dalla Grotta Chauvet in una serra tropicale riscaldata dalle acque di raffreddamento di una centrale atomica. Herzog ci lascia con un interrogativo: rispetto all’arte del paleolitico, non siamo noi come futuri coccodrilli mutanti che guardiamo dal vetro dell’acquario lo spettatore di oggi? Abissi cognitivi. Mise en abîmes. E anche un po’ di fuffa postmoderna. Quando lavoravo per Emmanuel Anati al Centro Camuno di Studi Preistorici, ho conosciuto quella “ragazza fiorentina” che a Levanzo “scoprì” la grotta e che ormai, nel 2000, era una bellissima lady inglese oltre i settanta. Si chiamava Alda Vigliardi, allieva del Graziosi, una delle più grandi studiose di arte preistorica in Italia. Non mi ricordo che cosa ci dicemmo o se mi raccontò dell’isola o se effettivamente quella ragazza era proprio lei.

 

Ma so da un po’ che non è il rapporto con la verità dei fatti che mi interessa e che mi spinge a scrivere. Se allora entrate nella Grotta del Genovese, a gruppi di otto, magari con qualche ciarliera ragazza scout e una coppia veneta abbronzata che ama fare snorkeling, potete restare ad ascoltare la guida competente, che orienta il faretto per mettere in risalto i graffiti di equidi e bovidi, che snocciola dati e interpretazioni con noia malcelata, potete farvi bastare quella mezz’ora di immersione nel liquido amniotico del Tempo Grande e poi uscire nell’aria salina e respirare l’adesso-qui. Sì, potete. Ma se siete entrati in quel dispositivo mediatico che è una grotta ornata del Paleolitico, allora una parte di voi dovrà restare per sempre lì, nella penisola che ancora 10.000 anni fa dal promontorio di Trapani inglobava Levanzo, e in mezzo, nel braccio di mare di oggi, i boschi e le praterie di caccia della nostra specie. Uri tra le correnti. Cavalli in fuga liquida sulle sabbie dei fondali bianchi. Per me tutta l’anarchia sorgiva dell’immaginario viene da lì. Da una caverna cognitiva ancorata alla terra, dove un Platone che scheggiava selce continua a lanciare ciottoli colorati verso di noi, dentro lo stagno del nostro presente.

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