Roma senza Papa

12 Febbraio 2013

Chiunque lo abbia visto ha pensato al film di Moretti Habemus Papam. Nella pellicola il Papa non entra nel Sacro per tornare al teatro. Michel Piccoli mette in scena un Karol Wojtyła che si ferma prima. Giovanni Paolo II ha compiuto, durante l'arco della sua vita, la strada, lunga e faticosa, che lo portò da giovane attore a Papa. Melville (Michel Piccoli) questa strada la interrompe sul nascere.



Tuttavia se l'attore, come ha scritto il giovane Wojtyła, è portatore di problemi, e non interprete, ciò accade perché la vita e la sua rappresentazione scenica, il reale e il simbolico, rimangono separati da una barriera invalicabile. Il paradosso di Melville consiste nel mancato passaggio dal sublime al Reale, dall'arte al Sacro. Melville fu anche lui giovane attore, come Wojtyła, ma questo è il passaggio che non viene compiuto: da attore a Papa.

Con Ratzinger il passaggio che si compie è davvero l'inverso. L'opposto di una normale investitura. Il Papa si porta fuori dal Sacro per rientrare nella vita quotidiana. Si tratta di un passaggio che segna la fine di un'irreversibilità.  Al di là del diritto canonico, l'abitudine ci aveva insegnato, direi costretto a pensare che l'investitura papale fosse irrevocabile. Ratzinger non è morto, sembra non essere neppure disabilitato sul piano psico-fisico.

 


Nel film di Moretti Melville si reca presso una psicoanalista. Ma che c'entra la psicoterapia con l'investitura del Papa? La psicoterapia rimette sempre in questione l'esistenza del soggetto, che per definizione è fessurato, eccentrico a se stesso, impossibilitato ad assumere un ruolo, sia pure anche quello di Papa, che saturi la persona. Per la psicoanalisi nessuno potrà mai diventare personaggio, per quanti sforzi personali, per quanti sforzi sociali si possano fare, neppure un Papa potrà mai essere infallibile. In questo senso forse la chiesa, dopo il gesto di Ratzinger, non potrà essere più la stessa di prima.


Il suo ritiro somiglia al ritorno dell'esperienza di Cuernavaca, in Messico, quando un gruppo di padri Benedettini decise di dare a una psicoanalista l'incarico di valutare l'autenticità delle vocazioni dei novizi. In quel caso il Sant'Uffizio di Roma proibì l'esperienza non appena ne venne a conoscenza, ma allora divenne chiaro che la psicoanalisi non è affatto contraria alla vocazione, solo la colloca all'interno dell'esperienza umana possibile, della finitezza.


Ma qui la confusione aumenta, perché l'esperienza messicana di Cuernavaca è indicata, a torto o a ragione, come uno di quei fenomeni ascritti alla teologia della liberazione. Non era stato proprio lui, Ratzinger, che solo recentemente aveva redarguito la teologia della liberazione? Che abbia cambiato idea, che abbia voluto, fallendo, introdurre qualche minima apertura in questo sarcofago incontaminabile che è la cattolicità?


Si dimette perché, pur essendo profondamente conservatore, sente il peso di dire sempre no all'innovazione (teologia della liberazione, sacerdozio femminile, matrimonio tra i prelati) e sempre di sì al conservatorismo (reintegrazione dei lefevriani, santificazione dei martiri franchisti, divieto dei profilattici in paesi dove l'AIDS devasta intere popolazioni)?


Oppure si dimette facendo un gesto profondamente rivoluzionario? Gesto che pochi, per esempio Francesco d'Assisi, sono riusciti a fare senza venire scomunicati? Perché questo gesto, a mio avviso, significa proprio: io non sono perfetto, il Papa non può pretendere la perfezione, è un uomo.

 


Nel film di Moretti lo psicoanalista è una macchietta, invece le dimissioni di Ratzinger mostrano la cifra di un cambiamento, della liberazione della persona dal personaggio, la cifra di una soggettivazione. Da oggi in poi il Papa è fessurato, abitato dal nulla; da oggi in poi la sua fallibilità è il segno di un uomo. Non ci sarà più bisogno di farlo sedere su alti scranni, coperto da corone enormi, come il Laio di Pasolini. Potrebbe camminare in mezzo a noi, discutere con noi. Si potrebbe insieme a lui combattere la guerra, ci si potrebbe  far convincere che in alcuni casi l'interruzione di gravidanza può avere risvolti etici inquietanti. Che laici e cattolici possono parlare senza che i cattolici debbano sempre pretendere quella superiorità argomentativa che risale al Concilio di Nicea.

 

Per qualcuno come me questo passaggio impensato, inesplorato, così repentino e stupefacente, dà immediatamente un senso di tranquillità. Qualcuno di così immensamente potente, che si è auto-dichiarato infallibile, oggi ritira la propria leviatanica prosopopea dalla scena e si ripresenta come un soggetto, che crea legami senza imporli.


Se così fosse la chiesa sarebbe davvero molto più amabile. Potrebbe liberamente prendere posizione su qualunque cosa senza per questo costringere i suoi seguaci a sentirsi cavalieri di Vandea. Si potrebbe parlare delle famiglie gay senza subire invettive, della fecondazione assistita o dell'interruzione di gravidanza senza sentirsi dare del nazista, dei matrimoni dei prelati e delle conseguenze dei loro divieti. E così anche la conversione ritornerebbe a essere un libero salto, conseguente a un gesto  profondamente sentito. Mentre la pastorale cattolica cesserebbe di essere un espediente per fare carriera rapida e incontaminata nella pubblica amministrazione lombarda.

 


Se poi il Papa lo avesse fatto perché si sente impotente di fronte alla superficialità con cui la sua chiesa ha spesso trattato gli abusi - dal caso irlandese di Magdalene, alla pedofilia - beh, allora, questa stessa chiesa dovrebbe farlo Santo, il primo Santo vivente e questo sarebbe il secondo strappo a quell'insostenibile monumento dogmatico che è diventata la Chiesa Romana Cattolica e Apostolica.


Non tutta la chiesa è così, ma oggi è quel che si mostra anzitutto e perlopiù. Allora che si dia spazio a chi nella chiesa ha proposto nuove aperture, come a suo tempo si fece eleggendo Giovanni XXIII, che pur non essendo stato un teologo della liberazione, almeno aveva uno spirito liberale. Ma si può essere cattolici e liberali senza togliere i dogmi?

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