David LaChapelle. Dopo il Diluvio

Celebrating

di Veronica Vituzzi

 

La fine di una civiltà porta sempre con sé un cumulo di macerie, cadaveri, rovine semi carbonizzate di un'epoca colma di corpi e oggetti. Dopo il Diluvio, retrospettiva sul lavoro di David LaChapelle in mostra fino al 13 settembre al Palazzo delle Esposizioni di Roma, cattura in immagini il crollo fantasticato della nostra cultura ipermediatica e lo racconta secondo quello che a prima vista potrebbe essere considerato il canone estetico più diffuso del nostro tempo, ovvero quello di una società dello spettacolo estremamente fotoritoccata. La trasposizione nel contesto del presente di un'icona o un topos narrativo sedimentati nella coscienza culturale è un evento necessario per estrapolare dal passato quei dati emotivi o concettuali che continuano ad agire dentro l'essere umano; e la morte di una civiltà presuppone, ben più degli specifici decessi biologici, la fine delle idee, dei pensieri, e soprattutto della capacità di immaginazione di un popolo, lasciando solo i resti dei prodotti culturali da esso realizzati. In Il diluvio, David LaChapelle descrive la distruzione della nostra epoca come un'implacabile inondazione in cui le persone, annegate o semisommerse, possono trattenere della loro vita passata solo gli abiti che indossano, i corpi talora lucidi e palestrati che si sono costruiti, o quelli molli e grinzosi che gli sono capitati.

 

David LaChapelle, Deluge, 2006

 

L'esplicita citazione del Diluvio Universale di Michelangelo rappresenta la crescente fascinazione dal 2006 in poi dell’ex fotografo di moda per l'arte rinascimentale italiana, allorché LaChapelle decise di dirigere il proprio lavoro verso ambiti meno commerciali, senza con questo rinunciare alla propria estetica pubblicitaria, ora tradotta in un mezzo di indagine profonda della realtà. Nelle sue nuove serie fotografiche la distruzione è l'elemento fondamentale: le sue immagini raccontano ciò che può rimanere della nostra storia, ovvero i negozi, le insegne luminose, le stazioni di servizio, i loghi d'aziende miliardarie e tantissima immondizia. Riviste, sex toys, cellulari, integratori vitaminici, lattine e banconote, e soprattutto, fotografie patinate delle celebrità, sono i cadaveri della civiltà occidentale che l'artista raccoglie nelle sue opere, dalle rigogliose nature morte di Earth Laugh on Flowers, ai manichini distrutti dei divi in Still Life. Un mondo collassato ma nella catastrofe ancora ostentatamente chiassoso, brillante, quasi a definire una società seppellita nelle sue stesse rappresentazioni, sopravvissute pur se in frantumi agli esseri umani.

 

Da sinistra: David LaChapelle, Anonimous Politicians, 2012; The Awakened, Job, 2007

 

Per LaChapelle questo crollo richiama la crisi finanziaria americana del 2008, simbolo di una bulimia culturale la cui voracità nell'inseguire e inghiottire capitali economici, corpi perfetti e godimenti illimitati dei sensi, finisce per far cedere l'intero sistema sociale, vomitando esistenze e sogni (visivi) di gloria. C'è dunque una certa coerenza nel rappresentare questa morte secondo i termini figurativi della vita che c'era prima, e che ora è scomparsa: ma è proprio nel suo stile convenzionalmente pubblicitario che l'opera del fotografo americano trova sia le sue risorse che i limiti estremi. La questione è se considerare davvero quest'estetica ancora il codice visuale predominante, laddove lo spazio virtuale di Internet genera ogni secondo milioni di immagini la cui definizione riscrive le categorie dell'immaginario finora conosciute. In questo senso lo sguardo di David LaChapelle appare efficace ma al tempo stesso riduttivo, in quanto se la nostra rimane una società fondata sull'immagine, non è più possibile però riassumerla nell'ottica della sola pubblicità dei colossi massmediatici, poiché gli individui stessi hanno iniziato a vendersi da sé come prodotti (e celebrità), non solo in virtù di una mera aderenza ai canoni figurativi tradizionali ma anche operando sopra di questi una consapevole manipolazione personale. L'opera dell'artista statunitense riesce allora a celebrare solo una parziale e forse già invecchiata visione della decadenza occidentale, il cui significato resiste nella misura in cui richiama esclusivamente alla mente un immaginario pubblicitario che ormai con Internet ha raggiunto una nuova dimensione.

 

David LaChapelle, American Jesus, 2009

 

 

Visioni apocalittiche, o forse no?

di Daniela Voso

 

Si apre con la visione apocalittica di un diluvio contemporaneo ispirata all’Universale di Michelangelo della Cappella Sistina, la mostra di David LaChapelle in corso a Roma al Palazzo delle Esposizioni fino al 13 settembre [Dopo il diluvio]. The Deluge, questo il titolo dell’opera, ricalca pedissequamente la composizione cinquecentesca eseguita su commissione. Curiosa coincidenza che questa del 2006 sia invece una delle prime opere eseguite da LaChapelle, – fotografo di moda, pubblicitario e regista di video musicali –, senza alcuna commissione dopo molti anni di attività.

 

David LaChapelle, Gas am pm, 2012

 

In The Deluge un palo della luce in legno prende il posto dell’albero sulla sinistra; un’automobile quello di un lembo di terra non ancora sommerso; un’antenna parabolica quello di una tinozza salvagente; i resti della facciata del Caesar Palace di Las Vegas quello di un tempio; gli scheletri di grattacieli, un’insegna di Gucci e una di Burger King, quello di uno scoglio, residuo della terra che fu, della civiltà sommersa per punizione divina. Cosa dire poi dei personaggi? Essi sono ben connotati storicamente, non solo per l’ambientazione ma anche per i brandelli di vestiario che si portano dietro e per il loro aspetto. Principalmente nudi, alcuni di loro indossano ancora calzini, scarpe da ginnastica o con il tacco alto; mostrano tatuaggi e seni rifatti, che li proiettano indiscutibilmente in uno scenario occidentale, contemporaneo ed esclusivamente caucasico. Accanto al Diluvio c’è il ciclo Awakened, immagini di uomini e donne abbandonati nell’acqua e illuminati da luce verosimilmente divina. Anche qui il riferimento biblico è evidente, non solo nel titolo della serie ma anche nei nomi dei personaggi, da Giobbe a Sarah, i protagonisti del Vecchio Testamento. La retorica della rinascita attraverso la catarsi data dalla morte, è presente in tutto il nuovo corpo di opere, che prosegue con le immagini di un Museo, di una Cattedrale e di una Statua, didascalici ed elementari emblemi di una cultura occidentale decaduta, sommersi dalle acque divine.

 

La mostra, prosegue ripercorrendo l’opera di LaChapelle dagli anni ottanta a oggi attraverso diversi nodi tematici. Il ripetersi dell’escatologia cattolica si accompagna di volta in volta con citazioni esplicite di artisti del passato o icone contemporanee, il cui velo allegorico scompare dietro una cornice kitsch, data dalle ambientazioni, piuttosto che dai colori saturi e dai contrasti cromatici netti, più pittorici che fotografici, o dai soggetti scelti per interpretare immagini consacrate alla storia dell’arte. Come nei casi di Rape of Africa (2009), citazione dalla Venere e Marte di Sandro Botticelli (1483), oppure in Negative Currency, Car Crash (2008), opere realizzate in seguito alla crisi del 2008, come in My Own Marilyn (2002), dove i riferimenti alle serie One Dollar Bill e Death and Disaster, di Andy Warhol, sono evidenti.

 

David LaChapelle, The Rape of Africa, 2009

 

Tra le altre sezioni della mostra ci sono il corpo di lavori Land Scape – già presentato a Milano da Robilant Voena nel 2014 – un nucleo di scatti che ritraggono paesaggi industriali realizzati con cannucce e bicchieri di plastica, carta argentata e altri materiali di uso comune; le Stazioni di rifornimento, deserte, abbandonate e sopraffatte dalla natura; My Personal Jesus, serie di composizioni riguardanti la vita di Gesù reinterpretate in ambientazioni contemporanee; Natura Morta, in cui LaChapelle fotografa ciò che rimane dei ritratti di personaggi politici e del mondo dello spettacolo del Museo Nazionale delle cere di Dublino, danneggiati a seguito di un atto vandalico; La terra ride nei fiori, le immagini di bouquet coperti da cellophane come a vole preservare una bellezza destinata a scomparire (si parla, è ovvio, di Vanitas) e Aristocracy, in cui si vedono aerei precipitare in dense nubi colorate.  Non manca l’Ultima Cena, eseguita con volti di cera e moncherini sul modello di quella di Leonardo.

 

L’accusa verso un decadimento della morale e del fisico, sembra completarsi nell’Autoritratto come casa, in cui l’artista fotografa lo spaccato di un’abitazione popolata e vissuta da figure devastate dai proprio vizi e dal piacere, forse a voler dire che nessuno è senza peccato? Che pur ritraendo una civiltà in disfacimento egli stesso ne contiene al suo interno tutti i suoi vizi? O forse è la celebrazione autocompiaciuta di questa che per molti potrebbe essere deriva e per molti libertà? Quale il livello di critica, quale quello di ironia?

 

David LaChapelle, Self Portrait as a House, 2013

 

Dopo questo scrosciante profluvio di immagini, citazioni, colori, insegne, viene infatti da chiedersi se non ci sia un punto d’incontro tra la critica al consumo sfrenato che procede di pari passo con la decadenza della cultura occidentale, l’autocompiacimento di questa modernità, del pop, del suo immaginario, e – terzo elemento – il desiderio di appropriarsi della libertà antica di rileggere le storie classiche e religiose (cristiane) all’interno della propria attualità. Preparando questo articolo mi sono trovata a discuterne con Aurelio. Un mio caro compagno di università. Tra i tanti, preparammo insieme l’esame di Metodologia di storia dell’arte studiando i dettagli degli affreschi della Cattedrale di Assisi e quelli delle sculture di Donatello che, sapevamo, ci avrebbero chiesto all’esame. Poi io ho proseguito a chinare la mia testa sull’arte contemporanea e lui su quella moderna. Gli ho domandato se gli piacesse LaChapelle. Sì. Mi ha risposto. Perché? Perché è pop. Per l’uso del colore e perché recupera i soggetti rinascimentali. Ma è didascalico. Ho obiettato. È vero. Tremendamente didascalico, è per questo che mi piace.

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