Sorveglianti e sorvegliati / Ariaferma: l’inferno svuotato del carcere

28 Ottobre 2021

Le sentenze non hanno la stessa potenza delle immagini e richiedono una fiducia che potremmo coerentemente definire cieca. Le immagini della rivolta e poi delle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell'aprile del 2020, diffuse a un anno di distanza, hanno permesso a tutti di venire al corrente di avvenimenti a cui sarebbe difficile credere senza l'ausilio dei video. Per i fatti di vent'anni prima all'interno del carcere di San Sebastiano di Sassari, riportati alla mente proprio da quanto accaduto nell'istituto campano, dobbiamo limitarci alle parole delle sentenze. Ci fu sicuramente un violento pestaggio ai danni di alcuni detenuti: la vicenda giudiziaria contro i responsabili è stata lunga e ci furono alcune condanne, molte assoluzioni, una sanzione da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo per aver sottoposto a un trattamento inumano una delle vittime, Valentino Saba – sanzione resa ancora più pesante da una critica esplicita alle indagini svolte dalle autorità italiane. Meno di 15 anni dopo, quel carcere ormai in condizioni fatiscenti, in pieno centro storico, era stato dismesso e oggi è utilizzabile come set cinematografico. 

 

Ma non è soltanto per la storia passata – tra cui va citata almeno anche una delle tante evasioni del bandito Graziano Mesina – che Leonardo Di Costanzo ha deciso di ambientare all’interno di San Sebastiano il suo film carcerario Ariaferma. Vi ha cercato soprattutto un tipo struttura, quella forma panottica riscontrabile nella pianta (un corpo centrale circolare da cui partono cinque bracci) ispirata alla concezione di carcere perfetto in cui un sorvegliante dovrebbe poter guardare tutti senza essere guardato; fu ideato sul finire del XVIII secolo dal filosofo inglese Jeremy Bentham, il quale era anche giurista, economista, ma non architetto né urbanista, perciò non poteva davvero prevedere quali conseguenze potesse causare una simile idea in un contesto reale, che fosse quello delle prigioni, degli ospedali, dei quartieri proletari dove ammassare la povera gente. 

 

Da sinistra: Toni Servillo, Leonardo Di Costanzo, Silvio Orlando.


Inteso come un universo a sé stante, quasi senza contatti col mondo esterno se non nella sequenza iniziale, il carcere reinventato da Di Costanzo non si trova più nel centro di Sassari ma in un luogo indefinito circondato dai monti e dalla nebbia, nella città fittizia di Mortana. L’ambiente naturale imponente e intimidatorio che vediamo oltre le mura potrebbe trovarsi ovunque, nonostante gli accenti dei personaggi abbiano evidenti prevalenze campane e sarde. È un luogo extraterritoriale che rappresenta tutte le carceri della Penisola – se non il sistema carcerario in generale, non solo italiano – e metaforicamente ne collega la decadenza alla circostanza di un abbandono. Il carcere di Mortana sta per essere chiuso definitivamente, come ciclicamente accade a tutte le strutture troppo vecchie o troppo piccole. Tutti i detenuti devono essere ricollocati altrove; anche gli agenti della polizia penitenziaria potranno lasciare quel luogo e ne sono ben lieti. Non si può dire però che tra gli uomini in divisa si respiri un clima di sollievo; persino quando sono in libera uscita, per una battuta di caccia che termina dopo il tramonto, la soddisfazione per l’imminente partenza non può celare una evidente tensione nei rapporti reciproci, frutto di anni di lavoro duro in un luogo duro. Un imprevisto cambia i piani quasi all'ultimo momento: una delle destinazioni previste per i trasferimenti non è più disponibile. Avrebbe dovuto accogliere 12 detenuti, che sono costretti a rimanere a Mortana finché non verrà trovata un'alternativa, al più presto possibile; e un piccolo contingente di agenti deve necessariamente restare in servizio per sorvegliarli. Il giorno dopo, quando la direttrice del carcere lascia il suo ufficio e il comando effettivo della struttura passa nelle mani dell’ispettore Gargiulo (Toni Servillo), inizia l'attesa, ma il tempo sembra che si fermi come per un incantesimo.

 

La maniera più efficiente di garantire una permanenza sicura alla dozzina di detenuti (che presto diventano tredici) e al manipolo di guardie è radunare tutti in un unico ambiente. Ecco che la struttura panottica, presa come spunto per edificare la prigione nel 1871, torna ad assumere un significato vicino a quello originario che in realtà la pianta richiama solo simbolicamente: lungo la circonferenza del grande corpo centrale sono state ricavate delle celle dentro cui i detenuti vengono smistati a coppie. Da dentro, ognuno di loro può osservare le guardie che li sorvegliano ma i detenuti non possono mai guardarsi tutti tra loro, se non quando ne vengono fatti uscire. Per le guardie, il modo migliore di tenere a bada i detenuti senza correre rischi è mantenere una superiorità informativa: cercano di non far capire che sono pochi e inquieti, evitano di affrontare l'argomento della durata di quella sistemazione provvisoria. La scelta non funziona perché la tensione sale quasi subito: le guardie temono di non avere i mezzi per fermare una eventuale rivolta che sembra possibile in qualsiasi istante; i detenuti invece non pensano alla rivolta, non sanno neppure che la prigione è quasi vuota e abbandonata persino dalla direttrice, ma capiscono che la frase “il vostro trasferimento potrebbe avvenire anche domani” perde valore se ripetuta ogni giorno. 

 

 

Non c'è modo per noi di approfondire le storie di chi è rimasto a Mortana, come se dovessero restare tutti sullo stesso piano e non fosse necessario conoscere la fedina penale dei presenti; ma il nome di uno di loro, Lagioia (Silvio Orlando) viene pronunciato con deferenza, quindi possiamo dedurre che abbia un ruolo importante nella criminalità organizzata. Forte di un carisma mostrato coi silenzi più che con le parole, Lagioia assume il compito di esprimere perplessità e inefficienze, diventando la controparte di Gargiulo in questo rapporto sempre più teso. Dato il contesto che costringe a una scelta limitante degli spazi, la distanza fisica tra loro è sempre poca; nel corso dei giorni, affrontando assieme un'attesa condivisa e senza data di scadenza, si accorcia anche la distanza morale.

 

Presentato fuori concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Ariaferma è il terzo lungometraggio di finzione diretto da Leonardo Di Costanzo, la sua opera produttivamente più ambiziosa dopo due lavori in cui aveva puntato sulla spontaneità di attori non professionisti calati in spazi reali, delimitati e ben definiti. L’ambiente carcerario è un approdo naturale per continuare a esplorare la sua idea di luoghi che ingabbiano gli esseri umani e per questo fanno percepire uno scorrere del tempo diverso da quello esterno. La prigione di L'intervallo, per il tempo di una giornata di logorante attesa, era un edificio abbandonato in cui due adolescenti dovevano subire i ruoli di sorvegliante e sorvegliata imposti loro, provando invano a liberarsene; quella di L'intrusa era un piccolo monolocale appartenente a un circolo ricreativo aperto ai ragazzi da tenere lontani dalla strada e quindi dalla camorra, nel quale si barricava con l'inganno proprio la moglie di un camorrista appena arrestato. Nel primo film Di Costanzo si era affidato ai giovani debuttanti Francesca Riso e Alessio Gallo; per la seconda regia diede ampio spazio alle scene improvvisate con i ragazzi, guidati dalla coreografa e ballerina Raffaella Giordano e affiancati dalla non professionista Valentina Vannino. In Ariaferma ha voluto affrontare temi affini in maniera più strutturata e intima; perciò l'approccio più teatrale che documentaristico gli ha consigliato di avvalersi di attori professionisti, riuscendo a far recitare assieme per la prima volta Toni Servillo e Silvio Orlando. Non c’è stata una rinuncia completa al contributo dei non professionisti: alcuni interpreti sono davvero ex detenuti. E possiamo immaginare che sia proprio San Sebastiano a ereditare quel ruolo di attore non professionista che infonde, con la sua presenza, la linfa vitale del realismo all’opera di finzione. Se un luogo può essere definito un interprete, è possibile dire che San Sebastiano interpreti una versione di sé stesso che rievoca dolorosamente le proprie esperienze passate, ma purtroppo sempre attuali.

 

 

L’ex carcere è stato sfruttato nel suo visibile degrado ma anche adattato per ragioni narrative: la conformazione spaziale della prigione crea una nuova mappa che definisce il cambiamento dei rapporti tra i due protagonisti. A partire dalla struttura panottica, replicata in scala minore eppure affine all’idea originaria di Bentham, con le celle ad accesso dal corpo circolare centrale che sono state create appositamente per la scenografia del film e sono ben visibili anche nella locandina. Le guardie devono poter sorvegliare quasi in contemporanea tutti i detenuti, restando al centro dell'ambiente. Si impone anche visivamente l’idea della sorveglianza continua: un’affermazione della superiorità di chi controlla su chi è controllato, per non lasciare alcuno spazio all'illusione che quella soluzione temporanea sia meno rigorosa della quotidianità carceraria precedente. È una sistemazione tanto efficace quanto ingannevole: fa credere ai detenuti che ci siano abbastanza guardie per sorvegliarli adeguatamente ma nasconde una temuta debolezza numerica. Quando le sbarre delle celle sono chiuse, la vera distanza tra agenti e detenuti è quella simbolica dovuta alla disposizione reciproca, non certo quella calcolabile in pochi metri.

 

Ai detenuti vengono negate le visite e ogni attività ricreativa (un rimando inquietante a quanto è successo davvero nelle carceri italiane durante la pandemia). Rifiutano il cibo, convinti che i prodotti precotti, sostitutivi dei pasti della cucina che è stata chiusa, siano peggiori di ciò che mangiano gli agenti. Viceversa gli agenti, che hanno la consapevolezza di ricevere lo stesso cibo scadente dei detenuti, lo accettano controvoglia ma ben istruiti a non protestare. Si alza la tensione e viene proclamato uno sciopero della fame, fino a far temere nientemeno che una vera rivolta perché, soprattutto in Italia, il momento dei pasti è sacro anche in galera.

Una soluzione la propone Lagioia: si offre volontario come cuoco per preparare lui stesso, ogni giorno, pranzo e cena per tutti, se gli venissero messe a disposizione le materie prime. La cucina viene riaperta appositamente per lui: viene sorvegliato a vista da Gargiulo, ma in uno spazio in cui ha molta più libertà di manovra rispetto alle ristrettezze della cella. Soprattutto, ottiene una fetta di potere non indifferente: le sue giornate sono più movimentate, può lasciare più volte la rotonda delle celle, può decidere autonomamente cosa cucinare in base alle pietanze che gli vengono messe a disposizione. La cucina è il teatro principale del confronto tra Lagioia e Gargiulo, che si possono guardare negli occhi e parlare apertamente, quasi sempre senza orecchie indiscrete ad ascoltarli: l'ispettore ha tutte le chiavi, può concedere e negare i coltelli, può imporre di fare le pulizie, ma il rapporto uno a uno fa venire meno lo schema panottico che definiva l'assoluta superiorità del sorvegliante sul sorvegliato.

 

Il terzo ambiente che cambia ancora i rapporti tra i due protagonisti è un’ala abbandonata da tempo, che funge da via più breve tra la cucina e la rotonda. Le celle sono vuote da molto tempo, sono decrepite; quando ne vengono inquadrati gli interni vengono i brividi a pensare che un tempo ci vivesse qualcuno. Sembra di percepire dolori, orrori, grida, intrappolati tra mura scrostate, arredi divelti, cocci lasciati pericolosamente per terra. Si scende in un inferno che è stato svuotato ma conserva ancora la capacità di impietrire chiunque ci metta piede. È qui, più che in ogni altra scena, che possiamo percepire lo squallore degli ambienti in cui i detenuti sono stati costretti a trascorrere anni della propria vita; qualcuno che abbia vissuto là dentro, qualunque reato abbia commesso, non potrà mai uscirne come una persona migliore.  

 

 

In quest'area Gargiulo, preso alla sprovvista da un breve istante di fiducia mal riposta, compie un estemporaneo atto di compassione nei confronti di Fantaccini, un giovane detenuto introverso e terrorizzato per il destino che lo attende, violando le procedure pur di risolvere la faccenda senza danni. È un'azione che non passa inosservata a Lagioia, il quale si illude che la distanza tra guardia e detenuto, per qualche istante, quasi scompaia: vede Gargiulo svestire i panni del rigido tutore dell’ordine e diventare come un padre che cerca di aiutare un figlio che ha paura, rischiando in prima persona azioni disciplinari ma soprattutto la sua stessa incolumità. Non a caso questo atto di profonda comprensione e compassione avviene nell'area della prigione che più allude ai profondi danni psicologici che il carcere può causare.

 

Quando questo comportamento gli viene ricordato, Gargiulo è molto netto con Lagioia, che a sua volta aveva cercato a suo modo di rassicurare Fantaccini: ritiene che loro due non abbiano nulla in comune, anche se entrambi si sono interessati al benessere del ragazzo. Ma è proprio vero? Per prima cosa, condividono lo stesso spazio, che in quei giorni sospesi è una prigione per entrambi. Lagioia non può lasciare le mura del carcere, ma anche Gargiulo è stato condannato beffardamente allo stesso destino: la sua valigia è già pronta ma resta sempre aperta, ogni volta che torna nella sua stanza neppure la guarda. Per Lagioia, lui e l'ispettore condividono anche una stessa umanità di fondo, pur espressa secondo i limiti e le possibilità del rispettivo ruolo. Condivideranno un pasto, loro che per regolamento non dovrebbero mai mangiare assieme, nella scena che più riduce ogni distanza tra tutti i personaggi grazie alla convivialità spontanea del dividere la tavola. Soprattutto, condividono origini simili dalle quali sono scaturite scelte di vita apparentemente opposte. 

 

 

L'ultima vera barriera ha bisogno dell'aria aperta per cadere: tra i due protagonisti emerge il vissuto comune soprattutto quando sono nel cortile, per fumare o per raccogliere verdure per i pasti. Il cortile di un carcere non ha il sapore della libertà ma non è opprimente come le pareti strette di una cella, per di più provvisoria; il piacere di stare alla luce del sole permette di abbandonarsi agli aneddoti personali che ognuno tiene per sé quando recita la propria parte, dentro o fuori le sbarre. Non è vero che i due non abbiano nulla in comune ma non è vero neppure che provino lo stesso tipo di sentimenti: il confronto ne stabilisce chiaramente una distanza nata dalle scelte passate opposte, al contempo rende impossibile definirli ontologicamente diversi. Sono le due facce della stessa medaglia e d'altronde non esisterebbero sorveglianti senza sorvegliati, carcerieri senza carcerati. Nel cortile, però, possono persino camminare fianco a fianco, condividendo brevemente lo stesso tragitto.

 

Non è nelle corde di Di Costanzo riprodurre una rappresentazione del mondo manichea e fornire delle facili risposte allo spettatore. Il suo è il perfetto esempio di cinema che pone molte domande ma non ha mai l'arroganza delle risposte facili. Il tema da affrontare non è neppure la divisione fittizia tra buoni e cattivi: non abbiamo dubbi a comprendere che alcuni dei detenuti abbiano commesso azioni riprovevoli e sia necessaria una qualche forma di punizione o di isolamento dalla società. Sono le modalità con cui lo stato sceglie le sue pene, a causare molti dubbi. Non scopriamo da questo film che la detenzione in Italia ha soprattutto una funzione punitiva, con tutti i disagi psicologici che ciò comporta, e si occupa poco e male del successivo reinserimento nella società, che sarebbe nell'interesse di tutti, anche di chi ha subito gravi torti dai condannati. 

 

Non spetta a un regista offrire soluzioni politiche e sociali alternative allo status quo; il merito di Di Costanzo è proporre un discorso sull'importanza del punto di vista di chi in carcere deve stare per una scelta lavorativa o per una condanna, nonché sull'opportunità di cambiare la modalità dello sguardo reciproco, non solo metaforicamente. Proprio riuscire a guardarsi sempre negli occhi, pur consapevoli delle proprie differenze, può essere l’espediente affinché l'umanità sia di chi sorveglia, sia di chi è sorvegliato, non venga mai meno.

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