Tino Sehgal, o del gesto

14 Giugno 2013

Il mio primo incontro con Tino Sehgal risale al tardo marzo del 2006. Ero a Berlino, mi trovavo in città per la prima volta, e tutti i miei sensi sembravano annebbiati da un’infatuazione adolescenziale, ingigantita dall’apparire sulla mia strada (in senso letterale, su una strada precisa, l’allora per me sconosciuta Auguststraße) dell’apparato espositivo elaborato per la quarta edizione della Berlin Biennale.  I tre curatori della mostra, Massimiliano Gioni, Maurizio Cattelan e Ali Subotnick, mi stavano regalando la rara possibilità di penetrare gli edifici, di vedere i miei primi appartamenti berlinesi, insieme ad altri spazi meno privati, ma per me, sprovveduta turista, quasi segreti: cimiteri, imponenti ex-uffici postali, e sale da ballo antiche.  Proprio in quest’ultimo luogo il mio sguardo si sarebbe imbattuto in qualcosa che definiva a stento, quella che il mio primo manuale di storia dell’arte chiamava performance. Un ragazzo e una ragazza strisciavano sul pavimento, uniti da una coreografia che anche il mio occhio inesperto riusciva a riconosce, eppure il loro sembrava un gesto tanto naturale e indefinibile. Li legava un bacio, intervallato da qualche parola, parole in tedesco che ancora non potevo capire. Gli specchi ossidati tutti intorno a loro amplificavano lo spazio, e le loro movenze, mentre il pubblico arretrava, sempre più vicino alle pareti fatiscenti di questo spazio onirico, quasi a volersi confondere con esse. 

 

Tino Sehgal, Kiss, 4th Berlin Biennale for Contemporary Art, 2006

 

La breve guida alla mostra che portavo con me mi spiegherà, poco più tardi, che quello appena visto è un lavoro di Tino Sehgal. Non mi faccio domande, non leggo, non studio, mi godo una sensazione e il ricordo che ha prodotto. Devo aggiungere, per essere del tutto onesta, che non c’erano molte informazioni con cui ingrassare la mia sensazione fino a renderla un’effettiva conoscenza. Scoprirò con gli anni che Tino Sehgal, economista e coreografo anglo-tedesco, performer che non performa, non ama dilungarsi in spiegazioni dei suoi lavori, anche la sola nota didascalica incollata sulle pareti della stanza gli è d’impaccio, per non parlare della documentazione video-fotografica, con la quale ha ingaggiato una battaglia aperta (e persa).

 

Il mio ultimo incontro con Tino Sehgal è stato un paio di settimane fa, a Venezia, in occasione della 55. Esposizione Internazionale d’Arte, ossia della Biennale.  Partendo dalla fine, Sehgal ha vinto il Leone d’Oro, il massimo premio assegnato dalla giuria della Biennale e riservato alla gloria intima di un singolo artista presente in esposizione. Il più scontato dei risultati, se si fa mente locale circa quanto realizzato da quest’autore negli ultimi tre anni, produzioni d’indubbio prestigio come la mostra monografica messa in scena al Guggenheim Museum di New York nel 2010, il lavoro These Associations, performance commissionata dalla londinese Tate Modern, che ha animato il maestoso spazio della Turbine Hall tra luglio e ottobre 2012, o This Variation, performance “al buio”, pensata e realizzata per Kassel e la sua tredicesima dOCUMENTA, fino ad arrivare all’opera inclusa da Massimiliano Gioni nel lungo percorso del suo Palazzo Enciclopedico. Insomma, il premio veneziano sembra la classica ciliegina sulla torta. Una torta che tuttavia va osservata da vicino, togliendo un po’ della glassa di superficie, per capire meglio quali sono i motivi che rendono Tino Sehgal non solo uno degli artisti più premiati degli ultimi dieci anni, ma anche uno dei più interessanti e innovativi.

 

Tino Sehgal, Mostra monografica al Guggenheim Museum, New York 2010

 

Bisogna iniziare dicendo che Tino Sehgal è prima di tutto un ricercatore, un indagatore del performativo in generale (quindi non solo della performance art), più che un semplice ideatore di performance, o un performer/coreografo. L’analisi di Sehgal ha il punto d’inizio e d’approdo entrambi collocati nel gesto, un gesto sospesto, che non termina e non descrive un divenire, un gesto in sé, a un tempo fonte e contenitore di tutte le sue possibilità.  Questo punto di partenza e d’arrivo è reso possibile, raccoglie la sua stessa carne, da un sistema d’incontri e relazioni, elaborato e orchestrato dall’artista attraverso un processo di lavoro con i performer affascinante quanto il risultato stesso.

 

Nei mesi precedenti la realizzazione di These Associations per le Unilever Series della Tate Modern il museo ha organizzato dei workshop aperti al pubblico, durante i quali performer casuali venivano chiamati a lavorare con Sehgal nello spazio che sarebbe divenuto scenario del suo lavoro. L’artista chiedeva ai partecipanti di raccontare storie, di cantare, di usare la voce per emettere suoni, descriveva ai suoi nuovi, temporanei collaboratori delle coreografie minime, dei giochi, facendoli correre per la grande sala, ancora e ancora. L’artista osservava i movimenti, le reazioni, registrava il confondersi dei suoni, come un pittore di secoli fa stava preparando gli strumenti del suo lavoro partendo dalla base.

 

Il risultato finale di questi workshop, il lavoro che ne deriva, è incredibilmente intenso; da un groviglio di spunti apparentemente inconcludente, Sehgal dipana un discorso che parla dell’uomo, e si sviluppa su vari livelli, partendo dall’istintività del corpo fino ad arrivare all’intimità sentimentale del racconto orale.  Il visitatore della Turbine Hall si trova a camminare in una sala apparentemente svuotata da qualsiasi opera d’arte, vede, dove solitamente si trovano gigantesche installazioni, solo dei piccoli gruppi di persone. Molto presto qualcuno si avvicina a lui, parlandogli, descrivendogli una situazione personale, un episodio banale, un evento minimo. Una signora di mezza età racconta l’invidia provata per una cara amica, così brava nel preparare bagagli leggeri per brevi viaggi, mentre una ragazza molto giovane parla della prima volta in cui si era trovata a usare la metropolitana senza i suoi genitori. Ognuno conserva nella voce un’eccitazione tale da far pensare che questo racconto sia del tutto spontaneo, un regalo fatto a un perfetto sconosciuto. Il visitatore vede i performer correre nella sala, giocando come fanno i bambini, e alla fine, quando il museo sta per chiudere le sue porte, li ascolta cantare, accompagnati dall’accendersi e spegnersi delle luci delle gallerie che sovrastano la sala. Questa l’esperienza di un singolo osservatore, sicuramente dissimile da quella di chiunque altro.

 

Tino Sehgal e i performer di These Associations, Tate Modern 2012

 

Non avendo inizio né fine ogni lavoro di Sehgal sembra bloccato nel mezzo, cristallizzato in uno stato di pura presenza, espresso in un gesto senza scopo, che non può trovare una conclusione in se stesso, e per questo appare costantemente rinnovato.

 

Il progetto realizzato a Venezia, quest’ultima opera che vale a Sehgal il Leone d’Oro, gioca ancora una volta sul tema dell’incontro e del dialogo, evitando però la parola, nonché il coinvolgimento diretto del pubblico. Un piccolo gruppo di persone siede sul pavimento di una delle prime sale della mostra Palazzo Enciclopedico, nella sede dei Giardini; uno dei performer emette dei suoni, vocalizzi, rumori, oppure canta alcune strofe di canzoni, gli altri reagiscono a questo stimolo sonoro muovendo il corpo, piccoli movimenti, poco più che spasmi, o più elaborati, quasi passi di danza. Il numero dei partecipanti a questa strana conversazione cambia costantemente, alcuni performer se ne vanno, altri arrivano. I movimenti e i suoni non sono costanti, il complesso sembra coordinato dal solo istinto dei partecipanti, eppure assistiamo all’azione di una macchina ben oliata dall’intenzione dell’artista. Il piccolo mondo creato da Sehgal ha una sua meccanica, una sua economia particolare, altra da quella dello spazio espositivo che lo circonda, i performer sembrano respirare un’aria diversa da quella che respirano gli osservatori, e sono impermeabili ai loro sguardi. In questo piccolo universo si compie una ricerca artistica particolare, che i visitatori della grande sala espositiva sembrano riconoscere, interessandosi alla scena, ponendosi delle domande, spesso a voce alta.

 

Tino Sehgal, 55. Biennale di Venezia 2013

 

L’opera-evento viene trasformata dalla partecipazione indiretta dello spettatore in esperienza, un’esperienza collettiva che perdurerà soltanto nella memoria individuale, imprecisa e soggettiva, di ogni singolo testimone. Se il performer è il corpo dell’opera nel momento della sua esecuzione, lo spettatore lo diventerà quando le luci della sala si saranno definitivamente spente.
In un gioco d’incontri e rimembranze, in cui l’opera sospesa conquista una costante attualità, resta solo da chiedersi che ruolo giochi l’ideatore: l’artista, Tino Sehgal, definisce e coordina questo percorso d’intenzioni, casualità e sopravvivenze. Suo il primo gesto, che pur non gli appartiene. In quest’apertura totale del lavoro di Sehgal leggo la sua vera originalità d’artista, e nel ricordo che conservo del mio primo incontro con la sua opera riconosco la conferma.

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