Roberto Esposito / Abbiamo bisogno del potere?

23 Luglio 2020

“Non esiste, né è mai esistita, una società che abbia fatto a meno del potere”, dunque non esiste società che non sia attraversata e continuamente trasformata dal conflitto. Così Roberto Esposito nel suo ultimo libro, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, 2020, affronta il nodo vitale che nella crisi contemporanea stringe il pensiero filosofico alla prassi politica, ripensa nel segno di Claude Lefort la messa in scena dell’antagonismo nel “governo della società”, propone una teoria dell'“istituente” contro i paradigmi della “potenza destituente” e del “potere costituente” che, nella loro feconda opposizione, hanno dominato la riflessione filosofico-politica degli ultimi decenni. È istituente il pensiero che mantiene un rapporto con la negazione e decostruendo la sostanzialità del potere ne “rivela il centro vuoto, di volta in volta occupabile solo dalle forze che momentaneamente prevalgono, prima di essere sostituite da altre, altrettanto sostituibili” e che sulla scorta di un linguaggio foucaultiano fa subentrare alla categoria di soggetto quella di soggettivazione, o più precisamente, qui, di un movimento, l’istituire appunto, che è un compito sempre rinnovato e necessariamente collettivo. 

 

Con la sua particolare articolazione in tre parti, questo libro illustra il paradigma istituente sul negativo dei primi due e prende insieme congedo dal loro lessico teologico-politico; ma i nomi dei filosofi che li hanno ideati, Giorgio Agamben e Antonio Negri, compaiono solo di sfuggita, tratteggiano, potremmo dire, il perimetro rispetto al quale l’indagine si situa: i primi capitoli svolgono piuttosto un’analisi del pensiero heideggeriano e deleuziano a cui il destituente e il costituente possono essere fatti rispettivamente risalire, così come il terzo studia Lefort e con lui la linea che stringe intorno al concetto di Stiftung (traducibile, oltre che come “fondazione”, come “istituzione”): Merleau-Ponty e Husserl. Vale inoltre la pena ricordare che a questa forma triadica, all’accostamento eloquente dei tre paradigmi, e dunque alla definizione di un orizzonte dominato dalle opere di Heidegger, Deleuze, Lefort, Esposito è giunto anche sondando la sua proposta teorica in due volumi collettanei, dove sotto l’egida del pensiero istituente sono antologizzati brani di Michel Foucault, Ernesto Laclau, Yan Thomas, Cornelius Castoriadis e Paul Ricœur, i quali dunque non possono non essere considerati nella stessa traccia genealogica (“Almanacco di filosofia politica” I e II, a cura di M. Di Pierro, F. Marchesi, E. Zaru, Quodlibet, 2019 e 2020). 

 

 

Assume così valore di potenza destituente la crisi che attraversa la riflessione heideggeriana a partire dai primi anni Quaranta di fronte alla consapevolezza che la politica degradata nella Machenschaft tecnica “non va più istituita”, che “ogni fare” deve essere “disfatto”. Assume, in altri termini, valore di potenza destituente ciò che già vent’anni fa Esposito aveva definito l’impolitico (categoria a cui sono riconducibili le figure di Simone Weil, Hermann Broch, Elias Canetti e Georges Bataille), e che in questo nuovo contesto mostra una deriva incerta che trattiene, nell’inerzia del lasciar essere, un legame impensato con il politico di cui vorrebbe liberarsi, con l’istituzione che dovrebbe destituire. Viceversa, la nozione di impolitico verrebbe esclusa nell’elaborazione deleuziana del piano di immanenza, dove la soppressione del negativo fa sì che il politico si dilati “fino a riempire l’intero movimento della realtà” ma perda, insieme, la sua qualità peculiare. Anche in questo caso, dunque, mentre l’emancipazione dal negativo sfuma e rende inafferrabili i contorni di un’attività specificamente politica, mentre sotto l’influenza di Bergson si afferma la filosofia dell’intensità o dell’accelerazione che dovrebbe portare il capitalismo all’implosione, “il paradigma costituente tende a congiungersi a quello destituente” nel rifiuto, comune alle due prospettive, dei caratteri (conflitto e sostituibilità) a partire dai quali un pensiero istituente può essere elaborato. In che senso allora fare i conti con il potere che necessariamente domina le nostre vite significa per Esposito fare i conti con l’istituzione? Perché dalla categoria di istituente nascerebbe l’unico paradigma di ontologia politica in grado di accettare la frattura del sociale evitando così di trasformarla in un’impasse distruttiva? 

 

La categoria di istituzione, che ha origine nel primo lessico giuridico e in particolare nel concetto di persona ficta, certo rinvia in prima battuta a quell’idea di autorità superiore affermatasi nella tradizione politica moderna e come tale obiettivo, ad esempio, delle critiche di Bourdieu o di Sartre. Ma è proprio l’“interpretazione conservativa delle istituzioni”, intese come organi di legittimazione dei poteri esistenti e destinati a mantenere gli equilibri sociali, che Esposito intende superare, conferendo invece all’istituire il senso di una forza dinamica, trasformatrice e collettiva. La strada che muove in questa direzione è stata percorsa da Merleau-Ponty, quando ben al di là dell’orizzonte politico, pensava l’operazione espressiva come una “eternità provvisoria”, una richiesta inesauribile da parte delle opere compiute accolta nel segno della fraternità ed esaudita nella progressione di solchi sempre aperti (in cui il mio è indistinguibile dal tuo). Merleau-Ponty aveva così trasformato uno dei luoghi più complessi e problematici della filosofia husserliana, nel quale il “già sempre là” del passato corrisponde a un possesso (un Habitus) che fonda – o istituisce – l’identità “personale, sussistente e permanente”, in un presente tanto illimitatamente fecondo quanto potenzialmente a-soggettivo. Il soggetto istituente di Merleau-Ponty, infatti, non permette di concepire il passato come un possesso né l’altro come il “negativo di me stesso”. Ed è proprio questo superamento della sfera coscienziale, dunque l’abbandono del problema della continuità e stabilità egologica, a fungere da cardine per il passaggio, compiuto da Lefort e ripensato da Esposito, nel politico. La dimensione pre- o a-soggettiva, infatti, permetterebbe di abbandonare i limiti impliciti nella nozione di fondamento e di affidare al movimento dell’istituire una risposta alla questione del potere, il quale appare ora come “una struttura cava, inappropriabile in maniera definitiva, poiché continuamente contesa da interessi e valori contrastanti”. Usando il verbo istituire in “tutta la sua forza”, il Lefort interprete di Machiavelli ha mostrato che la società, istituita dal politico e da esso inseparabile, estranea cioè a ogni tipo di fondamento, si conosce rapportandosi all’esteriorità, prendendo forme di volta in volta diverse sulla base del conflitto, della dualità e degli antagonismi che l’attraversano. 

Ma che cosa significa non appropriarsi del vuoto in maniera definitiva? E quali forze occupano quello spazio in maniera precaria, nel segno della sostituzione?  

 

Il riferimento alla persona giuridica è tutt’altro che secondario, e sembrerebbe anzi custodire una risposta possibile a queste domande. Come Yan Thomas ha mostrato, la persona che calca la scena del diritto romano non ha nulla a che vedere con il corpo vivente: è invece una maschera, il doppio funzionale del soggetto, e, sebbene in maniera ambigua, ha continuato ad essere tale anche nel diritto contemporaneo. Non è dunque un caso che il giurista Maurice Hauriou, che ha avuto un’influenza determinante sulla filosofia politica novecentesca, abbia definito l’istituzione “un’idea di opera o di intrapresa” la cui esistenza è oggettiva e precede i soggetti, dei quali ha tuttavia bisogno per realizzarsi. Questi soggetti non sarebbero però altro che “portatori” di opere. È allora riprendendo Hauriou, e auspicando uno sviluppo di istanze rimaste implicite nel suo pensiero, che Esposito può guardare al discorso sul costrutto funzionale che la persona giuridica è stata fin dalla sua origine come a un luogo “finalmente libero dalla mitologia”, capace di “ricondurre la prassi istituente a un orizzonte materialistico”. Il vuoto che la filosofia agambeniana mostra nella sua inoperosa destituzione è nella filosofia dell’“impersonale” abitato da ruoli e personaggi che, non coincidendo con mitiche individualità, garantirebbero l’inappropriabilità, o la discontinuità, del potere. Questa rischiosa non coincidenza che sottrae la persona al mito della stabilità si rivela insieme al nuovo significato dell’istituire: essenziale diventa qui il momento in cui una persona decade e lascia il posto all’altra. Non bisogna in effetti dimenticare che nello straordinario saggio dedicato al dono nelle società arcaiche, cruciale tanto per Lefort che per Esposito, Marcel Mauss ha spiegato non solo che il potlach è una pratica antagonistica, ma che ogni mascherata festiva può volgere in guerra in qualsiasi istante. 

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