Modi del sentire / Indulgenza

21 Dicembre 2020

In una famosa scena del film Io e Annie di Woody Allen, il comico televisivo newyorkese Alvy Singer è in coda all’ingresso del cinema con Annie Hall, la ragazza interpretata da Diane Keaton con cui ha una relazione. Mentre i due discutono dei loro problemi di coppia, Alvy è disturbato dalle chiacchiere di un uomo in fila dietro di loro. Nel doppiaggio italiano l’uomo dice: “Ho visto l’ultimo di Fellini nei giorni scorsi, non è uno dei suoi migliori. È mancante di strutture coesive, si ha la sensazione che non sia del tutto sicuro di quello che vuole dire. Oddio, io l’ho sempre definito essenzialmente un grande tecnico del cinema. D’accordo, La strada era un buon, grandissimo film…”. Alvy si lamenta: “Io sento che mi sta per venire un colpo”. “Beh, smetti di ascoltarlo”, gli suggerisce Annie. “Smetti di ascoltarlo? Mi strilla le sue opinioni nelle orecchie!”. L’uomo nella fila riprende il suo estenuante monologo: “Mettiamo ad esempio in Giulietta degli spiriti, o nel Satyricon, io lo trovo incredibilmente… indulgente. Veramente, uno degli autori più indulgenti”. “La parola chiave è indulgente”, puntualizza uno scocciatissimo Alvy.

 

L’indulgenza che il saccente personaggio messo in scena da Woody Allen ravvisa nell’opera di Fellini, oltre a indicare una forma aristocratica di disprezzo, testimonia ironicamente soprattutto di una tendenza in voga negli anni Settanta a considerare l’opera del regista riminese eccessivamente egoriferita. L’autocitazionismo, il ricorso insistito all’autobiografia, appariva agli occhi di alcuni critici come un comodo rifugio, una scappatoia che consentiva a Fellini di lambire appena, se non di schivare, le grandi questioni morali. È quello che in una recensione a La dolce vita Pasolini definì “il barocco semplicistico di Fellini”: in sostanza un moralismo strapaesano, abbastanza bonario, e mai capace di affondare la lama nel cuore del problema. L’indulgenza non va qui intesa nel senso di tolleranza. Fellini non è accusato di essere tollerante nei confronti dello spettatore. Semmai di essere troppo dolce. Ma è come se quella parola fosse evocata, come se i due personaggi della scena di Io e Annie facessero presentire la sua imminente, inarrestabile affermazione nel linguaggio dell’uomo moderno.

La scena in questione, rivista a oltre quarant’anni di distanza, sembra cogliere un preciso momento di transizione, l’attimo storico in cui una parola cede il passo a un’altra, intonando il de profundis all’indulgenza e inaugurando ufficialmente l’era della tolleranza. La sottolineatura seccata che fa Alvyn è, in questo senso, il rilascio della ghigliottina.

 

Un individuo indulgente è qualcuno incline a compiacere, a fare cosa grata. Su questo non ci sono molti dubbi. Ma gli etimologisti sono incerti se attribuire una delle due parti di cui il termine si compone – precisamente la seconda, dulgère – a dulcis (“dolce”) o a dhalgh (“dover dare”). La questione apre due potenzialità di senso molto diverse tra loro. L’indulgenza che deriva dalla dolcezza è il risultato di una proprietà intrinseca, è cioè una qualità sincera; quella che deriva dal “dover dare” è l’esito di una conciliazione, opportuna, imposta, in qualche maniera dovuta, ed è perciò insincera.

Potremmo scindere i due sensi lasciando dulcis all’indulgenza e dhalgh alla tolleranza. Tolleranza è davvero una parola-chiave della contemporaneità, al punto che se Io e Annie fosse stato girato oggi, l’aggettivo pronunciato dall’uomo in fila forse non sarebbe stato indulgente, ma proprio tollerante: “Fellini lo trovo incredibilmente… tollerante”.

 

 

Il perché è presto detto: l’indulgenza non fa più parte del sentimento comune. Nell’epoca in cui viviamo, la comprensione che deriva dalla dolcezza non ha spazio, poiché la dolcezza stessa è bandita, è sconsigliata, non ha appeal, e tutto ciò che richiede condiscendenza e comprensione trova nella radice europea dhalgh una più efficace formulazione. Se proprio si deve qualcosa a qualcuno (riconoscere, convenire, comprendere) che sia un dovere, un obbligo imposto dalla morale, più che il frutto di una personale inclinazione. L’indulgenza è stata soppiantata dalla tolleranza.

Nel discorso politico la parola tolleranza è una creatura mostruosa mascherata da fata turchina. Lo spirito di apertura nei confronti degli altri, laddove c’è, esiste per opportunismo e non per naturale inclinazione. La tolleranza è quell’atteggiamento teorico raccomandato per esempio in fatto di religione, etica, cultura, che rispetta gli usi e le convinzioni altrui, anche se profondamente diverse da quelle a cui normalmente si aderisce. La tolleranza è predicata per esempio nei confronti dei migranti da parte di chi ha una posizione di apertura. La maschera che cela il mostro è nel senso profondo che la parola porta con sé, ossia sopportare qualcosa o qualcuno ben sapendo che quel qualcosa o quel qualcuno ha in sé il potenziale di essere spiacevole o nocivo. L’idea della sopportazione quindi è presente, anzi, è il senso intorno al quale si incardina l’apparato concettuale che soggiace alla parola. Come si vede, l’aspetto della dolcezza compreso nel verbo indulgere, ossia essere benigni, cortesi, affabili, acconsentire per inclinazione naturale o per disposizione d’animo, non è avvertito. Anzi, è deliberatamente bandito.

 

Del resto è altrettanto vero che in molti casi la tolleranza è pur sempre meglio dell’intransigenza. Ma che un movimento politico, una comunità o un singolo individuo si facciano vanto della propria tolleranza è come sfidare i pesci ostentando di saper resistere in apnea per più di un minuto. Se qualcuno bussasse alla nostra porta e decidessimo di aprire la nostra casa, lo definiremmo un atto di sopportazione? E quel qualcuno, ringraziandoci, ci direbbe: “Che persone tolleranti che siete”? O sentiremmo piuttosto di essere stati accoglienti?

Il favore di cui gode oggi la parola tolleranza è proporzionale al crepuscolo dell’indulgenza, che – non va dimenticato – è soprattutto un concetto cristiano. L’attuale astoricità del termine è in parte un residuo dell’abuso che se n’è fatto in ambito ecclesiastico nei secoli passati. Non a caso lo scisma luterano prese avvio proprio a partire dalla questione delle indulgenze, ossia da quel meccanismo di remissione dei peccati che veniva innescato a fronte di un pagamento in denaro, pagamento che doveva servire a finanziare la ricostruzione della basilica di San Pietro. L’indulgenza quindi era il salvacondotto per la salvezza (tanto delle anime quanto dei beni immobili della Chiesa). Ma in un mondo come quello attuale che non crede più possibile alcuna salvezza non può esistere un meccanismo che la assicuri.

Ecco perché l’insopportabile individuo in fila dietro ad Alvy e Annie oggi forse definirebbe Fellini “incredibilmente tollerante”, perché se il cinismo muove guerra al complesso delle convenzioni sociali, il meccanismo della battuta richiede che ad essere colpiti siano sempre i cliché del proprio tempo. E l’essere indulgenti non solo non è un cliché del nostro tempo, ma è un atteggiamento sorpassato, demodé, per la maggior parte delle persone è addirittura incomprensibile.

 

Nella stessa scena un esasperato Alvy rompe – come si dice in gergo – la quarta parete. “Ma cosa fa uno quando si trova incastrato in una coda con un tipo del genere alle spalle?”, chiede a noi telespettatori rivolgendosi alla cinepresa. L’indulgenza (che ha appena deriso) per lui non è neppure un’opzione, siamo già nel campo della tolleranza (o del suo contrario). Il battibecco fra i due, com’è noto, finisce con la surreale apparizione di Marshall McLuhan che sbugiarda l’uomo della fila, e con Alvy che gongolando chiosa: “Ragazzi, se la realtà fosse così…”.

 

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