Damon Galgut / Quattro funerali e una promessa

20 Gennaio 2022

Mentre leggo La promessa di Damon Galgut (e/o, 2021, traduzione di Tiziana Lo Porto) mi rivedo a Johannesburg, nel 1994, quando con Oliviero Toscani e Fabrica organizzammo al Market Theatre un festival di sostegno a Nelson Mandela. Erano le prime elezioni democratiche in quel Paese e Mandela, tornato libero cittadino e alla testa dell'ANC (African National Congress) dopo quasi trent'anni di prigione, sfidava Frederick de Klerk per la nuova carica di presidente: il primo presidente nero della storia del Sudafrica, proclamato da elezioni libere aperte a tutta la popolazione, e non solo alla minoranza bianca che dominava il National Party. L'apartheid, il sistema legalizzato di discriminazione razziale, era in vigore dal 1948: ai neri non era consentito partecipare alla vita civile, erano segregati nelle township delle grandi città, separati dal resto della popolazione.

 

Alle soglie del 2000, il paese era ancora preda di questo stato profondo di arretratezza culturale. Votarono diciannove milioni di sudafricani, pazienti, ordinati in file lunghissime ai seggi per dare il loro contributo al futuro del nuovo Sudafrica. Eravamo lì perché Benetton aveva negozi in alcune città e le sue campagne pubblicitarie – che in quegli anni mostravano bianchi e neri sorridenti e abbracciati – sui grandi manifesti che contrastavano il predominio degli annunci destinati ai poveri, quelli delle birre e del tabacco, contribuirono non poco al clima di integrazione di quelle comunità lacerate. La televisione esisteva solo dal 1971, prima con un solo canale in inglese destinato ai bianchi poi, dieci anni dopo, con un secondo canale in lingue africane, Zulu, Xosa, Sotho e Tswana.

 

Scegliemmo, per il nostro programma di musica e spettacoli, il famoso teatro nella piazza centrale di Johannesburg, dove il drammaturgo bianco Athol Fugard metteva in scena i suoi testi contro l'apartheid: il mercato è stato, da sempre, la zona franca che univa bianchi e neri, dove, anche in una città chiusa come Johannesburg, la società diventava fluida e il commercio e lo scambio toglievano senso, tra i banchi di questo luogo simbolico, alle differenze di etnia e di colore.

 

 

È proprio nel 1994, agli albori della democrazia post-apartheid, che il romanzo di Damon Galgut, prende il volo, ma l'ultima dei figli della famiglia Swart è una bambina nel '94 ("Guardami, sono qui, Amor Swart, 1986, possa domani non venire mai"), è dunque negli anni '80, quelli del più feroce razzismo, che la storia generazionale raccontata in questo romanzo prende forma. Quando si conclude, nel 2019, le cose sembrano essersi ulteriormente complicate. La maggior parte dei sudafricani bianchi, come Galgut, discende da coloni olandesi e parla afrikaans. Durante l'apartheid, con la separazione razziale legalmente imposta, molti di loro erano convinti di essere una razza superiore. Hanno sempre avuto la migliore istruzione e i migliori posti di lavoro e si sono sempre considerati un'élite.

 

La promessa è il racconto della difficoltà di questa élite a lasciare i propri privilegi e ad adattarsi a una nuova forma di esistenza. Nello stesso tempo è anche la dimostrazione di come sia stato molto difficile, per i neri, abituarsi a non essere più subalterni a nessuno, a prendere in mano la propria vita. Quattro capitoli scandiscono il racconto, altrettanti ritratti della madre (Ma), del padre (Pa), di una sorella (Astrid) e di un fratello (Anton), mentre la terza sorella più giovane, Amor, avrà il compito di mantenere "la promessa" del titolo. L'allusione è alle promesse che invece non sono state mantenute perché oggi, a ventisette anni dalle prime elezioni democratiche, i bianchi continuano a esercitare un potere significativo, a dominare l'economia, l'istruzione superiore e gran parte dei media, mentre il razzismo non è stato affatto sconfitto e persiste, nei residential compound lussuosi e protetti per esempio, dove le famiglie bianche ricche preferiscono abitare, e dove l'aiuto domestico è ancora una forma di moderna schiavitù. Molti bianchi che hanno vissuto l'apartheid minimizzano la sofferenza e il razzismo del passato.

 

Qualcuno si è addirittura spinto ad affermare che la "sofferenza" dei bianchi post-apartheid potrebbe essere peggiore delle esperienze vissute dai neri durante l'apartheid. In sottofondo ma centrale nel racconto è la figura di Salome, la serva, silenziosa custode prima dell'infanzia dei bambini poi spettatrice delle loro vite complicate, nella fattoria vicino a Pretoria dove vivono con la madre Rachel e il padre Manie. In punto di morte Rachel, che era tornata all'ebraismo della sua famiglia d'origine, costringe il marito a promettere di donare a Salome la casa dove la domestica vive con un figlio, che gli Swart (significa "di carnagione scura", in Afrikans, il contrappasso scelto da Galgut, nel decidere che nome dare a quella famiglia di bianchi, per esorcizzare con ironia il suo senso di colpa) avevano fatto studiare. 

Amor sente le parole della madre e vede annuire il padre ma, con il corpo di Rachel ancora caldo, Manie nega di aver promesso alcunché mentre i parenti sottolineano che, mai nella storia, a un nero è stato intestato niente.

 

Quattro funerali scandiscono il passare del tempo, a circa un decennio l'uno dall'altro, mentre i quattro presidenti che si susseguono alla guida del Sudafrica non cambiano sostanzialmente le sorti di quel paese. Un serpente morderà il capofamiglia, per ricordare l'intreccio tra uomo e natura ancora altamente simbolico in quella terra. Nel Sudafrica di oggi riprendono forza i movimenti suprematisti bianchi, in un radicalismo provocato dalla rabbia dei neri, rappresentata da Galgut nella figura di Lukas, il figlio di Salome. In una scena cruciale Lukas si rivolge a Amor, che gli aveva detto "Non è molto, lo so. Tre stanze e un tetto rotto. Su un pezzo di terra duro. Sì, ma per la prima volta apparterrà a tua madre. Il suo nome sarà sull'atto di proprietà. Non su quello della mia famiglia. Questo varrà pur qualcosa". Lui risponde: "Invece non vale niente. È una cosa che non ti serve più, che non ti dispiace di buttare via. I tuoi avanzi. Ecco cosa stai dando a mia madre, con trent'anni di ritardo. Non vale niente". Ma La promessa è un romanzo sulla speranza: "Sì, ecco che arriva, la pioggia, come un simbolo redentore da quattro soldi in una storia, che cade da un cielo turbolento nello stesso modo su ricchi e poveri, felici e infelici.

 

Cade sulle baracche di latta con la stessa imparzialità con cui cade sull'opulenza". Temi complessi vengono affrontati da Galgut: morte, decadenza, abbandono, dissolvenza dei legami familiari sempre, tuttavia, con un sottile umorismo di fondo che, alla fine, trasforma questo libro di morti in una storia viva e ricca di umanità, dove lo sguardo del lettore  passa da una prospettiva all'altra, come se il racconto fosse già un film, con la macchina da presa che scorre da un piano sequenza a un primo piano e il montaggio avvicina o allontana i protagonisti, mentre si ferma su un dettaglio rivelatore e usa il flash back per chiarire un punto della storia, saltando magari a raccontare una vicenda parallela, che sembra non aver nulla a che fare con la trama. Questo modo innovativo di fare letteratura gli ha fatto vincere il Booker Prize 2021 e lo ha consacrato lo scrittore più importante del nuovo Sudafrica, accanto a quelli che come lui hanno raccontato nel corso del tempo le dinamiche della comunità bianca alle prese con razzismo e sensi di colpa, progressismo e reazionario senso di impotenza, primi fra tutti Nadine Gordimer, Andre Brink, J.M. Coetzee.

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