Come bisogna vivere / Charlotte Perriand e il fotomontaggio

19 Settembre 2021

Il supermercato Monoprix si trova appena fuori dal centro di Arles, in una periferia uguale a molte altre. Passando fra scaffali di detersivi e di quaderni (saremo nel posto giusto?), si sale al primo piano. Qui, in un enorme spazio vuoto illuminato da neon industriali, è allestita la mostra dedicata ai fotomontaggi monumentali progettati dall’architetta e designer francese Charlotte Perriand (1903-99). 

Fra i visitatori dei Rencontres de la Photographie di Arles non siamo in molti a spingerci fin qui: confortati dalla prossimità delle mostre nelle vie del centro storico, o ipnotizzati dal neonato edificio della Fondation Luma progettato da Frank Gehry, i più si arrendono alla fatica e al caldo. Ma è un peccato: la mostra mette in luce una pagina breve ma folgorante della produzione di Perriand e, in filigrana della riflessione sull’uso politico della fotografia alla vigilia della seconda guerra mondiale. È una mostra bellissima, sia per i materiali esposti che per l’allestimento, sia per la domanda da cui muove che per lo stile con cui cerca le risposte; splendido è anche il catalogo, con contributi brevi e accessibili, ma sempre profondi.

I tre fotomontaggi monumentali che costituiscono l’oggetto della mostra sono quello per la III Exposition de l’habitation al Salon des arts ménagers di Parigi (1936), per la sala d’attesa del Ministero dell’agricoltura di rue de Varenne (1936) e per il Pavillon de l’agriculture all’Exposition internationale des arts et des techniques de la vie moderne (1937).

 

 

Al momento di questi incarichi, Perriand ha al suo attivo, oltre alla formazione nell’atelier del pittore André Lhote, alla collaborazione con Le Corbusier e alla passione per la fotografia, una militanza politica che la distanzia dall’origine familiare borghese e dai primi incarichi nel mondo del lusso. Mai tradotta nell’iscrizione a un partito, questa militanza è sostanziata dalla formazione marxista presso l’Université ouvrière, dai viaggi in Russia degli anni ’30 e dalla partecipazione a gruppi di intellettuali progressisti, come l’AEAR-Association des écrivains et artistes revolutionnaires (vi incontra i fotografi André Kollar e Nora Dumas, ai cui scatti attingerà nella composizione dei fotomontaggi murali), l’UAM-Union des artistes modernes, di cui è cofondatrice, e i CIAM-Congrès internationaux d’architecture moderne.

Nella cultura politica di Charlotte Perriand è innestata, intimamente, quella visiva dei pronunciamenti di artisti sovietici quali Aleksandr Rodčenko ed El Lissitszky, di muralisti messicani quali Gabriel Orozco e Diego Rivera, di Fernand Léger, che sarà partner nel progetto per l’Exposition internationale del ’37; ma sono presenti anche le derive più graffianti e scomode del dada tedesco (Hannah Höch, John Heartfield), del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Herbert Bayer), del movimento moderno italiano (Luciano Baldessari, Marcello Nizzoli, Giuseppe Terragni e altri).

 

Arte come manifesto da incorporare nei muri perché parli alla città, politica come messaggio per l’azione, educazione popolare come strumento per la trasformazione: l’immediatezza propria della fotografia si sposa, nella produzione di Perriand, con la grande dimensione. A differenza dei tabloid e della stampa agit-prop che ne costituisce il modello, infatti, i suoi fotomontaggi parietali non richiedono un avvicinamento fisico, una lettura di dettaglio: anzi, respingono il corpo a una distanza che sconsiglia la contemplazione individuale per suggerire la partecipazione a uno sguardo collettivo. La stanza, o l’ambiente espositivo, diventa una porzione di città dai muri parlanti, palpitanti. Immagini, spezzoni di frasi, grafici, mappe: i segni verbo-visivi si mescolano e si potenziano a vicenda. Laddove resta una campitura vuota, il colore è protagonista. Da questa grammatica nascono palinsesti assertivi, provocatori, gioiosi: Avant de la vie, la frase della canzone divenuta motto del Front populaire, campeggia sul fotomontaggio del ’36.

 

 

Gli archivi Perriand restituiscono solo in parte la dinamica della cucina progettuale: ci sono faldoni di ritagli (sia di sue fotografie che di scatti di agenzie quali Alliance Photo, Le Jour, Wide World, General Picture e altre), lastre fotografiche, e poco di più. Gli scatti che confluiscono nei fotomontaggi sono spesso scelti da quotidiani quali Paris-Soir o da periodici come Vu o Voilà. Il lavoro di curatela, in capo a Damarice Amao in collaborazione con Sébastien Gokalp e gli archivi Charlotte Perriand, è dunque soprattutto ricostruttivo. La componente “investigativa” – che attiene alla ricostruzione delle fonti e dei modi di selezione degli scatti – viene sciolta in una dimensione aperta e interrogativa, disponibile a futuri affondi. I documenti d’archivio, portati in mostra, vengono interpolati con informazioni di contesto, riviste, manifesti, scatti dei fotogiornalisti coinvolti dalla progettista e ricostruzioni 1:1 di alcuni fotomontaggi (bello vedere i bambini aggirarsi con curiosità negli spazi della mostra: sempre un buon indicatore). 

 

Si tratta di progetti a molte mani, in cui l’autorialità si scioglie nella dimensione del collettivo: Perriand garantisce la progettazione d’insieme e la calibrazione dei contenuti, con un ruolo da art-director, mentre altri si occupano di volta in volta della ricerca d’archivio e della composizione grafica. 

Nel primo progetto, quello per l’Exposition de l’habitation, commissionato dalla rivista L’Architecture d’Aujourh’hui, Perriand collabora con Jean Bossu, Émile Enci, Jacques Woong e Georges Pollack. La richiesta iniziale era quella di lavorare sul tema delle case di abitazione a prezzi calmierati, e in particolare sulle cellule “minime” di 3x4 m: ma all’architetta non interessa progettare moduli-tipo. Decide dunque di impaginare una partitura interdisciplinare, che leghi urbanistica, economia e storia, alludendo alle tappe dello sviluppo della città di Parigi dal nucleo originario dell’Île de la Cité ai boulevards di Haussmann, e oltre. 

 

Nasce dunque, grazie all’impaginazione di André Hernant, La grand misère de Paris, un tracciato complesso entro cui i temi si intrecciano in modo evocativo. Se si può constatare un’organizzazione dei materiali che ne favorisce la leggibilità (da sinistra a destra e dall’alto in basso, su due registri appena accennati), la dimensione attribuita a ogni “quadro”, il gioco degli ingrandimenti, il continuo spostamento del punto di vista fotografico negano la linearità della lettura: se fosse musica, sarebbe un tappeto sonoro continuo e indistinto punteggiato da accenti secchi. “Fui tacciata di comunismo. Nessuna medaglia, né d’oro né d’argento!”, ricorda la progettista nella sua autobiografia Une vie de création (1998). “Ma ero in uno stato di diritto e conservavo la mia libertà di pensare e di esprimermi”.

Libertà che si esprime di lì a poco nella sala d’attesa del Ministero dell’agricoltura, edificio del XVIII secolo in cui si decide con gesto iconoclasta di sostituire le tappezzerie di broccato con enormi fotomontaggi.

 

 

L’invito viene dal ministro, Georges Monnet, affiancato dal suo consigliere Philippe Diolé, caporedattore della rivista Beaux-Arts. La necessità immediata è quella di comunicare l’impegno del Front Populaire in termini di politiche agricole, e in particolare la legge sull’Office du blé votata nel mese di agosto del ’36, che regola il prezzo e il commercio del grano. Perriand impagina un fraseggio dialettico molto chiaro: su una parete le dure condizioni di vita dei contadini, su quella prospiciente un futuro radioso (costruzione di strade, elettrificazione, distribuzione dell’acqua…), a collegarle i benefici attesi dalla legge (giusto salario e welfare). Perriand risolve la necessità della compresenza di immagini monumentali e memorabili con elementi documentari e statistici più asciutti riservando a quest’ultimi la fascia inferiore, ad altezza d’occhio.

 

La collaborazione con il Ministero continua in occasione dell’Exposition Internationale del ’37. Il padiglione dedicato all’agricoltura si trova presso il Bois de Boulogne, a Porte Maillot. Qui il “diorama” di Perriand e Léger, posto all’ingresso, si può sviluppare con respiro largo: con i suoi 40 metri di diametro, si articola in 18 fotomontaggi che ribadiscono gli obiettivi di sviluppo economico e tutela sociale del Front populaire. Le panchine al centro mimano la modalità di visione degli antichi panorami dipinti: la vista a 360 gradi immerge in un palinsesto segnico continuo, senza inizio né fine, come un moderno carrousel. Anche qui, senza radicali trasformazioni lessicali rispetto al passato, Perriand lavora sull’inserimento di brevi frasi-slogan entro la partitura visiva, in parte nata da fotografie commissionate ad hoc.

I fotomontaggi di Perriand non hanno, forse, la raffinatezza e la sottile calibrazione di quelli di un Bayer o Moholy-Nagy; hanno tuttavia, strabordante, il senso dell’urgenza, la volontà comunicativa, la fiducia nella condivisibilità del messaggio. Quello che soprattutto li caratterizza è il sentimento spaziale e tridimensionale: si differenziano da altri esperimenti contemporanei, come i grandi murales di Léger, perché riflettono sullo spazio nella sua dimensione architettonica, e non solo sulla parete-foglio. Sono il libro, non la pagina. 

 

 

È propaganda allo stato puro: assertiva e solare, a gola spiegata. Ma di lì a poco inizia la guerra: per due anni in Giappone, poi per quattro in Indocina, Perriand si nutre di altre forme, di altri sguardi. Tornata in Francia nel 1946, sempre più critica verso l’ideologia comunista, continuerà a interloquire fino alla fine con il mezzo fotografico tanto nelle sue pubblicazioni quanto negli allestimenti e nelle architetture. Resta sempre viva la domanda del ’37, evocata nell’autobiografia pubblicata un anno prima della morte: “C’è fra questi uomini e la terra che arricchiscono del loro savoir-faire un rapporto amoroso, palpabile nella bellezza delle colture, dell’aratura, un’arte che, si può dire, andrebbe considerata al pari dell’economia, un’arte necessaria come quella di un pittore, di un musicista o di un poeta. Il problema resta: come vogliamo vivere?”.

 

Charlotte Perriand. Politique du photomontage, Rencontres de la Photographie, Arles, 14 luglio-26 settembre 2021.

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