Emma Dante / Le sorelle Macaluso: una ballata di ombre

17 Settembre 2020

Una ragazza scava un buco nel muro. La luce del sole irrompe sui suoi occhi nella stanza buia. Una marina con due navi a vela disegnata su una credenza apre l’orizzonte del soggiorno piccolo borghese, fatto di poveri mobili impiallacciati anni 50. Le sorelle Macaluso, il film presentato da Emma Dante alla 77esima Mostra del cinema di Venezia, vive nell’ambiente angusto di una casa di periferia illuminata con colori opachi, con improvvise aperture, come un sogno che da campi di erbacce intorno a un canale si aprono tra dinosauri di cartapesta verso il mare d’estate.

 

I contrasti sono da sempre la cifra delle creazioni della regista palermitana. Sono impulsi e scontri di corpi in viluppi emozionali, in scenografie spesso immobilizzate, astratte, senza definizioni ambientali nei palcoscenici nudi delle sue opere teatrali, vivificate dalle azioni dirompenti, contrastanti, passionali di attori e attrici che danno tutti sé stessi per rivelare le misteriose imprevedibili tessiture sentimentali nascoste sotto le apparenze. Qui, nel suo secondo film dopo Via Castellana Bandiera (2013), i modi della composizione si fanno differenti: se nella prima parte, fatta di scoppi di danza, di vitalità, in cerca del sole, delle promesse della gioventù, dell’esplorazione di esperienze affettive, i corpi sono ancora esplosivi, quando le sorelle maturano e arriviamo a scrutare nella loro età adulta e poi nella loro vecchiaia, sino alla scolorire nella morte, l’immagine si fa dominante, scavata, contorta, sovrabbondante o rastremata, barocca, tra l’espressionismo tedesco e certe figurazioni di macerati santi seicenteschi, tra la carne dirompente, il trionfo della malattia, la corruzione della vecchiaia e della morte.

 

 

La storia è apparentemente semplice, asciugata rispetto allo spettacolo teatrale che ha lo stesso nome, richiamato solo nel nucleo centrale della vicenda. Il film racconta di cinque sorelle, colte in tre momenti della loro vita, con i morti che tornano a popolare la casa e le loro visioni come presenze, come ossessioni, in una vita che non riesce a fare fino in fondo i conti con il passato e con i desideri troppo presto travolti, accantonati. Si parte che sono ragazze, giovanissime, pronte a una gita al mare. Si preparano, si truccano, curano i tanti colombi che tengono nell’ariosa soffitta e che danno loro da vivere, affittandoli per matrimoni. Questi animali, insieme a pupazzi che stanno in quella colombaia, come un Pinocchio disossato, abbandonato tristemente su una sedia, intesseranno il contrappunto di tutto il film. Saranno aperture di luce nelle atmosfere scure della casa, voli a stormo in cielo per marcare i salti temporali. Quella soffitta a poco a poco si svuoterà di animali, di becchi e occhi, di banchetti di graniglie offerte nel piatto buono ai volatili, seguendo l’intristirsi, lo scivolare verso la vecchiaia delle sorelle.

 

La gita al mare è felicità, danza che trascina tutta la spiaggia abusiva, sotto lo stabilimento termale liberty di Mondello (siamo a Palermo, naturalmente). Schizzi d’acqua, come in spettacoli di Pina Bausch, come in quel lavoro meraviglioso che rivelò Emma Dante, mPalermu, ossia: nel cuore, nel ventre di Palermo. E poi succede qualcosa che non viene subito rivelato, che risulta sospeso, una scena non conclusa, come una frattura che porterà la piccola delle sorelle, Antonella, a riapparire sempre bambina mentre le altre crescono. Maria, la più grande, si allontana e cerca, in modo lento, pudico, il bacio di un’amica giovane come lei in un’arena scrostata, nel sole…

 

 

Ritroveremo le sorelle adulte, incanaglite. Katia, la più robusta, sposata, col marito che preme per far vendere la vecchia casa dove sono rimaste le sorelle. Lia impazzita, per una colpa che riguarda la sparizione della piccola Antonella, feroce contro le sorelle, contro la bella vezzosa Pinuccia. Maria con un cancro, stremata. La casa, già scrostata, diventa luogo di scontro, di battaglia, inferno familiare come altri, sempre, nell’opera teatrale della regista.

Scompaiono le storie accessorie della pièce teatrale: il padre, il figlio morto di una di loro sempre col pallone in mano e la maglia di Maradona, tutte vicende di sogni infranti. Il film si concentra sull’essenza, diventa un precipitato, una furiosa metafora della vita. Rimane la cifra più caratteristica di questa artista profonda, capace di accendere fantasie ed emozioni: il melodramma. Non si legga il termine in senso dispregiativo, quanto piuttosto come ricerca di verità attraverso gli estremi, gli opposti rivelatori, con qualcosa che vira verso una rauca cantabilità musicale. Qui la musica è quella delle esistenze denudate, scavate nella loro realtà, nei sogni dismessi, appannati, nel bisogno di colombi bianchi che volano inconsapevoli verso il sole, nelle bare che vengono scaricate dal piano alto del condominio con una scala meccanica da trasloco, innalzate verso il cielo e il mare per essere sprofondate verso la terra e il buio con i corpi spigolosi che contengono.

 

Questo film narra il desiderio e il suo naufragare. Scava l’interiorità per inquadrature e piani cinematografici con un montaggio che evoca idee, associazioni, salti della memoria, compresenze temporali continue, in un rito di evocazione e esorcismo di morti, delle parti morte di sé. 

La casa delle sorelle, ha detto Emma Dante in varie interviste, è la sesta sorella. Una casa che si degrada come i rapporti, che si riempie di oggetti buttati a caso quando le vite non tengono più saldi i loro fili, che si svuota nel finale fino a ridursi, come le sorelle, a una sonata di spettri, a stanzoni vuoti con zone scolorite sui muri, ombre di oggetti che l’avevano popolata, come proiezioni di vite passate tra il furore e la quotidianità, comunque svaniti.

È un film amaro, triste, che solo nel finale rivela il rovello che ha attraversato gli anni delle protagoniste, una tragedia precipitata loro addosso improvvisa proprio in quella giornata di sole, di felicità di inconsapevolezza di luce marina. I morti non si riescono mai a staccare dai vivi. Come pure i desideri: il corpo rastremato di Maria apparirà un’ultima volta con il tutù che ha sempre sognato di indossare per lanciarsi oltre la gravità in un ballo che si è sempre negata. Ma quel buco nel muro, quel sole che irrompe ritorna a scavare un bisogno insopprimibile di luce e di vastità.

 

 

La sceneggiatura Emma Dante l’ha concepita con due scrittori raffinati come Giorgio Vasta e Elena Stancanelli. Le sorelle, nei tre periodi della vita, sono affidate a uno stuolo di attrici tutte da nominare: Alissa Maria Orlando, Laura Giordani, Rosalba Bologna, Susanna Piraino, Serena Barone, Maria Rosaria Alati, Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Ileana Rigano, Eleonora De Luca, Simona Malato, Viola Pusateri. Con una nota particolare per Donatella Finocchiaro, nel ruolo della bella, invidiata Pinuccia; per Laura Giordani e Serena Barone, rispettivamente la materiale e maternale Katia e la scontrosa Lia, devastata da umori, odi, rimorsi; per Maria De Luca, la luminosa Maria giovane che scopre amore e vita; e per Simona Malato, la dolorante Maria adulta.

 

La fotografia di Gherado Gossi e le scelte scenografiche di Emita Frigato contribuiscono a creare un ambiente-habitat che fa del film uno spaccato antropologico, che all’improvviso prende grazie al tocco di Emma Dante il volo di commovente squarcio di vite.

Il testo della versione teatrale di Le sorelle Macaluso, premio Ubu come miglior spettacolo nel 2014, si può ora leggere nel volume a cura di Anna Barsotti Bestiario teatrale (Rizzoli), una raccolta di pièce della regista che arrivano dalla Trilogia della famiglia siciliana, aperto da mPalermu (2001) ad appunto Le sorelle Macaluso. Ripetiamo: si tratta di altra cosa rispetto al film, che di quella pièce conserva solo lo scheletro, lo spunto, caro alla regista, del rovistare in glorie, sogni, miserie, violenze, affetti di una famiglia. Questa volta concentrandosi sul rapporto tra sorelle, immaginando all’inizio una possibilità di evasione dal chiuso opprimente della casa che si rivelerà impossibile, destinato alla sconfitta nello sviluppo della storia. Si torna all’immobilizzazione in un luogo reclusorio, come nei testi teatrali, dove a volte sembra di essere nella scena del banchetto dell’Angelo sterminatore di Buñuel: un ambiente insieme nido e trappola da cui non si può evadere. Il film sonda la possibilità della luce e i suoi resti, i suoi negativi, le ombre delle cose rimaste impresse su muri stinti. 

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