Teoria del tutto / Natura, il nuovo film di Artavazd Pelešjan

13 Giugno 2019

Una nascita senza genitori. Immaginate un mostro che divora chi gli ha dato la vita. O ancora un processo in cui, gli uni, morendo, non sanno a chi danno la vita, gli altri, nascendo, ignorano a chi l’hanno tolta”. 

 

A scriverlo è il cineasta armeno Artavadz Pelešjan (Leninakan, oggi Gyumri, 1938), oggetto di culto di generazioni di cinefili in tutto il mondo, inventore di quello che ha definito “montaggio a distanza”, contrapponendo al montaggio lineare e simbolico di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e al cine-occhio di Dziga Vertov, suoi genitori/maestri, la fluida, torrenziale circolarità di un tempo-spazio cinematografico che, come la realtà, sfugge a ogni evidenza cronologica e contesta il principio della sequenzialità.

 

Fino ad oggi, oltre ai primi lavori realizzati negli anni di studio presso il VGIK (Vserossijskij Gosudarstvenn’ìj Institut Kinematografii) di Mosca, Pelešjan aveva congedato poco meno di tre ore di cinema (Il principio, 1967; Noi, 1969; Gli abitanti, 1970; Le stagioni, 1972; Il nostro secolo, 1982-1990; Vita, 1993; Fine, 1994) e un libro, Moë Kino, pubblicato in Armenia nel 1988. Con che sorpresa dunque, il 29 maggio scorso, a conclusione di una retrospettiva della sua opera e alla presenza dell’autore, il pubblico estatico della cineteca di Lisbona si è visto proporre, fuori programma e in prima mondiale, il suo nuovo film, Natura: durata sessanta minuti, un terzo della sua intera opera filmica, ventisei anni di lavorazione e un promettente, quasi imperioso, “continua” finale, destinato all’homo sapiens a venire.

 

Preceduto dalla pubblicazione in russo e in inglese di un volume intitolato My Universe and Unified Field Theory, a differenza di tutti i suoi lavori precedenti, girati in 35 mm. e (ad eccezione di Vita) rigorosamente in bianco e nero, Natura è a colori e in digitale, un formato nuovo, forse ostico, per Pelešian, abituato alla ‘sensualità’ della pellicola, la propria e quella dei materiali d’archivio, alla sua resistente e al contempo duttile materialità, alla sua manipolabilità. 

 

 

Primo scoglio: come si parla del lavoro di un cineasta che ha messo a tema l’impossibilità di descrivere a parole il proprio cinema, di usare il linguaggio verbale per darne conto? Come si fa a raccontare un’opera filmica in cui non ci sono dialoghi, non c’è trama, non ci sono un inizio e una fine, non ci sono personaggi, e che tuttavia parla di noi, di noi nel mondo, sulla Terra, nel cosmo, dunque della nostra comune storia passata e futura, di noi nel Tempo mai solo individuale della vita? Come illustrare il titanico tentativo pelešiano di creare attraverso il linguaggio filmico l’equivalente di una “teoria del tutto” o “teoria del campo unificato”, in grado di spiegare interamente e di riunire in un unico quadro tutti i fenomeni fisici conosciuti, collocando in quell’ordine anche gli esseri umani e la loro durevole impermanenza?

 

Tentiamo una descrizione: sessanta minuti di immagini di repertorio o girate dallo stesso Pelešian, “truccate” – per citare le parole dell’autore – “dalla prima all’ultima”, non solo perché accostate tra loro secondo un montaggio dichiaratamente emotivo, ma perché ripetute più e più volte, talora in modo quasi impercettibile, rallentate, accelerate, capovolte, negativizzate, rifilmate ingrandendole e re-inquadrandole. E le immagini non sono mai sole o solo se stesse. Formano una sorta di unicum con il suono o la musica che in esse sembra addensarsi, traducendosi in un terzo segno che non è la somma di questi due componenti, ma un significante nuovo già carico di un duplice potenziale significato: quello attribuitogli dal regista e quello che gli riconosceranno spettatori e spettatrici, coinvolti in un lavoro di lettura del “testo filmico” giocato sulla memoria. E la memoria, per Pelešian, non è mai solo il ricordo cosciente di un’esperienza vissuta, bensì l’insieme di frammenti di vita, nostri e altrui, privati e collettivi, reali e immaginari, che si depositano in noi nel corso del tempo e ai quali cerchiamo di dare un ordine, un senso riconoscibile.

Ecco perché Natura, che a un primo sguardo si presenta come una raffigurazione dei “tempi della fine” in cui saremmo entrati, come una presa d’atto della potenza distruttrice della Natura, della sua lenta rivolta nei confronti dell’umana arroganza, va guardato e ascoltato attentamente per non rinchiudere nel binomio caos-politica il magnifico tentativo pelešiano di non ridurre la Vita a vita umana e Gaia all’in/disciplina impostale dalla risacca dell’antropocene. 

 

 

“L’opzione drammaturgica e di messa in scena cosciente” teorizzata e perseguita da Pelešian fin dai suoi primi lavori, apprezzabile tenendo conto non solo del “chi-soggetto”, “che-oggetto”, “chi-oggetto”, ma anche del”come”, raggiunge in Natura una misteriosa, rarefatta intensità. Il “cardiogramma” da lui realizzato facendo convivere e confliggere la realtà delle immagini (che della Realtà non sono che la pelle) accosta e separa, scompone e increspa, ripete e moltiplica in una struttura circolare e tuttavia mai chiusa i fotogrammi digitali del morenico e istantaneo mutare della natura: eruzioni vulcaniche, terremoti, tsunami, trombe d’aria. 

 

Gli esseri umani e i loro manufatti, gli animali, le piante fanno parte di questi paesaggi in trasformazione, ne sono semplicemente l’elemento più fragile e effimero. Siamo noi a percepire come improvviso e terminale l’impatto dei fenomeni naturali di grande scala. Sotto la crosta della terra o nell’alto del cielo l’energia vitale degli elementi, l’allegra potenza di Gea, prepara nel corso del tempo mutazioni che solo la cecità umana può considerare imprevedibili, perché non le ha previste. 

 

Nella scelta delle immagini selezionate, nella loro manipolazione e disposizione, nella tessitura suono-musica-immagine che induce lo spettatore a guardare con le orecchie e ad ascoltare con gli occhi, Pelešian ha ancora una volta puntato sulla risonanza immaginativa, sulla capacità del testo filmico di suggerire una generalizzazione, di farci letteralmente vedere e ricordare immagini fisicamente assenti, di farci sentire parte di una storia ‘non nostra’, che invece è di tutti e ci riguarda da vicino.

 

Forse per capire un’opera filmica che solo oggi, a ottantuno anni, il regista riconosce “compiuta”, bisogna rivolgersi a Adorno e a quanto scrive sullo “stile tardo” di Beethoven, “un processo, ma non inteso come sviluppo, bensì come accensione tra estremi che non sopportano più nessun centro sicuro”. Neppure nelle pagine di Natura “è concepibile alcuna sintesi”. Anche qui si tratta in effetti delle “reliquie di una sintesi, della traccia di un singolo soggetto umano fortemente cosciente dell’interezza, e perciò della sopravvivenza, che gli è sfuggita per sempre”. Anche qui c’è un’“eccedenza di materia.” 

 

“È la soggettività”, scrive Adorno, “che nell’attimo unisce forzatamente gli estremi, che carica con le sue tensioni la polifonia messa alle strette, la spezza nell’unisono e si dilegua, lasciando dietro di sé il suono messo a nudo; che impiega la formula retorica come monumento di quanto è stato, in cui entra la stessa soggettività pietrificata. Le cesure, però, l’interruzione improvvisa, che più di ogni altra cosa caratterizzano l’ultimo Beethoven, sono quei momenti dell’esplosione; l’opera tace quando viene abbandonata, e rivolge all’esterno il suo vuoto”.

 

Per esprimere le idee che “lo emozionano”, Pelešian usa il montaggio negandolo, inserendo tra i due elementi contigui “un terzo, un quinto, un decimo elemento”, perché “non è la giustapposizione tra elementi, ma la loro interazione” a consentire di esprimere al meglio quell’idea emozionata che è – come diceva lo scrittore palestinese Mahmud Darwish – la poesia. Forse l’arte che, nella sua temporalità, più si avvicina all’opera colossale del regista armeno.

 

 (Lisbona, 6 giugno 2019

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