Una conversazione / Essere in due. Ginger e Fred di Deflorian e Tagliarini

11 Ottobre 2021

Attrice e autrice l’una, danzatore e coreografo l’altro, nel 2008 Daria Deflorian e Antonio Tagliarini hanno dato vita a una compagnia che ha immediatamente conquistato la ribalta italiana e francese con spettacoli pluripremiati e allestiti sui principali palcoscenici internazionali, dall’Argentina di Roma all’Odeon di Parigi. Il loro teatro affresca il presente con drammaturgie originali che evocano gli sfondi più complessi dell’esistenza attraverso i primi piani di figure letterarie e cinematografiche. Archiviato il dittico dedicato a Deserto Rosso di Antonioni nel 2018, la coppia teatrale continua adesso il suo viaggio nel cinema italiano guardando a Ginger e Fred, opera cult di Federico Fellini, che racconta la vicenda di Pippo e Amelia, due artisti conosciuti per la loro imitazione della famosa coppia Ginger Rogers e Fred Astaire ma che non hanno mai sfiorato il successo, e che tornano dopo molti anni a esibirsi in pubblico in uno show televisivo natalizio anni ottanta traboccante di volgarità. Dopo il debutto assoluto in Svizzera, lo spettacolo, intitolato Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, arriva al Teatro Argentina di Roma dal 12 al 24 ottobre, nell’ambito del Festival RomaEuropa che ospita la prima nazionale in co-realizzazione con il Teatro di Roma. Noi li abbiamo incontrati al Théâtre populaire romand di La Chaux de Fonds, durante gli ultimi giorni di prova prima del debutto.

 

 

Dopo Antonioni vi rivolgete a Fellini. I vostri primi lavori guardavano più alla letteratura e al reportage, adesso perché tanto cinema?

 

Daria Deflorian: Perché credo sia un perfettibile luogo di incontro tra la mia sensibilità e quella di Antonio. Nella forma filmica ci sono meccanismi dai quali entrambi riusciamo a trarre ispirazione. Peraltro, ci siamo ritrovati a convergere su due registi che facevano film mentre noi eravamo bambini. In qualche modo le loro opere riguardano la dimensione del mondo dove noi siamo apparsi. Ma non solo: l’Italia raccontata in Ginger e Fred, che è del 1986, è un’Italia nella quale noi c’eravamo, nella quale stava prendendo forma la nostra identità di adulti, nella quale si stava formando la nostra impressione del mondo. 

 

Antonio Tagliarini: In Sovrimpressioni, spettacolo ‘da camera’ col quale abbiamo inaugurato il nostro progetto felliniano, a un certo punto dico “ho passato gli anni Ottanta sotto a un tavolo. Il periodo della mia vita in cui avrei potuto fare qualsiasi cosa! Non facevo niente di veramente pazzo. Non andavo a ballare, non ballavo!”. Si vede il mondo da qualunque posizione: io quello che racconta Fellini l’ho visto da lì. 

 

D’altronde qualcuno ha detto che si comincia a essere artisti quando durante una festa si sta sotto al tavolo a spiare quel che fanno gli altri. Quanto è importante saper stare allo stesso tempo nel mondo e in disparte? E quanto è difficile? 

 

DD: Quando nel 2000 Mario Martone invitò Elio Pagliarani per un incontro al teatro Argentina, io che lo amavo alla follia andai ad ascoltarlo e dopo gli dissi quanto mi dispiaceva che fossero in pochi a leggere le sue poesie, perché per me i suoi libri erano capolavori. E lui rispose “È fondamentale che ci siano dei luoghi nascosti e poco illuminati”. Noi tutti siamo un po’ ammalati di luce, e invece c’è bisogno di buio. Non come una dimensione subita, ma come scelta. Ritrarsi è un movimento che ti insegna il corpo. Se vuoi lanciare una cosa in avanti il primo gesto da fare è tirare il braccio indietro, caricare. Solo il movimento di carica permette al lancio di avere una giusta potenza e al gesto di essere leggibile. 

 

Il dentro e il fuori, il prima e il dopo devono essere in perfetto equilibrio. È il segreto delle grandi opere, mi pare.

 

DD: In Avremo ancora l’occasione di ballare insieme ricordo un insegnamento fondamentale di Masaki Iwana: un artista è come un uccello con le piume colorate fuori e la paglia dentro. Il dentro, il prima, l’altrove sono fondamentali, ma poi occorre che certi segreti intimi che sei andato a scomodare si traducano in una forma. Durante il lavoro si dispiegano pensieri, emozioni, memorie. Però poi se non sai governare il vissuto che emerge, se non sai concentrare le tue energie sulla forma, il risultato non sarà mai all’altezza delle premesse.

 

 

Certo, la forma, lo stile sono imprescindibili. A proposito di forma, sul finire dello spettacolo confessate al pubblico che per poter parlare questa volta avete avuto bisogno di “girarvi di spalle”. Per la prima volta Deflorian /Tagliarini tenta la strada della rappresentazione? 

 

AT: Per me che vengo dalla danza e dalla performance è sempre stato necessario dichiarare apertamente la mia presenza nel qui e ora con il pubblico. Non fingere di essere in un altrove, insomma. Quella della rappresentazione è una sfida di cui sentiva il bisogno Daria, e io l’ho accolta, ma non ho mai nascosto la mia fatica, tanto è vero che questa difficoltà è entrata nello spettacolo come questione. 

 

E che questione, direi. Forse “la questione” del teatro, da sempre e per sempre. Antonio, al di là delle tue scelte come performer e autore, posso permettermi di chiederti se credi nella rappresentazione e nella fiction? 

 

AT: Dipende dal medium. Al cinema decisamente sì, è proprio il luogo in cui torno bambino e mi lascio andare alla finzione con naturalezza. Nella letteratura dipende: adesso per esempio sto leggendo Yoga di Carrère, e mi piace sentire la sua presenza così sfacciatamente esibita, ma potrei dire lo stesso di Emanuele Trevi, anche se porta tutto un altro mondo. Però non è un assoluto, apprezzo anche i romanzi di fiction vera e propria. Nel teatro invece faccio più fatica, anche come spettatore, perché mi sembra assurdo ignorare la presenza dal vivo del pubblico. Mi va bene giocare al gioco della finzione, ma poi ho bisogno di svelarlo, di dichiararlo, come i bambini che si rincorrono con le pistole giocattolo e poi due secondi dopo vanno a mangiarsi un panino insieme. Mi piace che il pubblico veda anche la merenda, ecco. Non è che non mi piaccia la rappresentazione ma ho bisogno che ci sia attorno una cornice di realtà da condividere con gli spettatori. Dire apertamente “stiamo qui e non facciamo finta di non saperlo” mi sembra un patto necessario. 

 

Daria?

 

DD: In realtà sono completamente d’accordo con quello che dice Antonio, altrimenti non saremmo qui. Però la mia natura è assai inquieta e curiosa e mi stimola l’idea di provare strade non battute. Che in questo caso non è propriamente quella della rappresentazione intesa come recupero di una convenzione, ma quella di un possibile neo-drammatico. Il codice post-drammatico mi ha stancato sia praticarlo che vederlo, perché si è installata un’abitudine negli artisti e nel pubblico che lo ha depotenziato. Già ai tempi di Quasi niente, il nostro precedente spettacolo, avevo proposto ad Antonio di tentare di andare in questa direzione, di rischiare e rinunciare alle strutture comunicative alle quali siamo abituati, e adesso eccoci qua. Questo non vuol dire rinnegare certi passaggi o generi. Io sono legatissima all’auto-fiction e allo stesso modo trovo certi romanzi di finzione meravigliosi, e mi è sempre più chiaro che laddove c’è vera qualità letteraria le due possibilità si mescolano: non c’è auto-fiction che non contenga finzione o finzione che non riguardi profondamente e personalmente l’autore. Il punto è trovare il modo di offrire al pubblico densità di pensiero e presenza, non ci si può accomodare in un genere solo perché le altre volte ha funzionato. È la qualità a generare la possibilità di un incontro, non uno stilema. 

 

AT: Aggiungo che lo stesso discorso vale per la performatività. I nostri lavori sono assai delicati e dipendono quasi interamente dalla qualità della performance. In questo progetto il gruppo di attori e attrici è estremamente eterogeneo, ognuno ha un suo stile preciso e una sua tradizione teatrale che non necessariamente si accordano a quelli degli altri. Eppure, se tutti sono al massimo del loro potenziale, se tutti sono in ascolto degli altri, se tutti attivano al meglio la propria “presenza”, lo spettacolo magicamente decolla. 

 

DD: Ma specifichiamo anche che questa “magia” avviene se ci sono dei paletti drammaturgici chiari. Se tu non sai esattamente dove sei, non sai neppure come stare. Qualità della drammaturgia e qualità della recitazione dipendono totalmente l’una dall’altra. 

 

 

Facciamo un passo indietro: il pubblico arriva con la promessa di uno spettacolo ispirato a Ginger e Fred, e che cosa si ritrova davanti?

 

AT: Sei persone, tre coppie di artisti intente a provare uno spettacolo nella zona del retropalco, dove talvolta vengono lasciati dei camerini volanti che servono agli attori per cambiarsi durante gli spettacoli. Il pubblico è collocato dunque in quella che di solito è la parete nera di fondo e ci vede dove di solito non ci vede mai. Protagonista della scena è una ghost light, quella luce che nei teatri di molti Paesi viene lasciata accesa quando la sala è spenta. È una cosa meravigliosa che in Italia non è particolarmente diffusa: con questa lucina il teatro non rimane mai solo al buio. 

 

DD: Quando abbiamo letto su un giornale francese che durante tutto il periodo della pandemia le ghost light di tutti i teatri del paese sono rimaste accese ci siamo davvero commossi. 

 

AT: Siamo in uno spazio teatrale silente, spento, dove ci sono solo degli artisti che stanno provando una propria versione di Ginger e Fred, tra tentativi di ballo, di canto e riflessioni su sé stessi in relazione alle figure che portano in scena. Io e Daria, Monica Demuru e Emanuele Valenti, Francesco Alberici e Martina Badiluzzi formiamo tre coppie di generazioni diverse, ovvero una medesima coppia in stagioni diverse della vita, che balla, che crea, che cerca una possibilità di dialogo, un modo per stare dentro una relazione artistica, come Pippo e Amelia. 

 

Non è semplice essere in due.


DD: Nello spettacolo ricorre più volte un gioco di parole, un fraintendimento tra ‘parlare’ e ‘ballare’. C’è un’incomprensione continua tra me e Antonio, un tirare da una parte e dall’altra che di conseguenza coinvolge anche le altre coppie. Eppure, ballare significa buttarsi nella vita, e parlare significa allo stesso modo buttarsi nella vita. Stiamo dicendo la stessa cosa. È uno strano conflitto quello che dilania le coppie in scena e ci mette in crisi nella vita. Ma la prospettiva rimane davvero quella di continuare ad avere l’occasione di ballare insieme. 

 

Quindi c’è una crisi vera tra voi due?

 

AT: Non lo nascondiamo, lo spettacolo s’interroga molto su limiti e potenzialità di una relazione artistica. In sottofondo, anche se non si vedono, ci sono due visioni: la miniserie televisiva statunitense Fosse/Verdon che racconta il legame professionale e sentimentale tra il coreografo Bob Fosse e la ballerina Gwen Verdon, e Nina Simone che canta Stars a Montreux, una magnifica riflessione sulla solitudine degli artisti. 

 

DD: Vorrei specificare che questa dedica agli artisti ha per me anche un risvolto luminoso, che guarda oltre la nostra fragilità. Mi interessa condividere con lo spettatore quello ci succede quando lavoriamo. Dove andiamo? Come facciamo a portarvi dove andiamo noi mentre stiamo creando qualcosa? In fondo mi permetto di dire che i tanto bistrattati artisti compiono questo viaggio che è l’atto di creazione non solo per sé stessi, ma per tutta la società.

 

 

Non a caso per la prima volta avete riservato un grande spazio all’onirico.

 

DD: La dimensione onirica s’insinua in ogni momento della vita, tanto più della vita di un artista, e volevamo riprodurre quell’intreccio tra concretezza e immaginazione. Una lezione, quella della fusione tra realtà e sogno, che arriva ovviamente da Fellini, anche se il film che ha guidato la nostra crisi all’interno del rapporto tra rappresentazione, presenza, autobiografia e finzione non è Ginger e Fred ma 8 ½. Quell’altrove, anche immaginifico, che fino a oggi evocavamo solo con le parole, in questo spettacolo viene generato da tanti linguaggi addizionati. In questo siamo stati sostenuti da un gruppo dalle qualità performative enormi e un livello di proposta altissimo. Il canto di Monica, le sue mille voci e le sue mille risorse per essere altro da sé, la sapienza teatrale di Emanuele, la capacità ormai esplosa di Francesco di essere non solo autore e narratore ma uomo di scena in tutti i sensi e la voglia di giocare che muove Martina ci hanno letteralmente travolto. Non potevamo non approfittarne. In questo senso ci siamo sentiti molto felliniani. 

 

AT: Aggiungerei che lo spettacolo non sarebbe quello che è senza il tessuto sonoro di Emanuele Pontecorvo che anticipa e produce le immagini, le luci di Gianni Staropoli e Giulia Pastore che permettono di viaggiare e poi tornare alle assi del palcoscenico, i costumi di Metella Raboni che raccontano la possibilità di vestire infinite identità, l’occhio fotografico di Andrea Pizzalis che ci ha permesso di impaginare le immagini guardandole da fuori e lo sguardo di Attilio Scarpellini che anticipa quello dello spettatore intercettando i fili di senso prima ancora che vengano del tutto dipanati. 

 

Io che non credo molto agli eclettismi penso che tutti gli artisti abbiano una traiettoria di ricerca o un nodo interiore sul quale insistono a vita. Mi svelate i vostri? Dove si incontrano le vostre ossessioni?

 

AT: Il senso della fine è sicuramente un nodo che ci accomuna. Il fatto che le storie d’amore finiscono, che passi in un posto dove passi regolarmente e una cosa che c’era sempre stata all’improvviso non c’è più, che i percorsi artistici possono finire, che arrivi a un punto della vita in cui sai che potresti cadere e non rialzarti più: tutto questo ci interessa molto, ci riguarda. Ne parliamo spesso nei nostri lavori, magari celandolo dietro dialoghi apparentemente leggeri. “Come finisce 2001 Odissea nello spazio?” – chiedevo io in Rewind. “Non me lo ricordo” – risponde Daria. Nel progetto dedicato a Ginger e Fred la domanda si fa sempre più insistente. Dove va Pippo quando Amelia lo lascia alla stazione? 

 

DD: E che ha fatto Greta Garbo, come si è sentita, da quando ha lasciato le scene, a soli 36 anni, fino alla sua morte a 85 anni? 

 

 

In uno dei passaggi più belli di Avremo ancora l’occasione di ballare insieme, durante un blackout Emanuele Valenti confessa di aver paura di invecchiare, perché sente che le occasioni della vita non sono più infinite. Ma questo acuisce in qualche modo anche la sua sensibilità: “se il pane ti deve durare tre giorni lo conservi e lo metti un sacchetto” (cito a memoria). Aggiungerei però un altro elemento che ricorre visibilmente nei nostri spettacoli: l’amore per le figure antieroiche. Persone “storte ma non infelici”, come vi ho sentito dire una volta durante un laboratorio a Lugano. 

DD: L’amore per gli altri, per qualcuno che non rientra in una mitologia, qualcuno che magari incroci nell’autobus e se ne sta andando al lavoro, per l’essere umano che non fa grandi apparizioni sul palcoscenico della vita ma ha una sua luce che devi saper riconoscere, è un sentimento struggente che fonda tutti i nostri lavori. Georges Didi-Huberman parla di “potenza delle lucciole”. Pippo e Amelia sono esattamente così. Non sono due grandi artisti, ma neppure due millantatori. Sono due persone che amano quel che fanno, provano con serietà, sono rigorosi, conoscono le radici etiche della loro arte (Pippo racconta che il Tip-tap è nato nelle piantagioni, Amelia racconta il collegamento tra Flamenco e Tip-tap). Nonostante il senso di svuotamento che procura loro l’occasione televisiva, un baraccone scoppiettante di volgarità e banalità, loro colgono dentro il blackout che interrompe la trasmissione poco prima della loro esibizione l’occasione per un piccolo miglioramento. Non si illudono di cambiare il mondo, ma fanno un piccolo preziosissimo salto. 

 

Le foto di questo articolo sono di Andrea Pizzalis

 

Avremo ancora l’occasione di ballare insieme

un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Ginger e Fred di Federico Fellini
interpretazione e co-creazione: Francesco AlbericiMartina BadiluzziDaria DeflorianMonica DemuruAntonio TagliariniEmanuele Valenti
aiuto regia e collaborazione alla drammaturgia: Andrea Pizzalis
consulenza artistica: Attilio Scarpellini
luce: Gianni Staropoli e Giulia Pastore
scene: Paola Villani
suono: Emanuele Pontecorvo
costumi: Metella Raboni
direzione tecnica: Giulia Pastore
foto e video di scena: Andrea Pizzalis
cura e promozione: Giulia Galzigni / Parallèle
amministrazione: Grazia Sgueglia
foto: Andrea Pizzalis
una produzione: Associazione culturale A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Prato
coproduzione: Comédie de Genève, Odéon – Théâtre de l’Europe, Festival d’Automne à Paris, Théâtre populaire romand – Centre neuchâtelois des arts vivants, Théâtre Garonne – scène européenne et Centre Dramatique National Besançon Franche-Comté
con il sostegno di Interreg France-Suisse 2014-2020, programma europeo di cooperazione transfrontaliera nel quadro del progetto MP#3, e del Romaeuropa festival
residenze: Ostudio Roma, Théâtre Garonne – scène européenne

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