Robert Rauschenberg fotografo, anche

28 Giugno 2012

Basterebbe la fotografia riportata in copertina. Vi si vede una di quelle opere che Rauschenberg chiamava combine painting, la cui parte centrale è occupata da uno specchio in cui si vede riflesso l’artista dietro la macchina fotografica. Ebbene lo specchio, e perciò l’immagine riflessa, vi sono così bene integrati nella composizione d’insieme che la figura vi pare parte connaturata, come fosse lì da sempre, come se fosse una fotografia invece che un riflesso. Un effetto davvero particolare e riuscitissimo che dice tutto del combine e del painting che sono la formula dell’artista.

Un autoritratto? Sì, in questo senso “combinato”, cioè sia dell’artista sia dell’opera.

 

Robert Rauschenberg, Untitled (self-portrait with Inside Out, early state), ca. 1962

 

Oppure si guardi la prima foto all’interno, di fatto impostata allo stesso modo: un bellissimo interno di carrozza foderata di tessuti, con le ruote sui lati – la ruota torna spesso nell’opera di Rauschenberg e in tante delle sue fotografie – e quel semplice piccolo cerchio al centro, equivalente dello specchio dell’altra fotografia, che buca il fondo della carrozza ma al tempo stesso balza in avanti verso di noi, come una luna piena su un cielo notturno.

 

Stiamo parlando di immagini dell’edizione italiana, attesissima dagli appassionati, del libro delle fotografie di Robert Rauschenberg. Riguardanti gli anni dal 1949 al 1962, cioè gli anni di formazione e di maturazione dell’artista, ci danno una quantità infinita di spunti di riflessione sulla sua opera. Vi si troveranno per esempio i giochi di luce e di finestre che spiegano bene il senso delle sue prime grandi tele monocrome bianche, che John Cage definì delle piste di atterraggio per la polvere, ombre e riflessi. Si troverà l’artista incastrato tra il materasso e non so che struttura lignea, che diventeranno il letto dipinto che esporrà come opera qualche tempo dopo. Vi si vedranno gli accostamenti, le sovrapposizioni, i tagli e i giochi di scala che poi diventeranno i caratteri principali dei suoi dipinti con riporti fotografici. Si vedranno gli animali che entreranno impagliati nelle sue opere, e ancora oggetti, personaggi, la danza.

 

Robert Rauschenberg, Untitled (Interior of an Old Carriage), 1949

 

Prima ancora, nel 1950, si troveranno le cianografie già rese famose anche da noi per l’analisi formalista di Rosalind Krauss che le riconduce all’interesse di Rauschenberg per l’indice, la traccia, l’impronta, a riprova della sua consapevolezza teorica anche riguardo a questo aspetto della fotografia, e dell’arte.

Vi si troverà una fotografia dell’atelier di De Kooning, di cui cancellerà un disegno nel 1953, e i bei ritratti dei maestri del Black Mountain College presi nei finestrini dell’automobile (Franz Kline che si appoggia al vetro, John Cage di profilo), e le tante attenzioni riservate all’amico Cy Twombly.

 

E vi si troverà dell’altro, noi diremo, da grandi ammiratori, anche solo dove si posava o dove cercava lo sguardo attento di questo straordinario artista, così sicuro e determinato da dar senso a un piede immerso nell’acqua, a una lampadina da cui scende il filo come un raggio di luce, a una striscia per terra che finisce nella scritta “Stop”, a una sontuosa cassetta per le lettere delle Regie Poste italiane e quant’altro. Qui vediamo in atto quello che potremmo chiamare lo “sguardo dell’artista”, differente da quello del fotografo “puro”, uno sguardo che cerca portandosi certamente dietro i pensieri di quanto sta facendo in studio, ma al tempo stesso in libera uscita, soprappensiero, che si lascia catturare da ciò che gli si presenta casualmente. Vorremmo dire che è uno sguardo che ha a che fare con quel “caso oggettivo” di cui parla André Breton in giro per il mercato delle pulci nell’Amour fou, che incrocia il suo oggetto quasi senza saperlo, perché attira la sua curiosità, e la cui ragione scoprirà solo dopo, perché agisce inconsciamente. Un fenomeno curioso che produce immagini strane.

 

Pino Pascali, Passerella sull’acqua, 1965

 

Ne abbiamo viste di simili, a noi pare, qualche mese fa, che riempivano un’intera bellissima parete di Pino Pascali nella mostra Arte in Italia dopo la fotografia alla Galleria nazionale d’arte moderna, a Roma. Li chiamano “appunti visivi” e non è male come definizione, perché sono davvero come quando si interrompe quello che si sta facendo per prendere un appunto, non tanto un promemoria quanto una frase che ci sembra venuta particolarmente giusta, ci penseremo dopo in che senso, per paura che scappi via proprio così com’è (a proposito, ci sono un paio di pagine molto belle su questo argomento nel libro-conversazione di Vladimir Jankélévitch e Béatrice Berlowitz appena tradotto per Einaudi, dal suggestivo titolo Da qualche parte nell’incompiuto), o anche come un disegno, come il disegno sta al dipinto, con tutta la sua autonomia.

 

Uno sguardo diverso comunque, che ritroviamo forse anche in altri artisti che hanno fotografato come loro seconda attività o solo durante un particolare periodo della loro carriera artistica. A me vengono in mente Raoul Hausmann e Wols, ma ce ne devono essere altri.

 

Raoul Hausmann, Senza titolo, 1931

 

Forse potremmo dire anche che è uno sguardo come quello di un bambino. Me lo suggerisce un possibile paragone con quello che adotta scientemente Marina Ballo Charmet, e dunque uno sguardo “con la coda dell’occhio”, come lo chiama lei, cioè con un’altra attenzione, motivata diversamente, che sa bene quello che vede e che vuole fare, ma pensa più a se stesso e comunica solo in seconda istanza, trasversalmente. Uno sguardo davvero particolare, che dà immagini singolari.

 

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