Cosa c’è peggio della pioggia? / Piove

28 Novembre 2016

Cosa c’è peggio della pioggia? Rende tristi, abbacchiati, malinconici. Deprime. Non è necessario essere meteoropatici per subirne l’influsso, basta molto meno. Sembra che il fenomeno sia in aumento. I medici sostengono che sempre più persone si rivolgono a loro per via dell’aumento di ansia e depressione nel corso di fenomeni atmosferici: piogge insistenti, temporali, nebbia, turbolenze ventose. Gli psichiatri sostengono che ne soffrono i neurolabili, persone che patiscono disturbi al sistema neurovegetativo; e data la vita convulsa e stressante che conduciamo, significa: quasi tutti. Tuttavia non è proprio una questione recente. L’io meteorologico, come lo chiama Alain Corbin, sarebbe nato ufficialmente verso il XVII secolo, o almeno da quel momento se ne registra la presenza e diffusione. Dalla fine del Seicento si è intensificata la sensibilità individuale ai fenomeni meteorologici, e si è anche affinata la retorica per descriverne gli effetti. Corbin è uno storico francese che da molti decenni si è consacrato allo studio della “sensibilità”. Ha scritto un bellissimo libro sugli odori nell’immaginario sociale, ha studiato l’invenzione del mare, il paesaggio sonoro e il silenzio, gli influssi di pioggia, vento e sole sugli uomini. Questo signore ottantenne pubblica ora in italiano un breve libretto dal suggestivo titolo Breve storia della pioggia (EDB, pp. 56, € 9) dove ricostruisce alcune tappe di questa meteoropatia, e non solo.

 

Ph Ansel Adams. 

 

I francesi devono essere degli appassionati della pioggia; esiste un Dictionnaire de la Pluie  (Seuil 2007) e nel 2012 al Museo del Quai Branly, erede del Musée de l’Homme, si è tenuta una mostra etnografica dedicata ai modi con cui proteggersi dalla pioggia, rituali compresi; un altro studioso, K. Becker, ha poi curato un tomo su pioggia e bel tempo nella letteratura francese (Hermann 2012). Ma anche nel mondo anglosassone la cosa sembra interessare; è uscito di recente un libro di Cynthia Barnett, Rain: A Natural and Cultural History (Crow 2015). Naturalmente la pioggia non è solo un elemento negativo; ha anche una propria positività, tanto che nelle culture cosiddette primitive è legata a fertilità e fecondità. Nell’antichità era la siccità a essere temuta; forse per questo l’uomo meteoropatico sorge solo con i Lumi, con il pensiero moderno in un mondo che va pian piano dimenticando le siccità del passato grazie alle tecnologie di accumulo e conservazione dell’acqua, e soprattutto perché con l’Illuminismo nasce l’individuo con tutti i suoi portati di singolarità, con idiosincrasie, manie e superstizioni personali. Non che non ci fossero prima, ma ora, spiega Corbin, vengono registrate, nero su bianco. Nel 1784, pochi anni prima della Rivoluzione, Bernardin de Saint-Pierre parla della pioggia nei suoi Etudes sur la nature, dove, insieme alla malinconia indotta dalla pioggia annota anche il piacere del “maltempo”.

 

Sì, esiste anche questo. Chi non ha provato il gusto di rimboccarsi le coperte, di accucciarsi sotto le coltri mentre la pioggia batte insistentemente sui vetri della camera da letto in una notte buia e tempestosa? Per gioire basta che non si pensi che “la pioggia non avrà mai fine”. Non abbandonarsi a pensieri calamitosi – il Diluvio –, il che, per chi vive in zone a rischio, non è sempre facile. Per assaporare la pioggia bisogna che “l’anima viaggi e il corpo si riposi”. Così si dorme bene. C’è dunque l’ampia schiera degli amanti della pioggia. A capitanarli Henry David Thoreau. La cultura americana cambia tutto. In Walden scrive: “Se va bene per l’erba, va bene anche per me”. Walt Whitman le consacra una celebre poesia: The Voice of the rain: E tu chi sei? Chiesi alla pioggia che scendeva dolce”. Nel Vecchio mondo dominano invece i meteoropatici. Maine de Biran nel suo Journal scrive: “sento l’influenza del cambiamento; percepisco un malessere”. Lo spleen è figlio di questo modo di sentire. La sensibilità non è solo un fatto neurovegetativo, conta anche la cultura, oltre naturalmente il clima in cui si vive. I pensieri sono effetto del tempo: del sole, della pioggia, del vento. Ci sono pensieri ventosi e pensieri piovosi, oltre naturalmente a quelli solari. Nietzsche l’ha detto bene. Naturalmente esistono persone che provano malinconia più di altre. Uno dei versi memorabili della nostra letteratura suona così: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena”. L’ha scritto un poeta crepuscolare, Marino Moretti. Corbin ci ricorda che esiste la cinestesia, ovvero la sensibilità organica, che è il risultato delle sensazioni interne che suscita negli individui il sentimento generale della propria esistenza, indipendentemente dal ruolo specifico dei sensi. Ragion per cui non è facile essere allegri quando piove.

 

Ma ci sono anche qui eccezioni. Che la pioggia abbia un valore diverso per i maschi e per le femmine? Se è vero che la pioggia si lega alle lacrime, topos che troviamo nelle lettere di Madame Sévigné, la medesima signora racconta come la pioggia perturbi i codici e autorizzi alla trasgressione nei comportamenti: completamente infradiciata prova qualcosa che Corbin definisce “festa sensuale”. Non è pare una cosa molto diffusa, ma c’è. Nel romanticismo francese prevale piuttosto la tristezza, la malinconia, il grigiore. Come in Verlaine, o ancora in Gide, e siamo già nel XX secolo. Scrive: “Ancora tre giorni di pioggia. Mi duole il capo, la volontà è inquieta e l’umore instabile”. Questo è l’individuo isolato. Però la pioggia può anche fondare una comunità di sentimenti, quale esperienza condivisa. Corbin lo spiega con vari esempi, ma subito dopo il suo pensiero corre alla guerra, alle trincee, alla pioggia e al fango. Nella Breve storia della pioggia manca una storia del parapioggia, ovvero dell’ombrello. In verità qualche cenno c’è. Nel XIX secolo l’ombrello era talmente in voga che era diventata una vera e propria industria. Anche se l’hanno inventato i cinesi, come molte cose che usiamo, e che continuano a venderci – gli ombrelli cinesi che si rompono subito – c’è persino un santo, San Medardo, protettore degli ombrellai. Al Nord dell’Europa, in Germania, Olanda, Svezia, l’ombrello non lo usano quasi. Camminano o pedalano imperterriti con i loro cappelli calcati in testa sotto gli scrosci, fasciati da impermeabili o cerate. Abituati alla pioggia battente, sottile e fitta, non ci fanno neppure caso. Tuttavia, a parte questa che a noi mediterranei ombrellomuniti pare una baldanza insensata, soffrono anche loro di tristezze e sbalzi d’umore. La pioggia non perdona.

 

Questo articolo è già uscito su “la Repubblica”.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO