Interviste geniali / Bob Dylan. Like a Rolling Stone

31 Ottobre 2021

A pagina 350 della sua autobiografia “non autorizzata” X-Ray (The Overlook Press, 1995), Ray Davies, cioè, il grande Ray Davies, ammette di averci impiegato un po’ di tempo prima di capire la grandezza di Bob Dylan e di averlo inizialmente snobbato come autore, tanto da esser stato sul punto di scartare la canzone scritta da suo fratello Dave (si sta parlando dei Kinks, naturalmente) intitolata Death of a Clown (poi divenuta un successo anche in Italia ad opera dei Nomadi col titolo di Un figlio dei fiori non pensa al domani), canzone che, a modo di vedere o di sentire del suddetto Ray, era un po’ troppo “dylanesque”. Nella stessa pagina Davies dichiara di essersi poi ricreduto sul conto di Dylan fino a maturare su di lui l’opinione opposta, esattamente come aveva fatto con Picasso, che gli era sempre parso molto sopravvalutato, e ora considerava entrambi “due giganti dell’arte del ventesimo secolo”, non mancando di sottolineare che una particolarità della loro grandezza derivava anche dal fatto di essere stati proprio loro i primi a prendere per i fondelli i critici e gli esegeti da cui erano incensati e analizzati.

Questo è stato senz’altro vero per Bob Dylan, il quale, negli anni del suo maggior fulgore e di maggiore esplosività creativa, cioè nel biennio 1965-66, s’è divertito parecchio a scrivere testi a volte astrusi, bizzarri e insensati, certo che gli addetti ai lavori li avrebbero rivoltati in mille modi pur di arrivare a una plausibile interpretazione. Questo non significa che quei versi fossero privi di una loro bellezza o di una loro singolare originalità, anzi era proprio in quei versi che si manifestava il grande estro della sua fantasia linguistica, come pure lo spirito della sua genialità, che andava di pari passo con la libertà espressiva che gli derivava dal semplice fatto di fregarsene altamente di qualunque giudizio venisse emesso su di lui e di rimanere fedele al proprio principio secondo cui il modo migliore per riuscire a fare qualcosa è non chiedere niente a nessuno.

 

Alla stessa maniera si divertiva parecchio (ma a volte anche s’inalberava) durante le interviste o le conferenze stampa, davanti a giornalisti che lo incalzavano con domande una più sciocca dell’altra o pretendevano da lui risposte a quesiti riguardanti la soluzione dei problemi del mondo. All’epoca era della sua supposta veste di “profeta” o di “portavoce di una generazione” o di cantore di una protesta giovanile generalizzata, che gli veniva chiesto di render conto; ma quei ruoli erano appunto supposti, nel senso che era stata la stampa ad affibbiarglieli e non se li era di certo assunti lui. Così a domande di quel tipo preferiva rispondere con arguzia o umorismo o prendendole alla lettera proprio per dimostrare quanto fossero insensate e sciocche, o quanto meno mal formulate o mal poste. Così, a un intervistatore che gli aveva chiesto quanti cantanti di protesta ci fossero, Dylan aveva risposto chiedendo a sua volta: “Quanti?” stupito della domanda, o che cantanti del genere potessero essere raggruppati in un numero e qualcuno fosse interessato a saperlo; e poi, ricevuta conferma, aveva aggiunto: “Penso che siano più o meno 136”, dimostrando come una precisazione del genere, lungi dal dare un’idea dell’entità del fenomeno, poteva soddisfare una curiosità ragionieristica come quella, ma fosse di per sé insensata. 

 

Allo stesso modo, utilizzando la medesima strategia, rintuzzava in altre occasioni domande che avevano per oggetto l’ubicazione del Vicolo della Desolazione (un luogo d’immaginazione, scenario di una parata di personaggi un po’ reali e un po’ fantastici della sua famosa e grande canzone Desolation Row), specificando che detto vicolo si trova in Messico; o chi fosse Mr. Jones, che in Ballad of a Thin Man rappresenta l’americano highbrow, compiaciuto di sé ma incapace di stare al passo coi propri tempi e soprattutto di capirli (ben noto è il ritornello della canzone: “Qualcosa sta succedendo qui, ma tu non sai cos’è / Non è così, Mr Jones?”), di cui, su richiesta dell’intervistatore, Dylan rivela la vera identità, dicendo: “È una persona reale. L’ho visto entrare in una stanza, una sera, e mi ha fatto pensare a un cammello. Dopodiché si è messo gli occhi in tasca. Ho chiesto a un tizio chi fosse e mi ha risposto: – Quello è Mr. Jones. Allora gli ho chiesto: – E non fa altro che mettersi gli occhi in tasca? E lui mi ha risposto: – Mette anche il naso per terra”.

 

Di queste e di innumerevoli altre risposte, o battute, salaci, brillanti, segni di una intelligenza vivace, effervescente e in tensione, è composto il volume intitolato Like a Rolling Stone (Il Saggiatore, pp. 590, E. 25), a cura di Jeff Burger e con ottima traduzione di Camilla Pieretti, contenente appunto una scelta panoramica di interviste a Dylan che ricoprono l’arco dell’intera sua carriera che dura ormai da sessant’anni. Un libro, questo, indispensabile per capire l’evolversi del pensiero creativo di un autore importante, poliedrico e sempre imprevedibile come Dylan e le motivazioni che hanno determinato le sue scelte, compiute il più delle volte controcorrente. Va da sé che l’interesse per le varie fasi che hanno caratterizzato la sua vita artistica risulti arricchito anche dal fatto che di esse vien dato conto from the horse’s mouth, ossia dalla voce del diretto interessato, ma non sempre capita di rimanere così attaccati alla pagina durante la lettura come succede con questo libro grazie alla brillantezza, all’acume e allo spessore culturale che si avverte dietro le parole di Dylan. Il quale appunto non dice mai nulla di banale, o di scontato, e anche quando mente, o le spara grosse – come era solito fare agli inizi della sua carriera quando cercava di farsi largo tra la folla di folk singer che intasavano le vie del Village – o lo fa così impunemente e con una tale arguzia da invogliare a credergli.

 

È quel che succede infatti leggendo le prime due testimonianze scelte da Burger in apertura del volume. La prima, una serie di appunti buttati giù da Izzy Young e mai dati interamente alle stampe ma del cui contenuto si sapeva qualcosa per bocca dello stesso Young che ne aveva parlato a Scorsese nel film-documentario di quest’ultimo No Direction Home; e la seconda un’intervista radiofonica del 1962 condotta da Cynthia Gooding, lei stessa una folk singer, nella quale Dylan, ancora ventenne, baldanzoso per l’imminente uscita del suo primo album, parla come se di anni ne avesse il doppio esibendo un passato avventuroso da artista girovago o cantante itinerante simile a quello del suo eroe prediletto Woody Guthrie.

Ma sono i brani del taccuino di Young a suscitare il maggiore interesse, sia perché appunto non erano mai stati pubblicati prima, sia perché, avendo Young trascritto in prima persona ciò che il giovane Dylan, da poco arrivato a New York in cerca di fortuna, gli raccontava della sua vita, delle sue idee e dei suoi gusti, è un po’ come se si leggessero le pagine di un diario che lo stesso Dylan poteva aver scritto in quel periodo o si assistesse in diretta alle conversazioni che avvenivano fra loro al Folklore Center, il negozio, archivio, bugigattolo, ricolmo di dischi, riviste e libri relativi alla musica folk di cui Izzy Young era proprietario al numero 110 di MacDougal Street, in pieno Greenwich Village e di cui Dylan era assiduo frequentatore. Le note di Young vanno dall’ottobre 1961 al marzo del ’62 e sono relative dunque al periodo in cui Dylan suonicchiava in qualche locale del Village, normalmente i caffè nei quali era permesso far girare il berretto per racimolare qualche soldo dagli avventori dopo l’esibizione, e aveva trovato in Young un primo sostenitore e promoter dal momento che sarebbe stato proprio lui a organizzare il primo concerto di Dylan tenutosi il 4 novembre 1961 alla Carnegie Chapter Hall di New York.

 

Evento non da poco e promosso con non poca lungimiranza da parte di Young, se si considera che proprio in quel periodo, stando a quanto racconta Dave Van Ronk, altro mentore di Dylan, nella sua autobiografia scritta a quattro mani con Elijah Wald dal titolo Manhattan Folk Story (Rizzoli, p. 278), i proprietari dei caffè del Village invitavano Dylan a cantare solo nelle serate di pienone per svuotare il locale o quando i clienti tiravano a far tardi e non ne volevano sapere di uscire. Va quindi dato atto a Young di aver avuto quanto meno del fiuto, e di averne avuto tanto da essersi pure preso la briga di trascrivere le cose che Dylan gli confidava scartabellando fra i dischi e i libri del suo negozio. Da questa frammentaria composizione di stralci di discorsi, che assumono a volte il tono del brontolio e altre quello di una spacconata, spicca il fatto che Dylan dicesse di sé già allora di scrivere pezzi che raccontavano qualcosa di attuale sull’America, di non essere ispirato da nessuno ma che in realtà tutto lo ispirasse, di lasciarsi crescere i capelli per essere più saggio e libero di pensare, di non avere una religione, di non aver potuto suonare in alcuni bar perché i proprietari non gliel’avevano concesso, di essere stato scartato da tutti gli impresari che erano andati a sentirlo e che pure alla casa discografica Folkways gli avevano chiuso la porta in faccia e infine di aver già scritto una ventina di canzoni, fra cui alcune tratte da cose che aveva scoperto e altre che aveva rubato.

 

È interessante notare il candore con cui ammette di essersi impossessato di cose scritte da altri, perché parecchio si è dibattuto su questa sua pratica che egli faceva risalire a una consuetudine comune nella tradizione popolare, dato che lo stesso Guthrie aveva scritto decine e decine di testi su melodie già esistenti. Senza dover ricorrere al famoso detto di T.S. Eliot, secondo cui la differenza fra i poeti minori e quelli grandi sta nel fatto che i primi imitano e i secondi rubano, il problema, nel caso di Dylan (il Dylan di questo periodo di apprendistato), stava tutto nel vedere se questa sua pratica, per l’appunto, lo avrebbe portato o no a produrre qualcosa di suo, di valore. Cosa che, come si sa, sarebbe successa in maniera repentina di lì a poco e con tale forza da generare parecchie gelosie nell’ambiente e da lasciare ammutoliti i suoi detrattori che lo accusavano di plagio. Anzi, sarebbe stata proprio questa sua spudoratezza nell’appropriarsi di materiale altrui o nel soffiarlo a qualche collega ad alimentare in lui l’impulso creativo che avrebbe trovato espressione nella potenza e nell’originalità dei suoi testi, favorendo quella “semplice svolta del destino” grazie a cui egli sarebbe riuscito a distinguersi nettamente da tutti gli altri folk singer del Village, i quali in gran parte, salvo alcuni casi, come quello di Phil Ochs e Tom Paxton, non componevano nemmeno ma si limitavano a crearsi un repertorio prelevando le canzoni dalla tradizione del blues, da quella della ballata inglese o più semplicemente dall’antologia curata di Harry Smith dal titolo American Folk Music.

 

È stato questo il punto cruciale della carriera di Dylan, il momento in cui è avvenuto qualcosa che ha cambiato l’assetto dello status quo all’interno del ristretto ambiente della musica folk che da quel momento non sarebbe più rimasto lo stesso. Il primo a farne le spese, come si sa, all’epoca, era stato proprio il già citato Dave Van Ronk, il quale a tutt’oggi si ha l’impressione che venga ricordato più spesso per essere stato colui al quale Dylan aveva rubato l’arrangiamento di The House of the Rising Sun (usato da Dylan nel suo primo disco) che non per il suo modo di suonare o per il suo contributo al folk revival di quegli anni. Poi sarebbe stata la volta di Paul Clayton, autore della canzone Who’s Gonna Buy You Ribbons, da cui Dylan avrebbe tratto “ispirazione” per la sua Don’t Think Twice, It’s All Right, e per la quale il manager di Dylan, Albert Grossman, avrebbe scucito fior di quattrini per evitare una causa per plagio. E infine Ramblin’ Jack Elliott, il paladino e apostolo di Guthrie, che nel 1956, con Guthrie che giaceva all’ospedale di Greystone, nel New Jersey, colpito dal morbo di Huntington, si era trasferito in Inghilterra per diffonderne il verbo, incidendo diversi album col banjoista Derroll Adams che Dylan aveva ascoltato e riascoltato fino a consumarne i microsolchi. In un film documentario sulla sua vita, girato dalla figlia Aiyana, intitolato The Ballad of Ramblin’ Jack (2000), egli racconta di quando, dopo essere ritornato a New York nel 1960 durante una visita a Guthrie in ospedale, aveva conosciuto Dylan e di come questi gli si fosse appiccicato poi addosso, arrivando persino a trasferirsi nello stesso hotel su Washington Square nel quale Jack risiedeva, e di come lo imitasse in ogni sua mossa sul palco, nel modo di cantare, di suonare e persino di fumare, tanto che tutti al Village avevano finito per chiamare Dylan in maniera denigratoria “il figlioletto di Elliott”.

 

Poi, d’improvviso, racconta Elliott, qualcosa era cambiato, e che fosse cambiato a suo sfavore ne aveva avuto la riprova una sera, quando, uscendo da un locale del Village in cui si era esibito, una ragazza lo aveva fermato e gli aveva detto: “Bravo, mi sei piaciuto, canti proprio come Bob Dylan!”. Elliott aveva prontamente risposto che lui erano dieci anni che cantava così, ma aveva accusato il colpo e se le cose stavano in quel modo per lui significava che per gli altri dovevano andare anche peggio.

Difatti era proprio così. Da quel momento in poi tutto sarebbe stato ricondotto a Dylan, dagli aspetti più esteriori come l’uso del supporto per l’armonica a quelli più intrinsecamente musicali come il tipo di sound prodotto negli album; ed erano gli altri ora a doversi confrontare con lui.

 

 

Inoltre pareva fosse diventato di colpo non solo il fenomeno che stava trasformando il panorama musicale americano, ma anche la personalità più influente del secolo sul piano culturale (come poi sarebbe risultato da un sondaggio della rivista “Esquire” nel 1965, secondo cui la popolarità di Dylan era pari a quella di John Kennedy), al punto che verrebbe quasi da credere a ciò che Dylan stesso avrebbe affermato in proposito molti anni dopo in un’intervista televisiva rilasciata a Ed Bradley nel 2004 e contenuta in questo volume, e cioè che tutto era stato frutto di un patto da lui stipulato con il “Comandante in capo”(p. 466). Il quale Comandante poteva essere Dio, ma anche il Diavolo. Oppure il Diavolo, ma anche Dio.

 

Naturalmente anche altri fattori avevano contribuito alla sua affermazione. Innanzitutto la sua voce, che se da un lato veniva paragonata a quella di una cane rimasto impigliato nel filo spinato e in seguito indicata come la causa per cui Dylan sarebbe sempre stato indigesto a un’ampia parte del pubblico, dall’altra proprio la sua voce avrebbe fatto presa su una pur sempre cospicua parte di ascoltatori perché caratterizzata da un timbro in cui parevano essersi sedimentate le esperienze di lotta di un passato lontano e quelle di un presente in subbuglio di cui essa esprimeva tutta la dinamicità; e non a caso La voce di Bob Dylan è il titolo dell’importante saggio che Alessandro Carrera ha dedicato all’argomento. E in secondo luogo la consapevolezza da parte di Dylan di non poter competere coi suoi sodali sul piano dell’abilità tecnica, per cui aveva puntato più sull’espressività che sul virtuosismo e questo aveva fatto sì che, mentre gli altri badavano soprattutto a mostrare quanto fossero bravi a suonare le canzoni che suonavano, a lui invece interessava mostrare quanto fossero belle (un esempio su tutti è la splendida resa che Dylan dà della celebre ballata inglese Barbara Allen in una registrazione dal vivo al Gaslight nel 1962). Così, dopo una prima fase di assorbimento di influenze esterne che lo avevano portato ad essere comunque segnalato da Robert Shelton sul “New York Times” come un performer “dallo stile degno di nota”, Dylan aveva conosciuto un’evoluzione così drastica e veloce da diventare quasi irriconoscibile e aveva imposto le proprie scelte musicali anche a costo di alienarsi le simpatie di quello che nel frattempo era diventato il suo pubblico più fedele e affezionato, che difatti lo avrebbe fischiato a ogni esibizione, dopo il suo “passaggio all’elettrico”. Ma a spuntarla anche in seguito sarebbe sempre stato lui.

 

La stessa rapida trasformazione è possibile avvertirla anche nei contenuti e nei toni delle sue interviste dell’epoca, la più famosa e rappresentativa delle quali è sicuramente quella redatta in collaborazione col critico di jazz Nat Hentoff, originariamente apparsa sul numero di “Playboy” del maggio 1966, che è anche il pezzo forte di questo libro curato da Jeff Burger. Qui di nuovo siamo alle prese con un Dylan che cerca in tutti i modi di sfuggire al cliché del cantautore impegnato e le risposte che dà sono così fantasiose da competere per fervidezza d’immaginazione coi testi del suo album più importante Highway 61 Revisited, inciso poco prima. Quando ad esempio gli viene chiesto come abbia imboccato la strada del rock ‘n’ roll, Dylan risponde con un lungo racconto (a Robert Shelton, 1965, p. 102) che vale la pena riportare per intero:

 

Per disattenzione. Ho perso il mio unico e vero amore. Ho cominciato a bere. D’un tratto mi ritrovo a giocare a carte. Poi mi ritrovo nella merda. Mi sveglio in una sala da bigliardo. Un corpulento donnone messicano mi trascina via dal tavolo e mi porta a Filadelfia. Mi lascia da solo in casa sua e la casa brucia. Finisco a Phoenix. Trovo un impiego come cinese. Comincio a lavorare in un negozio da quattro soldi e vado a vivere con una tredicenne. Poi arriva il donnone messicano di Filadelfia e mi brucia la casa. Mi trasferisco a Dallas. Ottengo un lavoro come figura per il “prima” degli annunci “prima e dopo “ di Charles Atlas. Vado a vivere con un ragazzo delle consegne che cucina chili e hot dog favolosi. Poi arriva la tredicenne di Phoenix e mi brucia la casa. Il ragazzo delle consegne non è altrettanto gentile e le fa assaggiare il coltello. In un batter d’occhio mi ritrovo a Omaha. Da quelle parti fa così freddo che rubo biciclette e mi friggo il pesce da solo. Ho un colpo di fortuna e ottengo un lavoro come carburatore nelle gare di auto sportive del giovedì sera. Vado a vivere con un insegnante delle superiori che arrotonda facendo l’idraulico e che non è granché da vedere, ma ha costruito uno speciale frigorifero capace di trasformare la carta di giornale in soldoni. Tutto va per il meglio finché non arriva il ragazzo delle consegne che cerca di accoltellarmi. Ovviamente mi brucia la casa e io mi ritrovo per strada. Il primo che mi ha dato un passaggio mi ha chiesto se volevo diventare una star. Che potevo dirgli? 

 

Una risposta del genere presuppone un’autorevolezza, una sicurezza e una spavalderia che solo un artista con la certezza di godere dei favori dello spirito del tempo può avere, anzi, di essere egli stesso l’incarnazione di quello spirito. Così Dylan poteva permettersi di snobbare domande sul suo status e affermare di considerarsi, più che un cantante o un poeta, “un trapezista” (a Nora Ephron e Susan Edmiston, 1965, p. 86), o “uno che canta e balla” (alla maniera di Fred Astaire, per intenderci) (Conferenza stampa, 1965, p. 118); o dare risposte stravaganti, come dire che chiunque avesse mai dormito sul sedile posteriore di un’auto capiva subito che lui (Dylan) non era certo un insegnante (a Robert Shelton, 1965, p. 105). 

 

Naturalmente, quando le domande lo consentivano e riguardavano argomenti che gli premevano, come ad esempio le vecchie canzoni d’un tempo o il suo rapporto con la tradizione, anche le risposte si facevano serie, e tali sarebbero rimaste per tutti i decenni della sua carriera. Dylan infatti è sempre stato un cultore della propria materia e non ha mai smesso di approfondire la conoscenza di quella che poi sarebbe stata definita “roots music”, o “americana”, consapevole che proprio in quella egli fosse appunto radicato, come testimoniano le sue ripetute manifestazioni di disinteresse per le mode musicali che si sarebbero susseguite di decennio in decennio e come del resto appare chiaro anche dalle sue ultime incisioni le quali, oltre a cercare di avvicinarsi il più possibile nel sound a quelle leggendarie della Chess Records degli anni cinquanta, comprendono anche un’incursione nel territorio di Frank Sinatra, da lui considerato come “la vera montagna da scalare, anche se si arriva solo fino a metà” (a Robert Love, 2015, p. 517) .

E se Sinatra è il cantante con cui Dylan ha sentito di doversi confrontare in tempi recenti, queste interviste mostrano come in passato i suoi modelli di riferimento siano stati altri e sempre diversi a seconda delle sue esigenze del momento o delle riscoperte che potevano averlo entusiasmato, come quella di Jimmy Rodgers, o dei bluesmen Robert Johnson, Blind Willie McTell e Charlie Patton, o dei vecchi miti Hank Williams e Woody Guthrie, oltre agli idoli che aveva avuto da ragazzo, come Elvis Presley, Little Richard e Buddy Holly. 

 

Allo stesso modo anche le sue preferenze in materia letteraria, ampliandosi, sono risalite indietro nel tempo. Oltre ai debiti con la letteratura classica greca, latina e medievale italiana segnalati anche da Richard Thomas nel suo Why Bob Dylan Matters (Dey Street Books 2017; Perché Bob Dylan, La Biblioteca di Ulisse 2021), e poeti come Rimbaud, Byron, o Brecht, da cui aveva tratto ispirazione fin dai primi tempi a New York, dalla lettura delle interviste si apprende di una sua passione per poeti come Whitman, osannato per la sua grandiosa visione dell’America, a dispetto dell’ambigua considerazione che potevano avere avuto di lui autori più sofisticati come Emerson (a Douglas Brinkley, 2009, p.502); o per scrittori come Melville, “Uno con cui mi identifico per il suo modo di vedere la vita” e Conrad, “Anche lui mi piace molto” (a Neil Hickey, agosto 1976, p. 234); mentre dagli autori dell’area beat, da cui pure era stato così fortemente influenzato fino alla metà degli anni settanta, rimane nel tempo il rispetto per Allen Ginsberg, di cui elogia “la lingua potente e sicura” (a Douglas Brinkley, 2009, p.502), per Jack Kerouac, che lo aveva così tanto colpito per il suo stile tutto “movimento, parole e forti istinti che prendono vita” (idem, p. 502); e soprattutto per l’osservanza del precetto del loro antesignano Henry Miller, secondo cui il ruolo dell’artista è quello di inoculare nel mondo il morbo della disillusione.

 

Quanto agli autori del suo stesso campo coi quali s’è trovato per decenni a condividere la piazza, oltre naturalmente all’ammirazione mai nascosta per i Beatles, i Rolling Stones e gli altri gruppi inglesi degli anni sessanta, nelle interviste esprime via via incondizionata ammirazione per altri eminenti  rappresentanti della scena musicale americana, come Leonard Cohen, Randy Newman, Paul Simon, Brian Wilson, Gordon Lightfoot, Lou Reed, Bruce Springsteen, Mike Bloomfield (cui deve buona parte della riuscita del suo album di massimo prestigio Highway 61 Revisited), Chuck Berry, subito dietro al quale ambirebbe ad essere classificato (a Douglas Brinkley, 2009, p.497), e soprattutto Neil Young. Di quest’ultimo racconta di essere stato a visitare la casa in cui era nato e cresciuto, a Winnipeg, in Canada: “Volevo vedere la sua stanza. Dove aveva guardato fuori dalla finestra. Dove aveva sognato. La porta da cui usciva ogni giorno. Volevo vedere cosa c’era in quel quartiere” (idem, p. 503), proprio come se fosse stato un fan qualsiasi. D’altronde non era la prima volta che egli faceva una cosa del genere dato che è notizia di alcuni anni fa che, trovandosi a suonare dalle parti di Liverpool, Dylan abbia partecipato al tour della casa di John Lennon senza essere riconosciuto da nessuno degli altri partecipanti.

 

Da segnalare ancora sono due interviste molto interessanti fra quelle concesse da Dylan in questi ultimi anni. La prima, ad opera di Jonathan Lethem, del 2006, si pone come una riflessione matura sulla sua identità artistica e la discussione, che verte anche sul fenomeno delle registrazioni piratate (i cosiddetti bootleg) dalle quali Dylan è stato l’autore più colpito e danneggiato,  viene inglobata all’interno di un testo altrettanto riflessivo elaborato da Lethem che, oltre ad essere uno degli scrittori americani più originali d’oggi, è anche un conoscitore di prima mano della materia dato che pure sua madre era attiva come musicista del Village nella stessa epoca in cui lo era Dylan. E la seconda è una lunga intervista rilasciata da Dylan a Robert Love e pubblicata nel 2015 su “AARP – The Magazine” una rivista, verrebbe da dire, per pensionati, dato che rappresenta un pubblico dai cinquant’anni in su, ma con la non secondaria peculiarità di poter contare su una trentina di milioni di lettori. In essa Dylan si dilunga sulle incisioni dell’ultimo periodo, tratte dal repertorio di Sinatra, rivelando di averle ascoltate e riascoltate a lungo durante i soundcheck che si svolgevano prima dei suoi concerti, e di averle volute registrare a modo suo, senza l’intromissione di nessun produttore per timore di vedersi imporre arrangiamenti basati su una pluralità di strumenti, cosa che lui avrebbe voluto evitare, preferendo un accompagnamento più scarno ed essenziale. E non era la prima volta che Dylan mugugnava a proposito di discografici e produttori. Nella conferenza stampa di Roma del 2000, qui riportata alle pp. 427-58, una conferenza strana, diversa dalle altre, in cui emergeva anche una vena di malcontento, Dylan si era lamentato del loro intervento in diversi album, giudicandolo in maniera negativa, ma non aveva specificato quali. Certamente non di quelli del periodo d’oro degli anni sessanta, che sono perfetti.

 

In conclusione, considerando il contenuto di questo volume, di cui si è potuto dare solo un assaggio, vista la sua mole e la sua complessità – volume che fa il paio sia con quello edito da Jonathan Cott (Dylan on Dylan, Hodder, 2006), sia col volume di “interviste, cronache e saggi” pubblicato nel 1985 dall’Arcana dal titolo Dylan – e tenuto conto degli altri scritti di Dylan, come lo splendido Chronicles I, oltre che degli innumerevoli album da lui incisi e delle infinite tournée della Never Ending Tour, e senza nemmeno dover tirare in ballo gli infiniti premi che gli sono stati assegnati, non si può fare a meno di vedere come in tutto ciò si sia realizzata oltre ogni possibile previsione l’aspirazione che egli stesso aveva espresso nei versi finali  di una delle sue prime composizioni, quella dedicata al suo idolo Woody Guthrie, nei quali si augurava di poter dire, un giorno, di aver percorso tanta strada quanta ne aveva percorsa lui. Forse si è trattato di una strada un po’ meno accidentata di quella di Woody, ma era ancora tutta da scoprire perché nessuno l’aveva mai aperta. Per farlo ci sarebbe voluto proprio lui.

 

BOB DYLAN - Like a Rolling Stone. Interviste (a cura di Jeff Burger), Il Saggiatore, pp. 589. E. 25.

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