Viaggio in Italia

13 Luglio 2012

Per oltre cent’anni l’immagine dell’Italia è stata quella fissata dalle fotografie dei Fratelli Alinari: monumenti, piazze, strade, palazzi, case, fotografati in modo frontale, con qualche rara persona nel rettangolo in bianco e nero, o virato in seppia. Un’Italia oleografica, prigioniera del suo nobile passato. Mai che vi figurasse uno stabilimento industriale, le torri di un petrolchimico, i distributori di benzina, le costruzioni moderniste. Questa immagine è continuata intatta durante il Fascismo, e oltre. Era “Venezia unta di piccioni”, come ha scritto una volta Carlo Arturo Quintavalle, insomma il nostro amato Bel Paese. A interrompere per un momento questa oleografia c’era stato il neorealismo, ma nel profondo l’idea visiva che gli italiani avevano del propria terra restava la medesima. Poi all’improvviso è successo qualcosa, uno di quei miracoli la cui potenza si percepisce solo a distanza di decenni. Nel 1984, nel mese di gennaio, appare un sottile volume che accompagna una mostra di ben trecento immagini presso la Pinacoteca Provinciale di Bari. L’editore è Il Quadrante di Alessandria.

 

 

 

S’intitola Viaggio in Italia, e lo curano Luigi Ghirri, Gianni Leone, Enzo Velati, con testi di Quintavalle e un diario di viaggio di Gianni Celati. Di colpo si materializza un altro paese fatto di posti marginali, nastri d’asfalto, città deserte, spiagge, casine abbandonate, strade provinciali, giardini incolti, recinzioni di lamiera, bar e uffici deserti. Si scopre l’esistenza di quei luoghi che capita di vedere “quando sbagliamo strada o siamo smarriti o stanchi, o nelle soste dei viaggi, o nei giorni vuoti, nei pomeriggi in cui non si sa dove rifugiarsi”, come ha scritto vent’anni dopo Gianni Celati. Cosa avevano scoperto Luigi Ghirri e i suoi amici e colleghi fotografi? L’arte zavattiniana degli “incontri non preordinati”. Non la semplice rivalutazione del caso, cosa che avevano già fatto le avanguardie storiche, bensì la banalità del quotidiano. Per dirla con Gilles Deleuze, mentore segreto di questa scoperta del quotidiano, “quella palude in cui sembra sprofondare il pensiero”. La banalità non era più da respingere, bensì da accettare. L’avevano già fatto i neorealisti nei loro film, che non a caso sono dietro gli scatti di Ghirri, Guidi, Basilico, Chiaromonte, Tinelli, ma ora si trattava di qualcosa di veramente nuovo. A separare quella fotografia e cinematografia anni Quaranta dai viaggiatori in Italia del 1984 era il cambiamento stesso del paesaggio: l’Italia in quel decennio era diversa.

 

 

Aveva attraversato il boom economico, la sua apoteosi – la pasoliniana scomparsa delle lucciole –, quindi la sua crisi, figlia degli anni Settanta. All’improvviso, dopo gli ultimi fuochi di quel decennio, era come calato il sipario e si era visto un mondo diverso. Meglio: erano diversi gli occhi di quei fotografi e scrittori che si guardavano intorno. Una nuova forma di realismo, che superava già l’incipiente postmoderno del decennio, un realismo che si faceva carico dell’esperienza stessa del vedere come interpretazione, da un lato, ma anche del modo concettuale di vedere proprio dell’arte del decennio precedente, dall’altro; un realismo che aveva attraversato le avanguardie e le neoavanguardie, il loro modo agglutinato e caotico di guardare. Per dirla con Celati, uno dei teorici del nuovo realismo italiano, autore di un piccolo saggio profetico, Finzioni in cui credere, era “la passione per il mondo così com’è”. Ora, in quel gennaio del 1984 l’Italia poteva essere guardata al di là delle cartoline degli Alinari. Uno scarto decisivo che ha fatto scuola, come si è poi visto in altre situazioni a seguire per vent’anni.

 

 

Una delle più interessanti è l’esplorazione compiuta sei anni fa da Antonio Pascale su una Smart attraverso parte del Bel Paese; nel libro che ne è nato, Solo in Italia (Contrasto, 2005), ci sono una serie di scatti di giovani fotografi italiani. Apro il volume nella sala della mostra che alla Triennale di Milano rievoca il primo viaggio, quello di Ghirri e compagni, quasi trent’anni dopo (a cura di Roberta Valtorta), e paragono quel movimento di scoperta del mondo esterno con queste immagini sulle pareti nel bellissimo allestimento. Cosa c’è di diverso? L’esterno si è fatto interno; l’immagine del mondo intorno a noi – l’Italia è cambiata, ma non troppo visivamente rispetto a allora – è diventata l’immagine del mondo dentro di noi. È come se quei capannoni abbandonati, quegli edifici solitari, quelle periferie sconciate, scoperte con l’incanto di come-se-fosse-la-prima-volta, fossero ora l’immagine interiore del Paese, della sua desolazione, del suo abbandono. Quello che prima era incanto, ora è invece degrado. Il volume che meglio esprime questo cambiamento è  Gomorra di Roberto Saviano, un libro senza figure, eppure così carico d’immagini, che, non a caso, Matteo Garrone ha restituito al suo profondo valore visivo in modo superbo. Trent’anni dopo l’incanto si è dissolto e l’immagine del mondo esteriore, che ammaliava Ghirri, Fossati, Cresci, Barbieri, Leone, è diventata l’incoercibile immagine del mondo interno, del nostro mondo interiore. Tutto uguale e tutto rovesciato. Per rompere questo incantesimo malevolo ci vorrebbe qualcosa di nuovo e di diverso, un movimento dell’occhio e della mente, che disincagli lo sguardo dalla cartolina del crollo e delle rovine che abbiamo in testa da quasi vent’anni. L’imprevedibile può sempre accadere, come quel giorno di gennaio a Bari.

 

 

Altre immagini della mostra in una galleria su ilPost

Questo articolo è apparso su La Stampa

 

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