Due festival modenesi / Morte e decentramento dell’umano

20 Maggio 2019

Accarezzare l’eterno: Trasparenze Festival 2019

 

Muovere Utopie è il titolo dell’edizione 2019 del festival Trasparenze di Modena, a cura del Teatro dei Venti. Si viene però a sapere, a seguito dell’incontro con Giulio Sonno sullo spettacolo Moby Dick della stessa compagnia, che originariamente la rassegna artistica si sarebbe dovuta chiamare Crepa. La parola gioca in modo voluto su un doppio senso che suggerisce qualcosa di stimolante e al tempo stesso di sinistro sulla natura del teatro. Quest’arte genera appunto una crepa nelle menti di artisti, spettatori e operatori che contribuiscono, ciascuno a suo modo, alla realizzazione di uno spettacolo. Chi si dedica al teatro è costantemente messo in discussione nelle proprie apparenti certezze, nella sua postura e nei suoi movimenti più intimi, o in generale nel suo atteggiamento verso quella cosa misteriosa e pazza che si chiama “vita”. Ma il teatro è anche un’arte che sussurra nel cuore di chi ha la fortuna e la sventura di frequentarla: crepa, devi morire, lascia tempo e spazio a qualcosa che è più importante di te. La bellezza è infatti amara, diceva Rimbaud, e – potremmo aggiungere – non ammette di essere toccata dai deboli di spirito.

 

I bambini di “Moby Dick”, Teatro dei Venti, ph. Chiara Ferrin.

 

In effetti, questo titolo Crepa continua sotterraneamente a ispirare molti dei lavori che questa edizione di Trasparenze ha selezionato. Sono molti gli spettacoli che hanno un qualche legame, discreto o diretto, con la morte o la finitezza e la necessità di affrontarla. Si possono menzionare, al riguardo, almeno quattro dei lavori ospitati dal festival. Si può cominciare da Pragma di Teatro Akropolis, che evoca con una pantomima senza parole lo sprofondamento nell’Ade di Persefone, l’incontro di questa con la madre Demetra e la nascita di Dioniso, divinità in cui gli opposti della cura e della distruzione coincidono. Si può poi passare a Divine di Danio Manfredini, riscrittura del romanzo Nostra signora dei fiori di Genet, popolato da travestiti e prostitute che muoiono o si consumano per amore, e allo stesso Moby Dick di Teatro dei Venti, dove la caccia alla fantastica balena bianca si conclude con un naufragio della nave Pequod e una discesa nell’abisso. Infine, si può ricordare Un.Habitants di Caterina Moroni: una performance ambientata in un cimitero, in cui 20 spettatori alla volta sono messi in contatto con i morti che sono lì sepolti, o che forse dormono per risorgere in futuro, attraverso delle cuffie che trasmettono delle istruzioni e delle riflessioni che i defunti vogliono lasciare ai vivi.

 

“Un.Habitants” di Caterina Moroni, ph. Chiara Ferrin.


Non sarebbe allora peregrino supporre, entro questa prospettiva, che questa edizione di Trasparenze suggerisca che il teatro possa essere definito come una “arte del crepare”, nel doppio senso di arte che spezza il comodo guscio di noce delle nostre sicurezze e che fa da tramite per raggiungere una buona morte. Come infatti ci sono molti modi e stili di vita, così ci sono altrettanti modi e stili del morire. Se immaginiamo di volare sulla schiena di un grande uccello e di planare sopra tutta la terra abitata, osserveremmo una umanità variegata e mai uniforme. Alcuni esseri umani muoiono così come sono vissuti: in modo piatto e senza intensità, centellinando i loro affetti e i loro pensieri con un cucchiaino da caffè. Altri sono più generosi ma disperdono le loro energie, lasciando così dietro di sé solo un ricordo di un’esistenza disordinata e confusa. Altri ancora nuocciono e fanno del male, o vivono per distruggere. La casistica potrebbe continuare potenzialmente all’infinito, tanto che il nostro ipotetico uccello non ce la farebbe a un certo punto più a proseguire nel suo volo di ricognizione e stramazzerebbe stanco in basso, sulla terra ruvida o dentro un segmento dell’oceano.

Il problema sta così nel cercare la morte migliore tra le innumerevoli possibili, fermo restando che questo evento è ineluttabile e che nessuno si può esimere, volente o nolente, dall’attraversarla. Per tornare allo specifico di Trasparenze, ci si potrebbe chiedere quanto segue. Di che morte deve crepare il frequentatore di teatro? Se già il ragionamento di prima apriva una situazione labirintica, adesso lo sguardo è quello di un abisso senza nemmeno la sicurezza di corridoi e pareti, che circoscrivano un poco il disorientamento. Non ci sono infatti solo tanti modi o stili di vivere e di morire, ma anche di coltivare l’arte del teatro. Da questo punto di vista, bisogna insomma essere parziali, raccogliere la proposta che pare complessivamente emergere da Trasparenze e vedere dove essa possa portare.

Credo che la dimensione comune che emerge dai quattro lavori di questo festival che sono stati menzionati evidenzino una parola chiave: delicatezza. È infatti il tentativo di evocare un gesto delicato che costituisce forse il basso continuo ricorrente di spettacoli per il resto diversi ed eterogenei. Pragma di Teatro Akropolis racconta il mito di Dioniso con danze leggere e rarefatte, perché un dio della nascita e della morte non lo si può esprimere con discorsi, ma lo si può solo evocare di scorcio e tenendolo quasi di spalle. Divine di Manfredini racconta le storie dei travestiti e delle prostitute di Genet accompagnando la lettura con la proiezione di delicatissimi disegni ad acquerello, realizzati dallo stesso artista. La tristezza che domina il romanzo viene così trasfigurata in colore e forma plastica, forse in parte riscattata dall’evocazione del bello. Moby Dick di Teatro dei Venti inizia con la costruzione della nave Pequod dal vivo e finisce con un incontro dello sguardo del capitano Achab con la balena Moby Dick, la quale è a sua volta costruita sopra il veliero e mossa dagli attori della compagnia verso l’albero maestro. Accade un incontro tra l’enorme e l’infimo, che almeno per un istante privilegiato si trovano a sfiorarsi, forse anche a baciarsi con labbra tremanti. E infine, i morti del lavoro Un.Habitants della Moroni danno agli spettatori vivi delle istruzioni semplici, come quello di ballare per loro, di innaffiare le piante sulle loro tombe o di distendersi accanto alla lapide – gesti piccoli che hanno il misterioso potere di infrangere il confine sottile tra la vita e la morte.

La proposta che pare emergere da Trasparenza è, insomma, che il miglior modo per morire sia quello di farlo con la delicatezza di cui è fatta l’arte del teatro. Chi la frequenta entra in contatto con l’eterno, che ha molti nomi (“divino”, “assoluto”, “aldilà”, ecc.) ma un’unica sostanza, e riesce per un attimo ad accarezzarlo e a riscattare la propria pochezza o finitezza. In tali momenti privilegiati, l’umano diventa forse un dio e, paradossalmente, incontra la morte per trovare un’oncia di immortalità.

 

“Moby Dick”, Teatro dei Venti, ph. Chiara Ferrin.


Questa importanza della delicatezza a teatro permette di evitare un possibile equivoco su quanto si diceva all’inizio. Quando si supponeva che la bellezza non si lascia toccare dai deboli di spirito, non si intendeva dire che allora il bello lo esperisce chi esercita la forza e la violenza. Ci vuole dopo tutto più coraggio, studio e creatività per dare o ricevere una carezza che per commettere atrocità su scala planetaria. Anche i dementi e gli imbecilli sono capaci di strangolare, accoltellare, bombardare, squartare, torturare, calciare, violentare, dissanguare, sterminare, segregare, e via dicendo con altri verbi attinenti al lessico dell’orrore. Gli atti delicati di cui è capace il teatro sono resi possibili, invece, solo tramite un lavoro continuo, congiunto, a volte disperato e sempre pieno di difficoltà degli artisti col loro pubblico, che spesso rasenta la frustrazione e il fallimento. Ma se non è del tutto assurdo pensare che questo sforzo comune conduca a una sorta di eternità, il rischio risulta essere bello e il tormento o l’amarezza che esso porta con sé sembra apparire più dolce di ogni delizia terrena.

Esiste un adagio proverbiale che vuole che la morte sia la sorella del sonno, perché l’una e l’altro sono accomunate dalla perdita dei sensi o della coscienza. Forse è qui più adeguato pensare a un altro rapporto di parentela: quello della morte con l’eros. È infatti forse la delicatezza che la passione erotica porta con sé ad acutizzare i sensi e la coscienza fino al loro limite, consentendo a questo agglomerato di polvere che è l’essere umano di diventare qualcosa di dolce e intelligente. Il resto è orrore quotidiano.

 

Lessico e musica del post-umano: Periferico

 

Non molto distante nello spazio e nel tempo dall’area di Trasparenze, si è poi tenuta sempre a Modena l’undicesima edizione del festival Periferico, dal titolo Latitudine e longitudine di un granello di sabbia, a cura del Collettivo Amigdala. La compresenza delle due iniziative sul territorio non è in realtà casuale, essendo il risultato di un dialogo reciproco che trova il suo simbolo nella performance di “transizione” di nome Elementare.

Si tratta di un lavoro che Amigdala ha inserito nel programma di Trasparenze, che intende mettere in comunione gli artisti del collettivo e il suo pubblico. Gli uni e l’altro si trovano, infatti, ad attraversare insieme la nottata e ad attendere l’alba del giorno seguente. Mentre gli artisti del collettivo si dispongono nello spazio per cantare, accendere dei fuochi e trascrivere su tela alcuni versi o ragionamenti poetici, i membri del pubblico si trovano davanti a una scelta. Essi possono o restar svegli e prendere parte alla performance in atto, ragionando sulle parole sia scritte che cantate, o addormentarsi e farsi attraversare dalle melodie, o ancora passare senza continuità e logica dall’una all’altra modalità. La scelta riguarda due diversi tipi di esperienza estetica: quella razionale-discorsiva e quella onirica-immaginativa, che potremmo raccogliere sotto i termini “lessico” e “musica”. Se Elementare resta sempre la medesima performance sul piano della creazione, essa muta di carattere per quel che riguarda la fruizione del pubblico. Vi è la totale libertà per le menti più ragionevoli di restare vigili tutta la notte, per quelle più sognanti di lasciarsi cullare dal suono fino all’alba, per quelle inquiete o sospese tra razionalità e sogno di avere il privilegio di partecipare di entrambe le dimensioni in un lasso circostanziato di tempo.

 

“Elementare”, Collettivo Amigdala, ph. Chiara Ferrin.


Queste due diverse modalità di esperienza estetica che Elementare mostra in piccolo tornano in grande in Periferico. Anche qui è infatti possibile isolare una proposta artistica che alterna il “lessico” alla “musica”, ossia i momenti di ragionamento serrato con le occasioni per abbandonare la mente alla sonorità pura. Il festival è, del resto, così strutturato. Un artista viene invitato da Amigdala ad allestire un’intera giornata di eventi, prevedendo perlopiù nel pomeriggio eventi di riflessioni e, alla sera, la fruizione di interventi spettacolari o musicali in cui la parola è ridotta al minimo, se non al nulla. Valga quale unico esempio esplicativo la giornata del 10 maggio, a cura di Enrico Malatesta. Qui l’artista ha previsto per la fase pomeridiana le conferenze con sessioni di ascolto di Renato Rinaldi e Attila Faravelli, in cui si è ragionato su diversi concetti a metà tra l’estetica e l’epistemologia, mentre per il momento serale ha allestito tre interventi musicali dello stesso Malatesta, di Giovanni Lami e di Renato Grieco, non preceduti da interventi teorici che dessero il minimo orientamento per l’ascolto, che allora risulta essere personale e senza padroni.

 

Identificare il “lessico” e la “musica” con le due direttive estetiche di Periferico è però ancora troppo generico. Del resto, una riflessione deve avere una tesi da sostenere. La musica ha invece sempre un’origine e un mezzo, ossia essere cercata da determinate fonti ed evocata con degli specifici strumenti. Credo che Periferico abbia centrato il fuoco di entrambe le direttive in un tema che attraversa tutte le giornate del festival, ossia il concetto del “post-umano”. È vero che questo costituisce, in realtà, il cuore della giornata dell’11 maggio a cura di DOM-/Leonardo Delogu e Valerio Sirna, che riflettono sulla necessità di abbandonare, sia nell’arte che nella vita, il pericolo costante dell’antropocentrismo, o della tentazione di porre l’umanità all’apice di tutti gli enti del cosmo. Va tuttavia sottolineato che questo tema del “post-umano” torna suo malgrado e con diverse sfumature lungo tutto Periferico, forse in virtù delle scelte del Collettivo Amigdala dei curatori delle giornate. Si può così proporre che lo sforzo complessivo del festival è stato quello di cercare un lessico e una musica adeguata ad esprimere la nozione del “post-umano”, o in termini operativi di cercare di andare tramite l’uso della ragione e l’espressione musicale oltre l’essere umano, con tutti i suoi molti difetti e i suoi ben pochi pregi.

Prima di procedere in questa direzione, occorre comunque svolgere una breve digressione critica. Il tentativo di superare qualcosa può procedere in due modi del tutto incompatibili. Per un verso, abbiamo il processo di superamento per addizione: si supera qualcosa aggiungendo qualcosa alla sua natura. Restando nell’alveo della nozione di post-umano, questo significa che lo scopo coinciderebbe con quello di Nietzsche di creare un essere sovrumano, o uno dotato di potenza e volontà affermativa maggiori della norma. D’altro canto, è anche possibile un superamento in senso contrario, cioè per sottrazione. Il post-umano non consisterebbe, in questo caso, in un essere umano che ha superato i suoi limiti perché ha acquisito qualcosa di più rispetto alla norma, bensì in uno che si è ritratto da tutto ciò che è dannoso, inutile e superfluo, ovvero che ha qualcosa di “meno” dal consueto. L’esempio più chiaro è la figura dell’asceta. Si tratta di un individuo in cui le pulsioni di violenza, i desideri vacui, i bisogni non-necessari che contraddistinguono gli esemplari umani ordinari sono stati del tutto rimossi dal suo orizzonte di vita e di attesa. Ora, in arte, questa seconda direzione etica si tramuta nella ricerca dell’essenziale e nel creare degli spazi di relazione autentica con tutte le cose, inclusi animali, vegetali e artefatti. Un essere post-umano come quello così abbozzato non vede infatti gli altri enti come qualcosa su cui esercitare volontà e potenza, bensì come interlocutori alla pari, di cui prendersi cura e con cui cercare la bellezza. E un’arte come il teatro servirebbe forse proprio ad abbattere i confini che separano le varie specie, o anche quello tra il naturale e l’artificiale, entrando in una dimensione di intesa orizzontale e pacifica.

 

“Camminare”, DOM-, ph. Carlo Rotondo.


Mi pare che sia allora questa seconda definizione del post-umano che Periferico ha tentato di esplorare e tematizzare. Per quel che riguarda la direttiva razionale-discorsiva, o il piano del lessico, registro come i vari artisti di Periferico hanno dato una serie di argomenti a favore della prospettiva che non vi può essere arte o bellezza se l’essere umano non fa un passo indietro rispetto alle sue ambizioni di potere e di affermazione. Qui è opportuno ricordare, a titolo esemplificativo, la conferenza di Renato Rinaldi, dove la nozione di “paesaggio sonoro” suggerisce che è opportuno includere nella definizione di musica non solo i suoni prodotti da arte umana, ma anche (se non soprattutto) i silenzi e i versi della natura che emergono quando noi umani scegliamo di non imporre la nostra voce sul mondo. O ancora, si può ricordare l’incontro finale organizzato da DOM- con lo scrittore Antonio Moresco, a partire dal suo romanzo Il grido. Quest’ultimo lancia un appello disperato ma lucido e forte, come un urlo muto, a reinventare la nostra specie, che per una sorta di irrefrenabile spinta suicida non riesce a cambiare il proprio stile di vita che sta portando il mondo sempre più vicino alla catastrofe e, dunque, ha bisogno di trasformare radicalmente la propria natura, fino a diventare un vivente del tutto diverso da quello attuale. Entro tale punto di vista, il titolo Periferico del 2019 va interpretato in senso più metaforico. Le edizioni precedenti usavano la dicitura per esprimere l’idea che il festival allestisce iniziative che si muovono fuori dal centro di Modena, per vivificare i luoghi posti ai limiti della città. Per quella del 2019, vale certo ancora tale significato, ma se ne aggiunge uno più ampio. Il festival è “periferico” perché intende spostare l’essere umano dal centro alla periferia del cosmo, così da creare uno spazio vuoto in cui un vivente nuovo e per nulla dannoso per l’universo possa nascere, crescere, riprodursi senza distruggere ogni cosa.

Stesso discorso vale per la “musica”. La maggior parte degli incontri, delle installazioni, degli spettacoli aderiscono al principio che si possa derivare la bellezza da ogni essere, a cominciare dagli incontri musicali degli artisti selezionati da Enrico Malatesta (e di Malatesta stesso), che cercano di trarre musica suonando i nastri adesivi e altri oggetti inorganici. Il principio si applica poi bene al lavoro Camminare come prefigurazione di DOM-, dove Leonardo Delogu e Valerio Sirna guidano gli spettatori in un viaggio nei luoghi sia urbani che naturali lontani dal centro di Modena, nel mentre alcune casse riproducono melodie e canzoni per l’ambiente. Ciò mostra che in ogni spazio – anche quelli degradati o abbandonati – ci si può imbattere in una musica che accende il sentimento e la mente. Infine, il principio può valere per CODE_syntax error_congedo dalla figura 22 di Isabella Bordoni. Si tratta di un’installazione che processa in formato sia scritto che audio le 21 ore e i 48 minuti di registrazione degli interventi tenutisi nell’edizione Periferico 2018 presso la Fonderia Ponzoni, incorrendo spesso in errori di trasmissione e di decodifica. I programmi usati per tradurre i discorsi registrati arrivano di frequente, infatti, a fraintendere i contenuti degli originali, cambiando o eliminando alcuni loro termini, o aggiungendone altri che non c’erano. Si produce così, con l’installazione, un caos di suoni e parole in cui l’errore entra a far parte del processo creativo, in cui si creano alcune frasi poetiche e altre che non hanno alcun senso, ma che nondimeno emettono un ritmo avvincente e incantevole. Il risultato è che l’ascolto dello spettacolo di una macchina che produce musica distorcendo il linguaggio umano e i suoi significati più letterali o semplici.

 

Ph. Marco Caselli Nirmal.


Lo sforzo di individuare un “lessico” e una “musica” del post-umano rappresenta, in conclusione, un programma estetico con una chiara direzione ed efficacia morale. Periferico sprona l’essere umano ad abbandonare il suo angusto spazio di centro dell’universo e di attraversare ogni luogo, anche quello posto nella più estrema periferia. Da stanziale, l’umanità diventa così nomade e acquista per la prima volta l’opportunità di ascoltare i bei suoni che provengono persino dalle pieghe più piccole della materia. L’idea che la bellezza sia una prerogativa esclusivamente nostra viene così di colpo abolita. Se questa è emanata da vegetali, animali e artefatti, forse ne segue che anche questi enti sono capaci di coglierla e apprezzarla, se non addirittura di più e meglio di noi.

 

Epilogo

 

Sul piano metodologico, ogni tentativo di trovare un filo conduttore per due festival distinti – per quanto in questo caso gemellati o in dialogo – è sempre rischioso e discutibile. Un’analisi che cerca infatti di presentare un quadro coerente e unitario lascia da parte molti lavori o artisti altrettanto meritevoli di attenzione, parlando con i quali molte altre idee e immagini potevano forse essere scoperte. Nello stesso tempo, però, questo difetto è compensato da un guadagno a livello concettuale sia sul teatro, sia sull’essere umano.

Quello che subentra da un’analisi certo selettiva dei lavori di Trasparenze e Periferico è, del resto, qualcosa di più generale, che potrebbe adattarsi a molti altri casi particolari. Emergono, da un lato, l’idea che il teatro sia forse il tentativo di affrontare la morte e di superarla, dall’altro la prospettiva che l’umanità così come è oggi non solo risulta essere trascurabile, ma anche una massa suicida e dannosa per il cosmo (quella che già lo stoico Marco Aurelio chiamava “ascesso del mondo”). Queste due concezioni possono, inoltre, essere messe in risonanza, ipotizzando che il teatro possa essere quel poco di buono che la nostra specie è stata in grado di partorire e che, quando esso raggiungerà il suo massimo sviluppo o apice, la povera cosa che noi siamo acquisterà forse un senso. Dove tale arte ci porterà e se da questo spostamento nascerà un’umanità nuova, o un essere di totalmente diverso, a nessuno di noi è dato al momento di sapere.

Gli esseri umani con tutti i loro difetti e la loro follia devono crepare, secondo Trasparenze, o mettersi ai margini / alla periferia del cosmo, stando a Periferico, per far subentrare al loro posto qualcosa di ignoto, che forse nemmeno gli dèi hanno ancora pianificato e sognato. Ma qui si esce dalla dimensione della cronaca filosofica e si passa al piano della riflessione pura. È dunque doveroso arrestarsi sulla soglia di questa via di ricerca e lasciare ad altre occasioni il lusso di arrancare verso il mistero. 

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