Marisa Bulgheroni / Stella nera. Frammenti di una vita comune

14 Novembre 2020

La vita ormai lunghissima di Marisa Bulgheroni ne contiene molte: cresciuta negli anni del fascismo in una città di provincia, adolescente durante la Resistenza, laureata con Antonio Banfi, redattrice e inviata della rivista ‘Comunità’ di Adriano Olivetti, poi il viaggio a New York dove incontra molti dei protagonisti della scena letteraria americana (Chiamatemi Ismaele. Racconto della mia America), l’insegnamento universitario a Catania negli anni della contestazione, Il pedinamento di Emily Dickinson (la curatela del Meridiano e la bellissima biografia Nei sobborghi di un segreto), la vena narrativa confermata negli ultimi decenni da racconti (Apprendista del sogno) e da un romanzo autobiografico di valore (Un saluto attraverso le stelle), sono una sintesi parziale di un percorso umano e intellettuale ricchissimo di incontri e di occasioni. L’ho conosciuta nella grande sala della casa milanese di Lia Sacerdote dove, attorno a Goffredo Fofi, si tenevano le riunioni di redazione di ‘Linea d’Ombra’. Sono passati venticinque anni, e già allora era la veterana del gruppo, ma è una definizione antitetica alla sua personalità: la sua risata argentina e l’inesauribile curiosità verso il prossimo l’hanno reso una donna che ha vissuto, dalla parte delle donne, sempre nel proprio tempo.

 

Ora esce, dopo un lungo periodo di silenzio, Stella nera. Frammenti di una vita comune (Il Saggiatore, 15 euro), dedicato al compagno di una vita di cui si tace il nome (i nomi sono sacri) mancato nel 2011. Il primo incontro: “Chi sei? Sono un esule istriano che presto emigrerà in Cile”. La cornice è una festa. È il primo dopoguerra. Segue un invito a ballare. “Grande lavoro, e rapido, l’innamorarsi. Paura di sbagliare. Paura del poco. Paura del troppo”. È un libro di difficile definizione, certo memoir, ma anche ‘libro segreto’, taccuino riempito di pensieri, come nuvole che passano, fermati sulla carta. La prima parte è dedicata ai mesi della malattia e ai giorni del trapasso. “Ogni lutto ha la sua storia. Per me il lutto fu simile alla nostalgia dell’esule che sa di non poter più ritornare nella sua terra. Un marchio “indelebile”. Come si dialoga con chi non c’è più? Aldo Capitini parla di compresenza dei morti e dei viventi, la Bulgheroni cerca di resuscitare i ricordi: le fotografie, le frasi, le espressioni caratteristiche, ma è difficile. Come è nato il loro patto d’amore? “La nostra fu una storia di separazioni, di riunioni, di apparente normalità e di eccezionalità”. Un matrimonio senza figli è più difficile da rinnovare: “Dicevo: “Mi sto rinnamorando di te”. Fu questo il segreto? “Ma allora non eri più innamorata?” chiedevi tu. “Sì, ma non me ne accorgevo”. Si dice che il matrimonio sia una combinazione di amore e abitudine, ma la scrittrice aggiunge che deve esserci qualcosa di meno ovvio: “Il matrimonio è, per me, anche per due soli parlanti, un’isola linguistica”. Tener vivo il dialogo con chi non c’è più è un’impresa difficile, a volte disperata. In alcune frasi si sente l’eco della Dickinson: “Scriverò fino a che mi risponderai. Lascerò che le mie parole vaghino come vento fino a trovarti. Prometto di essere, di non lasciarmi esistere, di esserti”. La parola poetica e il ragionamento si intrecciano continuamente: “Non si riesce a elaborare il lutto (...) Non ho l’arte di elaborare il lutto (...) Forse solo scrivendone”.

 

 

L’educazione sentimentale della generazione della Bulgheroni è passata quasi sempre attraverso Montale, di cui pure fu amica, eppure leggendo viene in mente il Notturno di D’Annunzio e la sua capacità di dilatare sentimenti e sensazioni in poche frasi. I ricordi un po’ alla volta riaffiorano: i viaggi insieme, la comunione con la natura, momenti di vita famigliare. Una sensazione forse comune per chi ha vissuto lutti profondi è l’instabilità che si protrae nel tempo. “A volte mi pare di aver sognato la vita con te e che il “dopo” sia stato un duro risvegliarsi alla realtà. A volte avviene l’opposto: realtà era la vita con te, e vano sogno, o incubo, i miei giorni senza di te. Sfioro la follia. E infine intuisco: sei tu che, ritornando con l’energia dei sogni dal tuo chissà dove, susciti in me questa confusione”. La parola “morte” ha molte perifrasi, l’autrice che non aveva l’abitudine di usarle, ora si deve arrendere e utilizza il termine “partenza”. Così come in chi è vissuto fuori dal conforto della fede “si può accendere, di fronte all’inesorabile, il fulgore di un dubbio”. Un po’ alla volta si compone il ritratto della persona amata nelle diverse stagioni: in guerra, negli anni del lavoro, nell’autunno della vita. “Entro ed esco da questo libro come se fosse una passeggiata clandestina. Vorrei che fosse abitato solo da te”.

 

Ma non può essere sempre così, perché il libro è il racconto di una relazione: fisica, intellettuale, complice ma mai sovrapposta. “Eravamo una coppia perfetta, come sembra trasparire, a volte, dalle mie parole? No, c’era in noi, forse, la vocazione a esserlo, ma eravamo ben lontani dalla perfezione. Eravamo, piuttosto, una coppia rivoluzionaria, con tutte le difficoltà che questo comporta”. Cosa si intende per “rivoluzionaria”? Se capisco bene, per chi si scelse negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, quando c’era l’ambizione di costruire un mondo nuovo, la rivoluzione era vivere nella coppia senza ruoli definiti in partenza. Una rivoluzione quotidiana attraverso l’amore, l’idem sentire, ridendo delle stesse cose, lontana dal modello dei genitori. Il libro non ha un andamento progressivo, è un soliloquio che si compone un po’ per volta, difficilissimo da scrivere: “Quando potrò e saprò, scriverò. Ora sono sola, in bilico tra passato e presente, nel non tempo della vertigine”.

 

Il futuro è la speranza di un nuovo incontro, nella consapevolezza della sua impossibilità. E allora il libro “se è un libro e non un tentativo di incantesimo – si assesterebbe in un’unità con un inizio e un finale, senza cuciture visibili. Ma è la tua voce che io cerco, la tua voce incessante che voglio che mi parli, è la sua eco che mi interrompe e mi trascina da una pagina all’altra verso il punto irraggiungibile da dove proviene. E io la inseguo”. Come una Euridice al rovescio, si addentra nell’Ade. Chi legge segue, a volte si ferma, riflette, medita sui propri lutti.

Poi prosegue nella lettura di un libro breve, sapienziale, sacro. “Vorrei poter dire con Emily Dickinson: «Sono più sola senza la mia solitudine». Ho cercato di imparare, da quando tu non sei più qui, a farmi compagnia; ma non ci sono riuscita (...) solo la scrittura è certa, solo i suoi incanti mi trattengono qui”. La scrittura è un luogo terzo: “scrivere – soprattutto scrivere a mano – è un inserirsi nello spazio, al confine tra materiale e immateriale”. Scrivere diventa dunque la sola possibilità di dialogo, il libro si compone con lo scopo di costruire “una dimora in cui tu potessi abitare”.

Il paradosso di un libro così privato è che andrebbe letto ad alta voce, per poi tacere e ascoltare il suono delle parole disperdersi nel silenzio.

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