Diario della crisi infinita

6 Luglio 2015

Parafrasando liberamente il disinvolto e cinico Gordon Gekko del vecchio film Wall Street di Oliver Stone, “al massimo settantacinque persone in tutto il mondo” riescono a comprendere che cosa stia capitando davvero nel sistema economico globale. Nella grande con-fusione tra capitale e stato, cioè di fronte al dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e perfino sulle ragioni dell’etica, si genera un senso – puramente emotivo e intuitivo – di vertigine e di assedio. In un certo senso, la violenza strutturale dei meccanismi dell’economia contemporanea sfugge alle categorie della politica ma non a quelle del corpo-mente. Così, seguendo quella che si potrebbe definire un’ispirazione foucaultiana, il potere che ci mette in difficoltà con la crisi, la precarietà, il debito, noi lo sentiamo prima di tutto con i nostri corpi, attraverso i riverberi che si riflettono sulle nostre vite.

 

Il sentimento prevalente del nostro tempo è, dunque, la percezione, indistinta e soffocante, di un “divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità neoliberista”, per usare un’efficace immagine di Dardot e Laval tratta dal loro ultimo libro Del comune o della rivoluzione del XXI secolo (DeriveApprodi 2015), ovvero “la sensazione che non si possa più uscire da tale cosmo”. I discorsi “morali” che, a volte, vediamo dipanarsi a partire dalla descrizione delle nuove forme dell’organizzazione economica mondiale connessa alla crisi permanente, non riescono a rappresentare una difesa utile. Da questo punto di vista, non ha grande senso il rimpianto per l’età dell’oro del fabbrichismo, dell’economia “reale”, fondata su beni materiali e tangibili e contrapposta a una presunta, imprendibile e forviante, produzione “immateriale” contemporanea, che tutto avrebbe scombinato e corrotto. Tracciare una linea netta è pressoché impossibile, dovendo, tuttavia, tenere presente l’aspetto nullificante della convenzione finanziaria che sta alla base dell’intero processo: “Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-Impoverimento sociale-Più denaro [...]. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla” (Franco Berardi, prefazione a Diario della crisi infinita di Christian Marazzi, ombre corte).

 

Gli abissi dei paradigmi imposti dall’economia finanziaria dell’oggi vanno allora scandagliati fino in fondo, leggendo soprattutto le ripercussioni che finiscono per avere sugli esseri umani nel loro essere materia prima e attori, a un tempo, dell’intero processo. Questo esercizio non può evitare di nominare e di misurarsi con sintomi ed effetti: la depressione, la paura, l’ignoranza, la guerra, la povertà, l’individualismo, la sopraffazione. Bisogna scavare profondamente per riuscire ad avere una visione: nelle ombre si nascondono sempre anche luci e finestre che possono aiutare la comunità umana a confrontarsi con il senso del suo esistere. Judith Butler direbbe che si tratta di partire dalla “malinconia della sfera pubblica”, che impone l'assoggettamento degli individui alle necessità del potere, per arrivare ad analizzare la natura del capitalismo contemporaneo che poggia sulla espansione progressiva della sfera dell’esclusione e dell’impoverimento.

 

Christian Marazzi nell’introduzione al suo ultimo libro Diario della crisi infinita (ombre corte) ricorda la scritta di un muro di Atene: “Non salvateci più”. La sofferenza sociale si materializza come incorporazione individuale e collettiva di più ampi processi storici e socio-economici. La critica politica, a partire dalla consapevolezza di tale rapporto, è premessa a ogni azione trasformativa. La recente conclusione della tesa trattativa tra il governo greco di Alexis Tzipras e le istituzioni europee e internazionali sul tema del debito è esempio impressionante della contraddizione tra politica ed economia ai tempi della plutocrazia finanziaria. La partita si gioca tra le resistenze insopprimibili della volontà di vita della società umana e le pulsioni di morte della frenesia dell’accumulazione capitalistica, ottusamente e tragicamente prigioniera del proprio stesso percorso autodistruttivo. Se stiamo al tema, di stretta attualità, in questo testo di Marazzi si trovano già preconizzate le conclusioni della negoziazione tra Troika e Grecia:

 

“La riduzione del costo del lavoro e del reddito sociale non hanno per nulla contribuito all’uscita dalla crisi, mentre hanno aumentato i debiti pubblici. Le politiche di austerità hanno permesso di instaurare un sistema di aiuti e salvataggio con la finalità di soccorre le banche, consentendo loro di rientrare da posizioni fortemente esposte sui debiti pubblici dei paesi periferici. Il problema si è adesso spostato dalle banche private agli stati. Lo si è visto con la Grecia: il tentativo di contrastare le politiche di austerità attraverso una riduzione del debito è stato neutralizzato dalla reazione alle proposte greche di paesi come l’Italia, la Francia, la Spagna. Una politica di riduzione del debito pubblico greco, contratto con quegli stessi stati, non innesca alcun meccanismo di solidarietà. È questo il dato che ha paralizzato la negoziazione tra Grecia e le istituzioni della Troika”.

 

 

Differenze, riproduzione sociale, crisi del valore

 

Tutto ciò per dire che Christian Marazzi è un economista ma è soprattutto un filosofo e un visionario. Ha insegnato alla State University di New York e all’Università di Losanna e Ginevra, attualmente tiene corsi alla Université des sciences appliquées della Svizzera italiana. Nel Diario della crisi infinita si trovano raccolti suoi interventi, interviste, recensioni del periodo compreso tra il 2011 e i primi mesi del 2015. Ogni singolo testo rappresenta un tassello che compone il mosaico dello sviluppo globale e progressivo della crisi che, a partire dall’esordio della bolla dei subprime del 2007, con lo scorrere degli anni si approfondisce e si dilata, assumendo carattere “secolare”, vista la durata, e “strutturale”, poiché riguarda la natura stessa del capitalismo biocognitivo contemporaneo: la crisi è l’espressione del capitalismo biocognitivo contemporaneo, così come la fabbrica è stata quello del capitalismo fordista.

 

Questo ha dato forma a “una nuova realtà”, scrive Marazzi, “uno stato normale di bassa crescita potenziale, di cronica instabilità”. Ma soprattutto la crisi ha intaccato alla radice la nozione stessa di capitalismo: “Il capitalismo come rapporto sociale si è spezzato”, si spiega nel libro, “la creazione di ricchezza è ormai incapace di generare crescita e benessere mentre produce diseguaglianze vertiginose e sofferenza diffusa. Distruggendo la classe operaia fordista, il capitale ha distrutto al contempo quella dinamica che gli permetteva di crescere. Non c’è crollo, ma crisi come forma permanente di accumulazione e di comando capitalistico”.

                                                                                                                 

Non è uno sviluppo lineare e uniforme, quello della crisi infinita, ma un’articolazione basata sulla differenza e sulle differenze, di territorio e di contesto, di condizioni, di genere, di migrazione, di eredità coloniale. Come Marazzi, del resto, ci ha insegnato qualche anno fa, nel suo prezioso testo Il posto dei calzini. La svolta linguistica nell’economia e i suoi effetti sulla politica (Bollati Boringhieri 1999), a partire dal paradigma prototipico del lavoro domestico e di cura, la comunicazione e il linguaggio assumono il carattere proprio, specifico, dell’economia contemporanea, al punto che è possibile parlare di una “svolta linguistica” all’interno della produzione. Questo ha voluto dire tenere esplicitamente conto anche del ruolo delle differenze e del ruolo, in senso più allargato, della riproduzione: il linguaggio ha infatti direttamente a che vedere con la capacità di relazione, i legami sociali, le normatività sociali, gli immaginari, i meccanismi emotivi e affettivi, il sapere di ciascuno e di ciascuna di noi. Marazzi ha sempre dichiarato di avere un debito con la teoria femminista e a nostra volta dobbiamo riconoscere il grande stimolo che i suoi lavori hanno rappresentato per tante, tra noi.

 

Negli scritti radunati in questo nuovo libro, diversi tra loro, c’è un filo conduttore che emerge chiaro nella lettura: questa crisi, per la prima volta nella storia, non è una crisi di sovrapproduzione né di crescita né di trasformazione tecnologica; non c’è interesse per la domanda, l’incremento attuale dei mercati finanziari, forse diversamente dagli esordi, si autoalimenta, può avvenire anche in presenza di profitti negativi. Crisi infinita, allora, proprio perché ingloba e assoggetta le infinite accumulazioni algoritmiche della produttività e della cooperazione sociale, cioè della ri-produzione sociale che è appunto produzione di linguaggio, relazioni, affetti, reti; crisi di misura del valore, o meglio crisi della misura oggettiva del valore (il che non significa l’abbandono della teoria del valore-lavoro); crisi delle forme di creazione del valore, dunque, in quanto crisi-cambiamento dei processi di produzione in termini “classici”, con precarizzazione, esternalizzazione, outsourcing, crowdsourcing (Moneta e capitale finanziario).

 

Questo introduce, di converso, l’idea di una necessaria modificazione di interpretazione, seguendo la quale la crisi della costruzione della misura può non essere spiegata solo in forma negativa, vale a dire solo nelle sue ricadute in termini di povertà e di debito ma, viceversa, come introduzione possibile – “anzi, necessaria”, dice l’autore – di una misura soggettiva del valore che “rimanda alla soggettività dei movimenti di lotta e alle forme di lotta e di vita che la sostanziano”. Si tratterebbe, insomma, di pensare una nuova “misura” generata dall’interno, da ciò che vogliamo e da ciò che sappiamo, e cioè dalla autonomia e dalla resistenza, in alternativa alla “misura” della violenza unilateralmente imposta dai mercati finanziari.

 

 

Il tono emotivo della resistenza

 

I mercati finanziari godono delle spogliazioni del welfare e dei servizi essenziali per l’esistenza (sanità, scuola, pensioni) operate da tutti gli stati sulla base del comando di un’autocrazia tanto metafisica quanto spietata: le public utilities sono indubbiamente uno degli obiettivi dei processi di privatizzazione in atto, che garantiscono entrate continue a chi ne acquista il controllo, cioè la possibilità di sfruttarle. Anche in questo senso, ancora più immediato, traducono al loro stesso interno la vita, le possibilità della sopravvivenza di tutte e tutti noi.

 

Ciò che muove i capitali, il sentiment dei mercati finanziari, è oggi totalmente autoreferenziale; è privo di un vero rapporto con il reale; è basato su convenzioni dominanti e sulla logica del contagio, “ossia sul mimetismo che travolge qualsivoglia aspettativa razionale” nella “razionalità della irrazionalità dei mercati”, alimentata da un deficit di informazioni. Mentre, viceversa, nei movimenti insurrezionali, di resistenza, di opposizione, esiste sempre un referente materiale ed esso è “il corpo sociale”. Così, se i mercati finanziari si basano sull’imitazione dell’Altro, su un astratto mimetismo che travolge ogni aspettativa razionale, dal lato opposto “tutte le forme di resistenza muovono dall’imitazione di se stessi, della propria singolarità. Una singolarità piena di desiderio di libertà e di autodeterminazione. Di voglia di vivere” (Maghreb e mercati finanziari).

 

Allora, anche spaziando tra i nuovi dispositivi assoggettanti approntati dal sistema, dalla genealogia della morale del debito e della colpa (con Nietzsche) al free work, che si espande durante la crisi infinita per fare fronte alle difficoltà di occupazione, all’incremento dei lavori inutili – attività amministrative e di controllo sui lavori altrui – andranno sempre individuate le “tonalità emotive” (la passione, il coinvolgimento, le reti sociali, gli spessori affettivi) che comunque muovono i soggetti e di conseguenza la necessità di “dare valore pubblico e riconoscimento a situazioni altrimenti destinate all’invisibilità sociale” (Free work, ovvero lavoro non pagato).

 

Da questo punto di vista, secondo Marazzi, costruire oggi modelli alternativi, ovvero “un progetto di insubordinazione, di mobilitazione che riguardi l’uomo indebitato, l’uomo sicurizzato, l’uomo mediatizzato, l’uomo rappresentato” significa anche pensare la possibile costruzione di una “moneta del comune”, ovvero uno strumento finanziario differente e autodeterminato. Nel definire la “moneta del comune” va tenuto presente il processo generato dalla riproduzione sociale, qui intesa come centro della valorizzazione contemporanea. Ma, ancor più praticamente, è utile guardare ai “processi di espropriazione, di privatizzazione di beni che sono essenziali”. Proprio l’esempio della Grecia può rendere più vicina tale prospettiva.

 

Marazzi infatti specifica: “La moneta del comune è un programma politico che si pone in alternativa alle politiche monetarie” con la “distribuzione della liquidità direttamente ai cittadini europei, cioè fuori dai circuiti finanziari, fuori dalla trappola del debito pubblico e privato. Non è escluso che il primo passo nella direzione di questa moneta sia fatto proprio in Grecia, una Grecia che ha bisogno di un’Europa che rispetti la sua autodeterminazione e riconosca l’urgenza di andare oltre la miseria dell’austerità” (La moneta del comune).

 

Per rompere la cappa dell’obbligo, fondato sulla nostra incolpevole incoscienza, al consenso verso il rigore del deficit spending che è parte assoluta del processo di governo del presente, va approfondita la riflessione sulle cause, sugli strumenti e sulle risorse necessarie per superare non solo la presente crisi infinita, ma l'intera impostazione economica in cui essa è maturata. Puntando anche su invenzioni, forse ancora parziali ma importanti, per introdurre l’idea di un possibile cambio di rotta, l’apertura di un’epoca nuova, la perlustrazione di nuovi territori ecologicamente abitabili dai nostri corpi, oltre le lande sterili e mortifere del capitalismo.

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