Autobiografia dei luoghi / Andrea Bajani, Il libro delle case

13 Marzo 2021

L’ultimo libro di Andrea Bajani appartiene a una speciale categoria di prodotti letterari, efficacemente esemplificata da Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia (1993): le opere fondate su un’idea originale, non ripetibile, sviluppata in maniera persuasiva e a tratti perfino brillante. L’idea di Bajani consiste nel raccontare una storia descrivendo i luoghi in cui si è svolta; e poiché si tratta di una vicenda contemporanea che riguarda esponenti del ceto medio, i luoghi si identificano, salvo rare eccezioni, con interni. Come annunciato dal titolo, Il libro delle case (Feltrinelli, pp. 252, € 17) ha dunque la forma di una serie di quadri domestici, 78 in tutto. Le abitazioni di cui si parla sono una quarantina, perché alcune, le principali (Casa del sottosuolo, Casa sotto la montagna, Casa di Famiglia, Casa di Parenti) tornano a più riprese, mentre altre (Casa della felicità, Casa delle parole, Casa di Nonno mai esistito, Casa del gasometro) hanno un’occorrenza sola. Per la verità, non sempre si tratta di «case» in senso stretto: Casa della voce è una cabina telefonica, Casa rossa con le ruote è la R4 dove è stato trovato il corpo di Moro, Casa di Tartaruga è il carapace, o meglio, l’esoscheletro di un mite animale da compagnia che nel libro assurge a un ruolo quasi totemico (felice la scelta di metterlo nell’illustrazione di copertina). Alcune varianti radicali si inoltrano poi impavidamente nel territori della metafora: la Casa del risparmio è un conto corrente bancario, la Casa del persempre una fede nuziale, la Casa dei ricordi fuorusciti qualcosa fra la digressione onirica e la meta-narrazione. 

 

Il prevalere dello spazio sul tempo, o almeno il proposito di bilanciare le due dimensioni, è rafforzato dall’ordinamento dei capitoli, che scompiglia la cronologia, secondo una prassi diffusa (si pensi al fortunato Colibrì di Sandro Veronesi) che nell’immaginario contemporaneo ha il suo archetipo nel film più famoso di Quentin Tarantino, Pulp Fiction (1994). Di conseguenza, la lettura tende a svolgersi come la ricomposizione graduale di un puzzle. Ciò che questo artificio compositivo sembra suggerire è che discontinuità e disgregazione siano gli stati in cui la realtà è ormai usa presentarsi: organicità e coerenza sono un orizzonte, o un obiettivo, non più un dato o una direzione (ammesso che tale sia mai apparsa). Rilievo più che altro simbolico hanno invece le immagini intercalate, a tutta pagina, riproducenti mappe catastali: a conferma di un altro aspetto peculiare del gusto di questi anni, la nuova (o rinnovata) sensibilità per il visivo. 

 

Le implicazioni stranianti delle caratteristiche ricordate fin qui sono consolidate da un’ulteriore procedura, che riguarda la denominazione dei personaggi. Il protagonista è chiamato, alla terza persona, «Io»; e, analogamente, tutte le figure del romanzo sono designate con un nome comune o con un giro di parole promosso a nome proprio. Accanto a Io abbiamo così Padre, Madre, Nonna, Sorella, Tartaruga, Parenti Vecchi, Parenti Giovani, Donna con la fede, Moglie, Bambina, e così via. La storia privata s’intreccia con quella pubblica nel caso di due vistose antonomasie: Prigioniero (Aldo Moro) e Poeta (Pasolini). 

 

La vita di Io, di per sé, non ha nulla di straordinario: raccontandola in forma tradizionale, il rischio della noia e del déjà vu (o déjà lu) sarebbe dietro ogni angolo. Come evitarlo? Pontiggia avrebbe puntato sulla condensazione, sull’esasperazione della banalità e sulla messa a fuoco di pochi decisivi snodi, in un regime di epigrammatica ironia. Bajani sceglie invece di mettere la sordina alla narrazione, atteggiandosi a descrittore compassato, se non impassibile, intento a visualizzare gli ambienti dove i personaggi conducono la propria esistenza. Ecco dunque dimensioni e disposizione dei locali, mobilio, oggetti, luci, suppellettili, inquadrati a volte con un distacco algido, da école du regard. Ma attraverso l’apparenza oggettiva trapelano anche, inevitabilmente, i gesti di chi quei luoghi abita, o di chi a qualunque titolo vi si trova: posture, azioni, stati d’animo, ora abituali,ora nuovi o unici. Ed è così che dalla descrizione si dispiega gradualmente il racconto.

 

Su un punto vorrei insistere: l’idea in sé era ottima, ma da sola non sarebbe bastata a fare un buon libro. Anzi: parlando in generale, quanto più una trovata è insolita e curiosa, maggiore è il rischio che lo scrittore se ne invaghisca e la applichi in maniera meccanica. Bajani non è caduto nel tranello: della sua invenzione di partenza ha saputo servirsi in maniera avveduta, modulandone le implicazioni, variando angolazioni e approcci. Prima di proseguire, un paio di informazioni indispensabili sulla trama. Il protagonista, romano, classe 1975, proviene da una famiglia che intrattiene rapporti poco sereni con il parentado; in particolare, alla figura di Padre si associano molti conflitti, presumibilmente non estranei alla decisione, a un certo punto, di trasferirsi in un’appartata località subalpina. Io compie gli studi a Torino, ha una storia con una donna più matura, poi sposa una coetanea che ha una figlia. L’unione però fallisce, e lui decide di tornare a Roma; negli ultimi capitoli è evocata la pandemia di Covid. 

Si diceva della varietà di soluzioni narrative. Ecco un brano che si colloca nel 1985, quasi una ripresa cinematografica in soggettiva: «La Casa di Parenti è soprattutto un corridoio, al fondo del quale Parenti stanno seduti tutto il giorno. Entrando li si vede rimpiccioliti dalla prospettiva.

 

Andrea Bajani.


Qualche volta uno di Parenti si stacca dal fondale e va incontro a chi è arrivato; cresce di dimensione man mano che percorre il corridoio e si avvicina. Quando arriva alla porta è in scala 1:1». Più tradizionalmente, in Casa dell’adulterio, 1994 Io guarda dall’esterno, interpretando messaggi convenzionali affidati a una finestra:  «La lingua che parla la finestra, quando si rivolge a lui, è fatta di tessuti e geometria. È un alfabeto ortogonale, prevede movimenti in orizzontale e in verticale. Dall’alto verso il basso attraverso l’avvolgibile verde in PVC. Da sinistra verso destra con la tenda in tulle bianco. // Le parole che Donna con la fede pronuncia, e che solo Io può decifrare, sono una combinazione cifrata tra l’asse delle ascisse e quello delle ordinate. // Il verticale è per le comunicazioni pratiche, l’orizzontale è l’emozione. // Asse delle ordinate: avvolgibile a metà, “Marito in casa”; avvolgibile a un terzo, “Marito in procinto di uscire”; avvolgibile a fine corsa, “Appena uscito dalla porta”. […] Asse delle ascisse: tenda chiusa, “Ti amo ma siamo seduti in questa stanza”; tenda scostata di una decina di centimetri, “Ti amo e tra poco mi vedrai comparire, non distrarti”; tenda a metà, “Ti amo, sto cercando di addormentare Gemelli”». 

 

I brani più efficaci sono quelli in cui il procedere della vicenda è implicato direttamente dalla descrizione. Ad esempio, la rottura con Moglie è così annunciata in Casa signorile di Famiglia, 2018: «Aperta la porta, quello che Io vede sono soprattutto le pareti. // Svuotare una casa è restituirle i muri, riconsegnare all’alloggio lo scheletro della muratura, laddove abitare è invece negare la costruzione, trasformarla in spazio (le immagini appese dicono “Guarda noi, non guardare quello che sta sotto”). // Lo svuotamento di una casa è il momento di protagonismo per i chiodi, concepiti per vivere nascosti, e che compaiono alla luce solo in questi casi. Fuoriescono dalle pareti come antenne di lumache, si protendono per vedere: sono gli occhi del mattone, vedono che non è rimasto più nessuno». Nessuna sorpresa che in un romanzo così concepito, con un io narrante che a volte sembra quasi redigere un verbale, non ci sia posto per effusioni di sentimenti, scene madri, appelli al lettore. Sintomatiche alcune clausole di capitolo: «Non si dica altro, sarebbe retorica patetica o colore». «Non si dica altro. Si lasci traccia scritta che tutto questo è stato». «Dire di più sarebbe soltanto non resistere al pettegolezzo».   

 

Al di là della vita del protagonista, molti aspetti della quale rimangono nell’ombra – che cosa è successo fra i nonni paterni? qual è la storia politica del padre? perché la famiglia ha dovuto nascondersi? – Il libro delle case è soprattutto una riflessione figurata sul rapporto tra le persone e gli spazi dove vivono. Il dato più interessante è il carattere non univoco della relazione. Diverse sono infatti le impronte che gli oggetti (largamente intesi) e i soggetti umani lasciano gli uni sugli altri, e diversamente rappresentabili. Da un lato, l’idea che negli ambienti rimanga misteriosamente traccia (sulle superfici, sulle pareti) degli eventi che vi si sono verificati: non nuova, ma Bajani sa riattivarla con discrezione. Qui si parla di un ascensore (Casa signorile di Famiglia, 2017): «È un fatto […] che quell’abitacolo, che ora scivola frenato in verticale, contiene – espresso in fiato, in molecole, in silenzio – ogni dettaglio di ciò che ha portato alla fine di un amore. Negli anni ha visto Io salire solo, insieme a Moglie o inscatolato in Famiglia.

 

Li ha visti conversare in mezzo alle borse della spesa, appoggiarsi sfiniti contro il vetro, rilasciare rancori a denti stretti o prendersi le mani per istinto. Ha visto Moglie passare le dita tra i capelli di Io dopo un temporale, Bambina sedersi sopra il pavimento, tutti e tre presentarsi ad altri, senza mani per limiti di spazio. Ha visto Io e Bambina parlarsi tanto all’inizio, poi dirsi sempre meno […] Una sera tardi ha visto Io  con un cuscino scivolare verso il basso e una porta che gli sbatteva dietro». Dall’altro lato, i personaggi stessi mutano insensibilmente forma per il fatto di occupare certi spazi e non altri. Ogni io (con la minuscola) tende per forza di abitudine a modellarsi sugli ambienti: oltre i confini del corpo, e al di qua dell’estraneo mondo lontano, c’è quella espansione del soggetto che è costituita dalle architetture entro cui soggiorna, dai manufatti che maneggia e manipola, dagli arredi che lo completano. 

Insomma, le case di Bajani non sono mai fredde planimetrie o inerti inventari di fondali, ma luoghi vissuti. La pittura ci insegna che una storia, ad esempio la vita di un santo, può essere raccontata da una sequenza di tavole: ebbene, Il libro delle case assomiglia a una sequenza di quel tipo particolare di dipinti che l’italiano designa (con espressione che a me è sempre parsa infelicissima) «natura morta», e che in inglese molto meglio si dice still life. Vita come repertorio di inquadrature, sequela di fermo immagine: ma vita, tuttavia. Life still. Life, though. E ciò a malgrado di un finale che mette in scena, nell’ultima Casa dei ricordi fuorusciti, una desolata dispersione dei ricordi. Del resto, forse è proprio ciò di cui Io ha bisogno per sopravvivere.       

 

Andrea Bajani, Il libro delle case, Feltrinelli, pp. 252, € 17.

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