De Chirico a Palazzo Reale / Joker e il Centauro morente

3 Novembre 2019

Mia nonna materna viveva in una casetta costruita al margine di un fosso. In casa non c’era elettricità. All’imbrunire accendeva una lampada a petrolio che gettava ombre vive e tremolanti. Fuori si aggirava “el Salvaneo” e dei demonietti in forma di scintille fuggivano dal camino, spaventati dai colpi dell’attizzatoio. Era tutto ciò che restava di una mitologia antica e pagana andata in rovina: una mitologia minore e familiare che non superava il confine dei campi coltivati e alla sera ravvivava le fiamme domestiche proiettando un misterioso teatro d’ombre. 

 

 

Le ombre che Giorgio de Chirico dipinge nelle sue opere sono altrettanto misteriose. Alla mitologia personale che l’artista elabora rivisitando il mito in chiave autobiografica, Luca Massimo Barbero dedica il saggio La nascita di una mitologia familiare, pubblicato nel catalogo della mostra De Chirico, in corso a Palazzo Reale (fino al 19 gennaio 2020), di cui Barbero è anche il curatore. 

“Bisogna scoprire il dèmone in ogni cosa” scrive de Chirico in Zeusi l’esploratore, un testo in prosa pubblicato nel 1918. I suoi dèmoni meridiani alloggiano in una sconcertante geometria delle ombre. L’ombra e la prospettiva sono i due principali codici visivi usati per la rappresentazione grafica e pittorica dello spazio e del volume nella nostra cultura.

“Il raggio visivo è simile al raggio ombroso” scrive Leonardo da Vinci, intuendo che le ombre possono essere trattate come la prospettiva: basta mettere al posto dell’occhio una sorgente luminosa. I raggi luminosi che s’irradiano dalla pupilla verso gli oggetti della percezione formano la piramide visiva della prospettiva descritta da Leon Battista Alberti nel De pictura, una piramide che può essere rovesciata trasformando i raggi luminosi in “razzi ombrosi”. L’intuizione di Leonardo resta tale. Bisogna attendere il 1636, anno della pubblicazione del Metodo universale di mettere gli oggetti in prospettiva, scritto da Girard Desargues, per avere una teoria della relazione fra prospettiva e scienza della proiezione delle ombre. Riferendosi alla teoria di Desargues, Gottfried Wilhelm von Leibniz scrive che “la dottrina delle ombre non è che una prospettiva rovesciata e risulta immediatamente da questa se si mette la sorgente di luce al posto dell’occhio” (Roberto Casati, La scoperta dell’ombra. Laterza, Bari 2008, p. 231). Difficile dire quando l’ombra si sia insinuata per la prima volta in questo irradiare visivo e luminoso, le cui radici risalgono a un mito della visione per il quale la luce e lo sguardo corrono paralleli fra loro e perpendicolari alla superficie di rappresentazione. 

 

 

In Monologo sulle stelle (Bollati Boringhieri, Torino 1994), Ruggero Pierantoni richiama l’attenzione sull’ombra portata della ruota che si proietta sulla fiancata del carro nel mosaico la Battaglia di Isso tra Alessandro e Dario III, probabilmente ispirato a un celebre dipinto di Filosseno, dalla quale si potrebbe dedurre che la scena sia illuminata da una sorgente luminosa posta dalla parte del pittore (pp.150-151). Se non fosse così non potremmo vedere riflesso nello scudo il volto del soldato morente che ci dà le spalle, così come non potremmo vedere sul viso di Alessandro i raggi di luce riflettersi lungo la stessa traiettoria di quelli incidenti. La luce emessa dallo sguardo di Filosseno proietta l’ombra della ruota e al tempo stesso si riflette sulla guancia e la tempia di Alessandro tornando indietro, all’occhio che la emette illuminando la scena. Lo sguardo che illumina le cose proiettando la loro ombra è un formidabile modello della conoscenza, intimamente legato al mito dell’irradiare visivo e luminoso. In Le origini della geometria, Michel Serres sostiene che per Talete le linee di mira sono anche raggi di luce che proiettano l’ombra ai suoi piedi (Feltrinelli, Milano 1994, p. 163), grazie alla quale è possibile calcolare l’altezza della piramide attraverso una proporzione.

Nonostante i numerosi studi condotti sull’argomento, non possiamo dire con certezza quando, per la prima volta, il raggio visivo e luminoso sia divenuto anche “ombroso”, ma sicuramente possiamo dire che questo ha contribuito a formare uno sguardo, un modo di vedere e pensare riferito a un mito della visione andato in rovina: la sorgente di luce non corrisponde più alla posizione dell’occhio. Qualcosa si è rotto. 

 

 

Nell’opera La sorpresa, dipinta da de Chirico nel 1913, la prospettiva del monumento è diversa da quella dell’ambiente urbano nel quale si trova collocato, nonostante le sue ombre proprie, portate e autoportate siano coerenti con quelle del cannone, dei due uomini e del muro all’orizzonte. 

 

 

In Consolazione metafisica, un disegno a matita su carta del 1918, la geometria delle prospettive diverge da quella delle ombre e lo spazio vacilla paurosamente. Mi aggiro per le sale di Palazzo Reale dedicate alle opere del periodo metafisico, affascinato dalla sapienza di de Chirico, che attraverso la pratica delle arti visive ha colto la catastrofe di un modello visivo della conoscenza. L’artista scava nei miti tramandati dalle arti visive, non in quelli tramandati dalla letteratura, con la quale la sua pittura pur ha un rapporto.

 

 

Dalla metà degli anni Venti, i manichini dipinti da de Chirico diventano archeologi. Ciechi, come il poeta Omero, abbracciano le rovine del mondo antico trattenendole in grembo: porzioni di portici, frammenti di colonne, capitelli, costruzioni e templi. Sono gli anni in cui il pittore sembra sfidare i poeti e i letterati surrealisti nel loro stesso campo, osserva Andrea Cortellessa nell’introduzione a Gorgio de Chirico. La casa del poeta (La nave di Teseo, Milano 2019), una raccolta di testi poetici e letterari scritti dall’artista fra il 1911 e il 1942. La raccolta si prefigge di dimostrare che l’opera poetica e quella pittorica hanno in comune lo stesso “meccanismo di pensiero”. In questo è possibile scorgere delle analogie con l’opera grafica di Saul Steinberg, per il quale il disegno è un modo di ragionare su carta: “nel mio caso il disegno come esperienza e occupazione letteraria mi libera dal bisogno di parlare  e di scrivere” (dall’intervista RAI trasmessa nel 1967 nel corso del programma televisivo Incontro con Saul Steinberg). Nei disegni di Steinberg le ombre che si riflettono sono enigmatiche quanto quelle dipinte da de Chirico. 

 

 

L’opera visiva di de Chirico talvolta interseca quella letteraria con scambi fra disegno e scrittura. Su un quaderno del 1929 circa l’artista affastella una quantità di testi “accavallandone versioni alternative, false partenze e improvvisi bagliori” (p. 67) inframmezzati da disegni stenografici che hanno lo stesso andamento della scrittura corsiva. Scrive anche Hebdòmeros, un romanzo con una struttura narrativa caratterizzata da associazioni di tipo visivo e fonetico. Privo di logica, come dichiara lo stesso artista in un’intervista televisiva del 1971, il romanzo mette in scena il mistero, l’enigma, forse lo stesso che si cela nelle ombre dipinte nella “fatale costruzione geometrica” dello spazio del periodo metafisico. In questa fase della sua ricerca artistica la proiezione delle ombre divorzia dalla prospettiva, il raggio di luce dal raggio visivo. Indipendenti dalla direzione dello sguardo prospettico, le ombre diventano un mistero, un enigma irrisolvibile, non più un complemento del logos della proporzione, come lo erano quelle di Talete. I problemi pittorici della sua arte, per la soluzione dei quali chiede a Dio assistenza con la Preghiera mattutina del perfetto pittore, un componimento pubblicato nel 1942, sono anche problemi filosofici, ma il rigore dell’impostazione metafisica si stempera nelle opere del periodo successivo. 

 

 

La mostra allestita a Palazzo Reale valica il riferimento alla Metafisica per spingersi verso la “sontuosità” pittorica degli anni venti e trenta e l’“ironia neobarocca dei suoi autoritratti”, con le quali l’artista lascia alle spalle la rigorosa impostazione delle opere precedenti, che restano però un punto fermo. La “rivelazione” visiva che de Chirico ebbe un pomeriggio dell’ottobre 1909, seduto in piazza Santa Croce a Firenze, confermata al tempo della scoperta delle architetture torinesi e maturata negli anni 1915 -1919 a Ferrara “città solitaria di geometrica bellezza”, resta a mio parere insuperabile. A questa malinconica bellezza metafisica, con la quale de Chirico mette in scena il divorzio fra proiezione dell’ombra e prospettiva, tornerà alla fine degli anni Cinquanta con Le muse inquietanti (Neometafisica), che impressionarono Andy Warhol per la loro serialità. Una riproduzione dell’opera dipinta nel 1982 da Warhol (Le muse inquietanti - alla maniera di de Chirico, Muse Inquietanti) tappezza una parete dell’ultima sala espositiva. 

 

 

Terminata la visita imbocco l’uscita pensando che “la dottrina delle ombre non è [più] una prospettiva rovesciata”. Qualcosa si è rotto e non si può ricomporre. Se oggi Talete fosse qui – mi dico – aspetterebbe inutilmente che le linee di mira proiettino l’ombra ai suoi piedi, che il logos della proporzione riveli la sua ombra. Noi però possiamo visitare il Museo Archeologico di Napoli per illuminare con il nostro sguardo la Battaglia di Isso tra Alessandro e Dario III, per vedere come vedeva Filosseno e avere un termine di paragone, indispensabile a ogni occhio che voglia essere critico. 

 

Piego in quattro i fogli degli appunti per infilarli nella tasca della giacca, con la sensazione che tutte le annotazioni prese nel corso della visita e i pensieri conseguenti siano poca cosa rispetto all’emozione provata alla vista del Centauro morente, che mi ha accolto all’ingresso della mostra. Incorniciata dalle rocce, la luce terribile e disperata che splende nel Centauro mi ricorda la luce ritagliata dai fabbricati nell’inquadratura della scala lungo la quale Joker, nel film diretto da Todd Phillips, sale per tornare a casa dalla madre pazza.

Centauri morenti e scintille impazzite che fuggono dal camino, spaventate dai colpi dell’attizzatoio.

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