Giovanni Ziccardi / Tecnologie per il potere

17 Marzo 2019

Oggi l'autore Giovanni Ziccardi dialoga con Giulio Giorello, alle ore 14.00, Sala George Eliot (Bookpride, Milano).

 

In apparenza il saggio di Giovanni Ziccardi Tecnologie per il potere (Cortina, Milano, 2019, 16 €) è un manuale che insegna – ce lo dice il sottotitolo – “Come usare i social network in politica”. Dalle vittorie di Obama e Trump negli USA, dall'esito a sorpresa del voto su Brexit, dalla resistibile ascesa del Movimento 5 Stelle e dalla “Bestia” che inonda i social con i “Selfini”, abbiamo imparato che senza un'efficace e costosa task force in grado di gestire la comunicazione con tattiche di “propaganda paramilitare” (p. 206) un leader politico verrebbe immediatamente spolpato dalla campagna elettorale permanente che caratterizza la fast politics nella quale ci dibattiamo.

Le cose che un politico deve sapere per reggere la competizione sono davvero tante e spesso costose. In primo luogo è necessario sapere che la rete cambia molto velocemente. Ziccardi individua tre fasi. La prima è “connessa all'idea romantica (…) che i computer potessero – e dovessero – servire per migliorare la vita dell'essere umano, soprattutto in rapporto alla società nella quale l'individuo si trova ad agire” (p. 15). Questo ottimismo fricchettone ha ispirato diverse utopie: la visione “un computer in ogni casa” (incarnata da Apple e dal suo profeta Steve Jobs), l'idea che Wikipedia potesse oggettivare e diffondere il sapere universale, l'algoritmo di Google dove “ogni clic è un voto” (che si tratti di verità o di fake news poco importa), in una cabina elettorale planetaria permanente su qualunque argomento. Da questo terreno è nato il principio di democrazia diretta “uno vale uno”. 

 

Ma ben presto “le espressioni semplicistiche, crude e volgari, ideate per un utilizzo sui social network, si sono rivelate perfette per un mezzo di comunicazione, e per un ambiente, capace di amplificarle e diffonderle”. A incarnare questa seconda fase è stato “lo staff organizzativo delle campagne elettorali” di Barack Obama, ovvero “un team, una strategia e un enorme database, grandi archivi appositamente creati per la gestione delle tecnologie, per la profilazione dei potenziali elettori, per la raccolta dei contributi e per sfruttare i big data”. Le elezioni più importanti del pianeta avevano messo la tecnologia al centro delle strategie elettorali.

Questo ha portato a “una frammentazione e polarizzazione del consenso, ormai veicolato quasi esclusivamente tramite quelle piattaforme verso le quali tutta l'umanità, di ogni età, stava migrando”. Siamo alla terza fase, “l'era post-Trump, o della post-verità”. Si tratta di inviare a ogni elettore un messaggio “in linea con il suo pensiero e le sue aspettative”, in una “vera e propria fabbrica del consenso, spesso affiancata da eserciti di troll, da fucine d'odio e da imprenditori delle fake news” (pp. 17-20).

Il database utilizzato dallo staff di Donald Trump nel 2016, battezzato Fort Alamo, ha censito 220 milioni di cittadini americani con 4000-5000 data point per ciascuno di loro, ovvero un totale di circa un bilione (o un tera) di data point, un ordine di grandezza analogo a quello del numero di batteri presenti sulla superficie del corpo umano. Per gestire, alimentare e promuovere questa macchina elettorale, sono stati spesi 70 milioni di dollari al mese (dei 7 miliardi di dollari spesi da Obama nella campagna del 2012 il 10 per cento è stato destinato all'online).

 

Le armi vincenti della nuova politica “adolescenziale”? Messaggi semplici e ripetitivi, polarizzazioni che creano “camere dell'eco” o bolle, fake news che privilegiano la dimensione emotiva su quella razionale con messaggi di “pancia” (pp. 77-79), cui si possono aggiungere l'uso di falsi profili e di bot e l'azione di troll e campagne d'odio.

La politica è diventata dunque una guerra sui social: le armi sono i big data, i proiettili sono i tweet e i post mirati sul sentiment e sulle attese dei cittadini, una vera pioggia di frecce avvelenate o infuocate. Nel corso del suo primo anno alla Casa Bianca Trump ha postato quasi 3000 tweet, più o meno 10 messaggi al giorno, monopolizzando, anticipando e indirizzando l'agenda politica sulla base di una maniacale strategia di occupazione dello spazio mediatico.

Ziccardi elargisce una quantità di informazioni e consigli agli aspiranti Trump su scala nazionale e locale. Sono indicazioni utili, che promettono un ragionevole successo nella prossima campagna elettorale: a patto che vengano adeguatamente finanziate (e il capitolo sul fund raising ha un ruolo centrale) e applicate correttamente. O meglio, se i social media manager faranno bene il loro lavoro: se utilizzeranno le tecnologie in maniera efficiente, se porteranno all'attuazione di una buona politica, magari restando nei limiti della legge (p. 37). Ma è fortissima la “tentazione di giocare sporco'” per “generare false notizie, per muovere attacchi personali, per discriminare, per soffiare sul fuoco della violenza, per alimentare dubbi” (p. 39). Un'intera parte è dedicata alla sicurezza informatica, sia quella dei candidati (dagli hackeraggi degli avversari) ma anche quella di elettori e finanziatori. Un capitolo si concentra sulla “sicurezza del voto elettronico e delle piattaforme consultive”: in Italia è un argomento di attualità, vista l'imbarazzante fragilità della piattaforma Rousseau.

 

Dietro a queste preoccupazioni ne emerge una più radicale. In apparenza le nuove tecnologie si limitano a dare alla comunicazione nuovi strumenti, che potrebbero portare a politiche più efficaci e credibili ma che comportano diversi rischi. Come sempre accade, leggi e regolamenti si trovano a inseguire i cambiamenti della realtà. Dunque appare fisiologica una fase di aggiustamento, nella quale la democrazia rischia di essere svuotata dall'interno, approdando a forme di “democratura”. Per gli ottimisti è necessario e sufficiente affinare il sistema di regole e controlli (la separazione dei poteri) per ricondurre i nuovi elementi nei contrappesi dell'attuale sistema politico-elettorale, evitando le possibili degenerazioni, ovvero le derive populiste e autoritarie. L'ipotesi è che la democrazia rappresentativa sia la forma di governo “meno peggio” che abbiamo: dunque dobbiamo salvaguardarla a tutti i costi, usando i suoi meccanismi di auto-correzione.
Ma forse il cambiamento è più radicale. Le nuove tecnologie rischiano di mettere in discussione le forme stesse della democrazia rappresentativa, così come si è configurata negli ultimi secoli (in Italia a partire dal 1946).

 

 

Le opportunità offerte dalla disintermediazione hanno fatto sognare. È l'utopia del coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni che li riguardano, il superamento di una democrazia che per molti aspetti è stata solo formale, con uno stretto controllo da parte della élite. Per alcuni, grazie alla rete il popolo ha potuto finalmente prendere la parola ed esprimersi liberamente. 

Ma il passaggio dall'espressione dei sentimenti più viscerali alla democrazia diretta non è automatico. Tuttavia se l'ipotesi filosofica di fondo è quella dell'inarrestabile allargamento della democrazia, dell'inevitabile evoluzione da una società verticale e autoritaria a una società orizzontale e partecipata, questa sarebbe l'unica strada da percorrere: la creazione di nuove procedure e piattaforme che guidino grazie alla rete l'evoluzione della democrazia rappresentativa in democrazia deliberativa (anche se contro questa l'utopia politica della democrazia diretta sono state avanzate obiezioni filosofiche di fondo).

Quello che trapela dalle riflessioni di Ziccardi è che la nuova infosfera digitale non è uno strumento neutro, ma sta cambiando radicalmente le condizioni stesse della nostra vita sociale e dunque il terreno su cui si fonda la politica. Gli strateghi di Obama e Trump hanno sfruttato al meglio la tecnologia, innescando ulteriori processi collettivi su scala planetaria, come dimostrano le diverse fasi evolutive individuate da Ziccardi. L'utopia della comunicazione orizzontale, che avrebbe dovuto allargare gli spazi della partecipazione, si è ribaltata in una macchina della propaganda personalizzata. 

 

È crollata la barriera tra la vita privata (l'economia) e la sfera pubblica. O meglio, i social network e i big data si sono appropriati della nostra la vita privata, l'hanno espropriata generando una gigantesca asimmetria informativa (ed economica), che porta a rapporti di forza sbilanciati in qualunque interazione. Il presupposto è la mancanza di trasparenza sulle procedure algoritmiche e sulla gestione dei dati personali, reso possibile dall'assenza (o dall'inefficacia) di autorità indipendenti di controllo, come ha dimostrato il caso Cambridge Analytica. Nelle democrazie occidentali a gestire l'intero sistema sono alcune aziende private. Nei regimi autoritari la rete è sotto lo stretto controllo del potere politico: basti pensare a quello che succede in Iran o in Russia. La Cina utilizza filtri e battaglioni di censori per controllare rigidamente la comunicazione in rete e rendere impossibile la diffusione di informazioni scomode ed eliminare dal dibattuto le discussioni “scomode”: ora Pechino sta esportando il suo know how in diversi altri paesi.

 

Ai tradizionali corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni) che raccoglievano e indirizzavano il consenso, alla ricerca della mediazione politica, si sono sostituiti i big data, nelle mani di poche multinazionali (che grazie a questa intermediazione accumulano enormi capitali) e dei governi. Alle élite finanziarie, politiche e della comunicazione si è sostituita un'oligarchia tecno-finanziaria.

Rispetto ai tradizionali sistemi top-down (giornali, radio, tv) si è generata l'illusione di una maggiore democrazia, basata sulla totale libertà d'espressione, che ha gettato discredito sui tradizionali meccanismi di comunicazione e partecipazione politica. In realtà la natura stessa della comunicazione in rete spinge verso la creazione di bolle autoreferenziali (le echo chambers) e spinge alla polarizzazione: ecco lo strabordare delle fake news e i meccanismi di squadrismo digitale. All'interno di queste bolle, domina un rigido principio di maggioranza, che rende impossibile la mediazione politica e porta alla radicalizzazione di posizioni contrapposte e alla semplificazione referendaria. Le contraddizioni reali vengono occultate, a favore di contrapposizioni ideologiche: l'ossessione sugli immigrati africani di alcuni politici italiani è un ottimo esempio di strategia di distrazione di massa. Inutile ricordare che la civiltà democratica si basa sul principio di maggioranza, ma prima ancora sul rispetto delle minoranze e sull'equilibrio tra i poteri: se questi aspetti si indeboliscono, il rischio di derive autoritarie è fortissimo.

Quale potrà essere allora la “quarta fase” del rapporto tra l'impiego di strumenti tecnologici moderni e la politica?

 

La Comunità Europea sembra aver scelto la strada della regolamentazione, per evitare le degenerazioni del sistema. Dobbiamo capire se siamo ancora in tempo (mancano meno di 100 giorni alle elezioni europee), o se le trasformazioni in atto hanno già travolto gli argini. Personaggi autorevoli mettono in guardia contro una possibile deriva fascista: l'ex segretario di Stato USA Madeleine Albright ha di recente pubblicato un saggio dal titolo Fascismo e dal sottotitolo assai eloquente: Un avvertimento (Chiarelettere, Milano 2019, 19 €). Lo studioso americano Jason Stanley in Noi contro loro vuole spiegarci (con un altro sottotitolo eloquente) Come funziona il fascismo (Solferino, Milano, 2018, 17 €).

Per i governi totalitari e per le “democrature”, la posta in gioco è chiara. La rete deve essere ridotta a strumento di propaganda, così come è accaduto per i media tradizionali. Le informazioni che i dittatori di una volta dovevano faticosamente raccogliere ora vengono fornite volontariamente dai cittadini sui social e attraverso i loro consumi culturali, spostamenti, comunicazioni. Il controllo sociale rischia di diventare assoluto: il governo cinese sta sviluppando il Social Credit System (SCS) che dovrà valutare l’affidabilità dei suoi 1,3 miliardi di cittadini: “Forgerà un ambiente di opinione pubblica dove mantenere la fiducia è onorevole. Rafforzerà la sincerità negli affari del governo, la sincerità commerciale, la sincerità sociale e la costruzione della credibilità giudiziaria”. Senza un elevato punteggio SCS, la vita di ogni cittadino diventerà molto difficile... 

 

Ma in questo incubo stile Black Mirror qualcosa forse non torna. Il capitalismo finanziario aveva costruito il proprio fascino sulla speranza nel futuro, sulla possibilità di fare debiti per soddisfare i desideri. La crisi economica del 2008 è stata innescata dal crollo dei futures, i titoli derivati che si basavano su questo patto di fiducia: sul legame tra democrazia e promessa di sviluppo economico ha riflettuto la giovane economista Dambisa Moyo Sull'orlo del caos. Rimettere a posto la democrazia per crescere (Egea, Milano, 2018, 22 €).

In Occidente, dopo il collasso dei futures, si sono moltiplicati i movimenti politica che guardano al passato: dal “Make America Great Again” di Donald Trump alla “macchina del tempo” cui allude Salvini nei suoi tweet: riaprire i bordelli, chiudere i manicomi, il servizio di leva di nuovo obbligatorio, la Isoardi che gli stira le camicie mentre lui mangia pane e Nutella...

Una politica basata sui sondaggi o sui big data (che ne rappresentano la militarizzazione) può solo fotografare il presente. E dunque può solo guardare al passato. Le manca il desiderio. Gli unici simboli che può mettere in circolazione sono feticci, esorcismi contro l'angoscia. Come il muro, come i porti chiusi.

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