Teatro-lavoro o teatro-concetto?

27 Settembre 2012

“Up to you” è il motto con il quale il Festival della Creazione Contemporanea di Terni ha deciso di passare la palla direttamente al pubblico: attraverso un progetto biennale di sensibilizzazione e riflessione politica la manifestazione, diretta da Massimo Mancini e Linda Di Pietro, ha avuto il coraggio di eseguire una riflessione profonda sul ruolo dello spettatore e sulle sue scelte. Si sono moltiplicate così le performance e gli eventi interattivi. Uno di questi è E.I.O, della serba Dragana Bulut e dei rumeni Maria Baroncea e Eduard Gabia.

 

 

Un evento nel quale il teatro non esiste, ma viene sostituito da un concetto, una riflessione attorno al tema del lavoro – inteso come mestiere e creazione – focalizzata sul valore che la nostra società dà a questo atto vitale. Dunque un nucleo di idee detonanti soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, nel quale il lavoro e il suo valore sono primari solo nelle statistiche sulla disoccupazione e non nelle pratiche dei governi. Il concetto di fondo è riconoscibile sin da quando agli spettatori viene chiesta un’ulteriore offerta per lo spettacolo e vengono consegnati loro dei biglietti sui quali è registrato l’investimento. A questo punto una parte degli spettatori rinuncia al proprio status abituale per entrare attivamente nella performance come “lavoratori”. Il resto del pubblico dovrà osservare e decidere a fine spettacolo quale spettatore-operaio ha fatto il lavoro migliore, donandogli il proprio biglietto che sarà poi convertito in vero denaro. È già tutta qui l’idea concettuale dello spettacolo, rispetto al quale però la messa in opera risulta essere secondaria.

 

Gli spettatori attivi entrando in scena, guanti alla mano, si trovano di fronte a una serie di oggetti e accessori con i quali lavorare: si intuisce che non è stata fornita una mappa di istruzioni con cui alimentare questa prassi. Gli artigiani improvvisati fanno quello che possono, ridono, parlottano, confusamente tendono cavi sulle diagonali dello spazio scenico, maneggiano plastilina, forbici e carta per iniziare un lavoro e abbandonarlo dopo qualche minuto e cominciarne un altro, tutto senza un vero e proprio obiettivo. Gli spettatori-osservatori, non tutti pazienti di attendere l’estenuante protrarsi di una scena effimera, osservano col proprio biglietto in mano, alcuni annoiandosi, altri manifestando una certa invidia per non essere dall’altra parte.

 

 

Se nell’idea del gruppo serbo-rumeno risiede la possibilità di un pensiero politico ben preciso, la negazione del linguaggio, ovvero di un processo di composizione drammaturgica, produce invece una messa in discussione del concetto stesso. E.I.O potrebbe essere sperimentato dovunque e in un lasso di tempo non teatrale. In una modalità di comunicazione da palcoscenico le aspettative sono totalmente disattese e il caso con il quale viene regolato lo zelo dei singoli partecipanti non sempre può determinarne la resa qualitativa. Tra i due poli di attività prettamente concettuali, incipit ed epilogo, nei quali osservatori e praticanti vengono istruiti e interagiscono tra loro, c’è il vuoto, se non una serie di azioni senza scopo, linguaggio e qualità estetica. Il risultato è la decadenza della forma e il conseguente precipitare del contenuto nella banalità da reality show. Si torna a casa con la sensazione di aver partecipato a un gioco innocuo e purtroppo incapace di approfondire gli interessanti spunti di partenza.

 

 

Tutto il contrario della migliore arte concettuale: d’altronde le 7000 querce di Joseph Beuys lasceranno il segno per altri 300 anni almeno ―quando diventeranno la foresta immaginata dall’artista. In quel caso la negazione di una forma artistica ha dato vita a una creazione assoluta quanto l’arte stessa. Altri tempi? Altri obiettivi? Certo, ma lavorando sulla lama tagliente del paradosso proprio come fa il trio di E.I.O. nelle intenzioni, è lecito chiedersi se l’abbandono totale della forma teatrale (a teatro) sia un radicalismo dal quale aspettarsi un risultato altrettanto estremo.

 

Andrea Pocosgnich (TeatroeCritica)

 

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