The Hamlet network

1 Ottobre 2013

«Che senso ha studiare filosofia se serve solo a metterci in grado di parlare con qualche plausibilità di astruse questioni di logica, ecc., ma non migliora il nostro modo di ragionare sulle questioni importanti della vita quotidiana, se non ci rende più coscienziosi di un qualunque... giornalista nell’uso delle pericolose frasi fatte che costoro adoperano per i loro fini personali».

Ludwig Wittgenstein, lettera a Norman Malcolm, 16 novembre 1944 (in Lettere 1911-1951, pp. 321-322, Adelphi 2012)

 


 

Per capire Amleto non bisogna leggerlo. Meglio affidarsi ai big data. Modelli computazionali e analisi quantitativa: così avremo le risposte a tutte le nostre domande sul dramma di Shakespeare. Se ci chiediamo chi è il protagonista del testo, la definizione corretta sarà: «il personaggio che minimizza la somma delle distanze tra tutti gli altri vertici». Nessun riferimento ai conflitti interiori del principe danese. È tutto nel grafico: Amleto è il centro della rete. Questa è la letteratura vista dallo Stanford Literary Lab, centro studi fondato da due docenti del dipartimento di Letteratura dell’università californiana, Matthew Jockers e Franco Moretti.

 

L’attività del Lab di recente è stata descritta anche da un articolo del Financial Times. L’idea è che per analizzare la trama di un’opera letteraria abbiamo bisogno della network theory. Vediamo il metodo all’opera nel saggio di Moretti (sì, è il fratello maggiore di Nanni), Network Theory Plot Analysis, ripubblicato nella sua ultima raccolta di saggi: Distant Reading (uscita a giugno 2013 per Verso Books). Questi i principi fondamentali: «Una rete è fatta di vertici e spigoli; una trama, di personaggi e azioni. I personaggi saranno i vertici della rete, le interazioni gli spigoli». Così appare la rete dell’Amleto. In questo modo quattro ore di azione scenica diventano una sola immagine. Il tempo si trasforma in spazio.

 

 

«Una volta fatta una rete del dramma, si smette di lavorare direttamente su quel dramma per farlo sul modello: si riduce il testo ai personaggi e alle interazioni, astraendoli da tutto il resto», spiega Moretti. Questo processo di riduzione e astrazione fornisce ovviamente qualcosa di molto inferiore rispetto all’ originale: basti pensare che Moretti discute Amleto senza dire nulla delle parole di Shakespeare. Ma anche, in un altro senso, dovrebbe darci molto di più: attraverso un modello potremmo vedere le strutture sottostanti di un oggetto complesso come un testo. «È come una lastra ai raggi X», scrive l’autore del saggio La letteratura vista da lontano (2005).

 

Rimane la domanda: perché usare le reti per riflettere sulla trama? Cosa guadagniamo trasformando il tempo in spazio? «Prima di tutto quando guardiamo un dramma, siamo sempre nel momento attuale; c’è solo cosa è in scena e subito dopo scompare. Nell’immagine, invece, non si perde niente. Si rende il passato visibile come il presente. Ciò che è fatto non può essere disfatto», risponde Moretti. In questo modo la trama diventa un sistema di regioni; emerge la gerarchia tra i personaggi. Vediamo che il protagonista ha «un solo grado di separazione da sedici personaggi; due gradi dagli altri; una distanza media tra tutti i personaggi di 1,45».

 

 

Se visualizziamo questi risultati in un istogramma, si trova «la legge di potenza della distribuzione», una caratteristica di tutte le reti. In questo modo Moretti può concludere: «La legge di potenza è l’opposto di una curva gaussiana: non c’è una tendenza centrale di distribuzione, nessuna media; Questo significa che non c’è un vertice tipico della rete, non c’è un personaggio tipico del dramma. Parlare di personaggi in Shakespeare, i personaggi-in-generale non esistono. Tutto ciò che esiste è una curva che va da un estremo ad un altro senza alcuna chiara soluzione di continuità».

 

Non è la conclusione più stupefacente che arriva da Stanford. Il modello realizzato dà la possibilità di intervenire per fare esperimenti. Prendiamo ancora il protagonista. Per la critica letteraria, una figura imprescindibile: non penseremmo mai di discutere l’Amleto senza Amleto. Ma questo è esattamente quello che Moretti fa: prendere la rete di Amleto e rimuovere Amleto, per vedere cosa accade.

 

«È come guardare in un telescopio. All’improvviso un enorme quantità di materia diventa visibile», ha detto Moretti a proposito dei suoi metodi. La letteratura si vede meglio da lontano, secondo il critico. La «lettura ravvicinata» di un testo non sarebbe altro che «un esercizio teologico: un trattamento solenne di un esiguo numero di testi presi molto sul serio». Contrapposta alla teologia c’è la scienza del Lab: le leggi evolutive darwiniane applicate al romanzo contro i sostenitori del «disegno intelligente» in letteratura.

 

 

Per i critici – come Kathryn Schulz del New York Times - il problema è che la letteratura effettivamente è un universo artificiale che non obbedisce a leggi come quelle di natura. E Elif Batuman, in un saggio pubblicato dalla rivista n+1, fa notare che a pensarci bene «un’opera letteraria è realmente il prodotto di un “disegno intelligente”»,  con lo scrittore nel ruolo di Dio. Altre perplessità ha espresso Katie Trumpener, docente di letteratura comparata a Yale. Si è chiesta sul Critical Inquiry: «Che cosa accadrebbe se tutti gli studi letterari fossero fatti così?». «Sarebbe un disastro», la risposta.

 

«Se consideriamo un’opera letteraria solo come una serie di statistiche, avremmo risultati fuorvianti: la realtà di un romanzo è molto più complessa di come possa essere rappresentata da una mera serie di numeri». C’è poi un’altra questione: come considerare decine di dottorandi che portano avanti le idee di un unico studioso? «Sarebbe accademia, ma col pilota automatico: genererebbe molta ricerca ma senza intelligenza critica», scrive la docente. Rimane poi la questione fondamentale, sollevata da Marc Parry sul Chronicle of Higher Education. Una volta svolta la poderosa mole di lavoro, il gruppo di ricerca deve rispondere ad una sola, grande, domanda: «E quindi?». So what? Che cosa ce ne facciamo di tutti questi grafici, schemi, mappe, reti di Amleto?

 

 

Alla fine del suo pamphlet lo stesso Moretti ammette di non aver raggiunto il risultato sperato. Al Chronicle riconosce di muoversi in «scantinati della cultura, che non contengono nulla più di esempi più opachi, inutili e stupidi di ciò che già sappiamo». Nel saggio i toni sono meno cupi: «Una volta iniziato a lavorare seriamente ho subito realizzato che la macchina colleziona-dati, essenziale per una quantificazione su larga scala, non era ancora una possibilità realistica». Moretti racconta che spesso quando presenta il suo lavoro in pubblico gli viene chiesto: «Ma avevi davvero bisogno della teoria delle reti per parlare di Amleto?» Alla fine del suo pamphlet, dopo cinquantasette grafici, la risposta è: «No, non ne avevo bisogno». Non per questo ha rinunciato ai tentativi basati sugli algoritmi progettati da Matthew Jockers.

 

Fino all’ultimo incontro del Lab, descritto così: «Stavamo discutendo le nuove immagini che erano state messe a punto senza sosta per massimizzare le nostre possibilità di vedere le complesse strutture narrative che volevamo capire. Avevamo lavorato tutti duramente; avevamo scartato molte soluzioni insoddisfacenti; stavamo ora concentrandoci sulle versioni migliorate e più sintetiche». Risultato? «Le immagini erano molto più confuse, le intuizioni più difficili. Ed erano il meglio che eravamo riusciti a fare. Non è mai semplice realizzare che si è giunti ad un vicolo cieco, puro e semplice. Ma eravamo lì».

 

Questo articolo è apparso su IL Magazine de Il Sole 24 Ore
 

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