Atmosfera / Dürer. Melencolia I

7 Novembre 2018

L’autoritratto deve proprio coincidere con il volto dell’artista? Dopo tutto, un ritratto è qualcosa di molto più incerto di quanto sembri; come sostiene Hans Belting, il ritratto è immagine di un’altra immagine, cioè del volto, una superficie di per sé instabile, impegnata com’è nelle alterne fasi dello scambio sociale e, per questo, continuamente mossa dalla dinamica della mimica facciale. Erwin Panofsky e Fritz Saxl hanno scritto che Melencolia, I – una delle più celebri incisioni del Rinascimento – è l’“autoritratto spirituale” del suo autore, il pittore tedesco Albrecht Dürer. È una delle tesi portanti del saggio che essi dedicarono all’opera nel 1923, La «Melencolia I» di Dürer. Una ricerca storica sulle fonti e i tipi figurativi; il libro viene ora per la prima volta pubblicato in Italia da Quodlibet con un’introduzione di Claudia Wedepohl e uno scritto finale di Emiliano De Vito, che è anche il curatore dell’edizione.

 


Il sottotitolo dell’opera è più che una semplice anticipazione del contenuto del libro; come ribadiscono essi stessi nell’introduzione, i due studiosi si sono messi da “giovani esploratori” sulla strada aperta da altri – Karl Giehlow e Aby Warburg – verso l’interpretazione del capolavoro di Dürer; il loro intento è di “lasciar emergere con chiarezza la grande linea evolutiva” che conduce all’incisione, non tanto quello di “trovare una precisa e magari innovativa soluzione per ogni singolo simbolo”. In altre parole, i simboli letti non isolatamente, ma entro una storia di secoli, una “grande linea evolutiva”. 

“Il cane – o, se volete, il gatto, la mela … – sono il simbolo di questo o di quello”. Quando trovate una frase come questa, bisogna cominciare a dubitare del libro o dell’articolo che si sta leggendo. Chi imposta così il discorso vuole convincerci che ci siano simboli eterni, validi tanto per l’Egitto dei Faraoni quanto per l’età romantica, per oggi e per domani. Simboli al di fuori e al di sopra della storia. È in quest’ottica che Melencolia, I e la sua sequenza di oggetti simbolici (in una concatenazione per niente ovvia) sono divenuti l’ennesima palestra per cercatori di enigmi, prodigiosi scopritori di misteri nascosti, seguaci di Dan Brown (che effettivamente ne parla nel suo The lost symbol). Il fatto è che, davanti a certe immagini del passato vorremmo avere a portata di mano le istruzioni per l’uso – meglio se facili e rapide – che ci aprano la strada del significato; senonché per significato intendiamo qualcosa di semplice semplice, come in un gioco di società. Insomma, vogliamo misteri impenetrabili, ma con una soluzione a portata di mano, se possibile in corpo minore e in fondo alla pagina.

 

La cosa singolare è che il significato dell’opera di Dürer è dichiarato dall’incisione stessa, che reca un titolo (occasione per nulla frequente nel Rinascimento) a caratteri maiuscoli, su una targa sorretta da una sorta di pipistrello: Melencolia, I (il numerale è preceduto da un arabesco che rendo con una virgola); sulla destra, in basso l’incisione è datata 1514 e firmata col monogramma del pittore norimberghese.

Lo strano animale notturno reggitarga svolazza dunque su un cielo al crepuscolo. Una donna alata, dalla parte opposta, se ne sta seduta con la testa appoggiata a una mano. Il chiarore degli occhi spicca nella penombra; il pittore, mentre ne descrive l’immobilità, vuole mostrare che è ben desta: una stasi vigile.

 

 

Ed è sveglio anche il putto che, appollaiato su una macina da mulino, scrive qualcosa su una tavoletta; lo fa nel modo un po’ sognante dei bambini che giocano da soli. Accoccolato lì accanto, un cane invece dorme. Alcuni oggetti, tra loro ben diversi per dimensioni e funzione, sono abbandonati a terra o appesi al muro dietro alla donna alata; una “collezione di oggetti” – così la definì trent’anni fa Adalgisa Lugli – “rilevati con cura e precisione, come le lettere e le immagini accostate di un rebus”: una campana, una clessidra, una bilancia, una scala, un quadrato magico, una sfera, un poliedro, un calamaio, un compasso e un libro (in mano alla donna), strumenti per la falegnameria e per la misurazione geometrica.

Il lungo cammino intrapreso da Panofsky e Saxl inizia dalla Grecia antica e dalla teoria dei quattro umori (sangue, bile gialla, flegma e bile nera), la cui maggiore o minore prevalenza nel corpo umano determinerebbe quattro diversi “tipi psicofisici fondamentali, o caratteri”; nel melanconico, dunque, la complessione fisica (e psichica) è determinata dalla bile (cholé) nera (mélas). Se all’inizio si tratta di un approccio sostanzialmente nosologico, nel corso del tempo la teoria dei quattro temperamenti si apre a una visione molto più ampia che lega il corpo (e la psiche) ai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), alle età dell’uomo, ai colori, alle stagioni, ai pianeti. Ridestatosi nel Rinascimento – come gli altri dèi antichi – dopo il lungo sonno medioevale, sarà Saturno a dominare sul territorio segnato dalla “bile nera”. Si capisce, a questo punto, la ragione del numerale del titolo: la melanconia (malinconia) intesa come primo dei quattro temperamenti. 

 

La svolta avviene con Aristotele, che nei suoi Problemata si pone per la prima volta questa domanda: “Per quale ragione gli uomini che hanno dimostrato qualità straordinarie in filosofia, politica, poesia e nelle professioni tecniche si rivelano melanconici, e alcuni di essi lo sono a un punto tale da essere preda dei malanni derivanti dalla bile nera, come si racconta che sia successo – tra gli eroi – a Eracle?”. La melanconia adesso non è più tanto e solamente una malattia, ma uno stato spirituale del tutto speciale, se è vero che riguarda tutti i grandi uomini, e, tra quelli, anche gli artisti. La predominanza di questo umore favorisce però stati d’animo e comportamenti del tutto opposti: il melanconico è pigro, lento, impacciato, annoiato, rimuginatore, indolente e, naturalmente, è attraversato da pensieri cupi; ma, nello stesso tempo, egli è dotato di intuizioni brillanti, di capacità eccezionali, di una creatività fuori dal comune; un “singolare e divino dono” questa melancholia, come affermava nel ‘400 Marsilio Ficino, una delle fonti di Dürer. La melanconia, da malattia che era, va assumendo un’aura positiva: è probabile, ad esempio, che nella Stanza della Segnatura Raffaello abbia dipinto Michelangelo come melanconico. E, in tutt’altro modo, è significativo che un erudito del ‘500 affermi addirittura che i cani migliori sono quelli “che hanno un volto (sic) melanconico”.  

 

A questo spazio dell’azione, dell’attività febbrile, del pensiero raziocinante, si riferiscono in gran parte gli oggetti dispiegati nel silenzio che circonda la donna alata, la personificazione della Melanconia. Come disse Alberto Savinio, “in fondo, la differenza tra tristezza e malinconia è questa, che la tristezza esclude il pensiero, la malinconia se ne alimenta. Guardate come pensa la «Malinconia» di Dürer.”

La regione della melanconia, stato “invidiabile e inquietante” allo stesso tempo, è dunque territorio di contrasti, e Saturno stesso si presenta come il “demone dei contrari”. Luce e oscurità, ricchezza di idee e vuoto, creatività e attacchi di follia come quelli di Eracle: il melanconico, insomma, cammina sempre sul “sottile crinale tra due abissi”. Panofsky e Saxl ricostruiscono con un enorme sforzo di erudizione questo itinerario che, con attardamenti e accelerazioni, inizia in Grecia, percorre (anche attraverso la mediazione araba) il medioevo e arriva al Rinascimento e al pittore tedesco.

Come si vede, il problema non era quello di scoprire “una precisa e magari innovativa soluzione per ogni singolo simbolo”, ma di comprendere l’incisione entro un vasto orizzonte storico. In uno sguardo che coinvolge lo stesso Dürer: egli infatti conosceva bene l’argomento, se è vero che un amico (per lodarlo) lo descrive come melanconico, anzi affetto da una “melancholia generosissima”. 

Ecco perché, sostengono Panofsky e Saxl, Melencolia, I è anche un “autoritratto spirituale”; anche l’artista dovette sentirsi rivestito di debolezza e di potenza quasi divina: l’autoritratto di Monaco appare in questo senso come il contraltare dell’incisione del 1514.

 

 

Come spiegare la grande presa che l’opera ha avuto, tra gli altri, su pensatori come Walter Benjamin (a questo argomento è dedicato il saggio finale di De Vito)? Per non parlare di alcuni artisti contemporanei come Anselm Kiefer e Claudio Parmiggiani, affascinati dalla forma perfetta (e instabile al contempo) del poliedro dureriano. Il significato di Melencolia, I non consiste tanto nella vastità dei riferimenti culturali espliciti e sottintesi, e il suo cardine non coincide neppure con lo straordinario inventario di oggetti simbolici. Bisogna cercarlo, piuttosto, nell’“atmosfera complessiva” (sono Panofsky e Saxl ad adottare l’espressione).

 

E l’atmosfera di Melencolia, I ha il suo fulcro nel gesto della donna alata; i due studiosi, forti dell’insegnamento di Warburg (che nel 1905 aveva usato proprio un disegno di Dürer per coniare il concetto di “formula di pathos”), osservano dunque che lo “schema tradizionale” del malinconico (la mano appoggiata alla gota) assume ora “un senso completamente nuovo”: l’elemento inedito – e il punctum della scena – è dato dal pugno chiuso, che ora è “espressione della più intensa vita psichica”; il significato del gesto non è più solo “tetraggine, spossatezza e pensiero”. La postura del “gomito sopra il ginocchio e la mano sotto le gote” (sono parole di un altro pittore del Rinascimento, Giovanni Paolo Lomazzo) acquista ora la tensione imprevista di una energia trattenuta.

E pensare che, anni prima, lo storico dell’arte Heinrich Wölfflin vedeva nella figura femminile “completa apatia” e un “pervasivo malessere”: ennesima prova di quanto la decifrazione dei sentimenti descritti nelle immagini sia meno ovvia di quanto crediamo. 

Nell’incisione di Dürer, alla fine, c’è ben altro che il solo piano allegorico: la melanconia non è rappresentata tanto attraverso i simboli, ma è dipinta come situazione spirituale, e tutti i dettagli fanno la loro parte “in accordo con l’atmosfera” (per tre volte nella stessa pagina Panofsky e Saxl ripetono questa stessa frase). E veniamo come invischiati nella finta calma della scena, in quest’aria torbida e sottile, fatta di attese e di timori, di bagliori e di penombre.

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