Gli studenti protestano ancora

8 Ottobre 2012

I giovani protestano ancora, ma il potere non li ascolta più, li picchia. Forse sbagliano a mettere in scena la protesta come fossimo nel Sessantotto. Allora esisteva l’interlocuzione, spazzata via dagli anni di piombo e dal berlusconismo. Tuttavia, già allora, almeno in Francia, c’era qualcuno che scriveva sul muro “una risata vi seppellirà”. Già allora le comunità inoperose, in Francia, ma anche a Bologna (chi non ricorda gli indiani metropolitani?), facevano capolino. Esistono i giovani?

 

C’erano una volta i giovani, ne parlavano gli adulti, da Mussolini a Berlinguer. Ora ci sono i rottamatori, i quarantenni, i giovani ricercatori, i quasi cinquantenni, quelli dei call center, i laureati che rifiutano di prendere la tessera di qualche partito per far carriera o che si ritrovano in un consiglio regionale a venticinque anni perché hanno preso la tessera senza neanche sapere cosa sia un consiglio regionale. Bisognerebbe scrivere un libretto d’istruzioni, almeno per spiegare cosa non è: per esempio un luogo di malaffare e di malcostume.

 

Chi sono allora i giovani? Sono una produzione discorsiva di chi parla dei giovani come fosse altro da sé. Una volta l’adolescenza finiva a diciannove anni, era prodotto linguistico. Stava nella parola inglese teen. Teenagers, categoria ben delimitata, dai tredici ai diciannove anni, i baby boomers.

 

 

Poi ci sono stati fenomeni biosociali. Tra le donne il ciclo mestruale è arretrato, dai tredici (thirteen) ai dodici, undici, persino nove, dieci anni; a volte non è mai apparso, oppure appare e scompare, come nell’anoressia. Tra i maschi le pulsioni sessuali sono anticipate. Sembra scomparsa, o ridotta al lumicino, la cosiddetta fase di latenza. Fenomeni à la James Dean sono diffusi nelle scuole elementari: il bullismo. Bambini di dieci-dodici anni rifiutano di andare a scuola, rimangono, anno scolastico dopo l’altro, incollati al letto fino alle due del pomeriggio, poi, vampiri postmoderni, escono fino alle cinque o rimangono davanti al computer fino alle sei, fino al momento del ricovero psichiatrico, verso i diciotto.

 

Invero ciò non investe affatto la sola società occidentale opulenta; nei luoghi della povertà le multinazionali usano bambini per cucire, gli eserciti per sparare, mutilare, sminare i campi. Abbiamo sconfitto il nazismo, eppure è come se assistessimo a una memoria isterica della Shoah che si diffonde in modo planetario e si disloca in luoghi fin troppo prevedibili. Ci sono anche inversioni di tendenza, il Brasile che pacifica le favelas e permette ai giovani di riprendere a studiare, la grande orchestra Simón Bolívar dei bambini del Venezuela.

 

Si tratta di retrodatare tutto di qualche anno, di scavare nel Novecento. Il totalitarismo ha inoculato il virus dello spionaggio intrafamiliare, Erika Mann racconta di come i bambini fossero educati dai nazisti a controllare e denunciare i discorsi pacifisti tra le mura domestiche, in Albania i funzionari governativi di Enver Hoxa andavano nelle classi a canticchiare allegramente “io sono un italiano” e quando un bambino diceva di averla sentita alla radio, la famiglia veniva deportata. Non è questione di buona volontà, quel ch’è stato minato durante il secolo breve è la fiducia, la confidenza, quel che Fornari aveva chiamato codici affettivi materni. Se biologicamente pubertà e adolescenza si sono dislocate diversamente, è forse conseguenza di un fenomeno di lunga durata. I primi sintomi sociali sono rilevati quasi cent’anni fa da Freud in Al di là del principio di piacere.

 

Nel frattempo, dal secondo dopoguerra, si è creato il paradosso dell’adolescenza. Siamo solo noi, come dice una canzone di Vasco. Siamo ormai solo noi, tutti figli del dopoguerra, quelli che hanno cominciato a tredici anni e non sono mai riusciti a smettere. Negli anni ottanta, imparai da alcuni colleghi anziani, e dal mio lavoro, che in molti uomini – più raramente nelle donne – l’adolescenza finiva allo snodo dei quarant’anni: anch’io, chissà, c’ero dentro. Oggi l’adolescenza sta diventando infinita, come in quei sogni in cui ti sembra di svegliarti, ma sei ancora dentro il sogno, sempre di nuovo. Come in una curva asintotica o nei paradossi degli eleati – Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché quando sarà giunto al punto dove sta ora la tartaruga, lei sarà avanzata di un po’, così all’infinito. L’adolescenza sembra un fenomeno di dilatazione infinita, comincia a dieci anni, forse a otto, e non finisce mai.

 

Quasi vent’anni fa avevo accettato un incarico di consulenza agli operatori presso una casa famiglia. Ricordo un paziente che viveva là, L’eone il nome, cartella clinica numero due dell’istituto sanitario, fondato negli anni Trenta, ove entrò a tre anni. Allora catalogato oligofrenico, aveva vissuto tutta la vita dentro la comunità. Quando lo incontrai aveva passato i sessanta e m’invitò nella sua cameretta. Mi mostrò i suoi peluche, i trasformer, il trenino elettrico, i giornaletti pornografici sotto il materasso, le sigarette, le medicine per gli acciacchi della terza età. Tutto insieme. Se l’umanità contemporanea facesse un sogno collettivo, sognerebbe L’eone.

 

Potremmo dire con Nancy che la comunità dei giovani si è trasformata da comunità operosa, essenziale, a comunità inoperosa. La comparution appare insieme nei discorsi, nel modo di parlare, nelle frequentazioni dei centri commerciali la domenica, negli sperperi automobilistici, in quello che, capovolgendo Elias, chiamerei processo di infantilizzazione. Paradossalmente la gioventù bruciata sta in parlamento, e magari ha passato i settanta. Invece di bruciarsi da sola, ha bruciato la vita degli altri.

 

 

La vaporizzazione paterna è conseguenza della sottrazione di un orizzonte semiotico confidenziale, affettivo, fiducioso, che viene da lontano. Il padre non evapora solo nell’assenza. Più spesso nell’eccesso di presenza, violenta, intrafamiliare; nei toni sopra le righe. Segni paradossali, di auto-delegittimazione. La funzione di un padre che grida, comanda senza dialogo, picchia, e poi fa l’adolescente, mostra la propria delegittimazione. Tuttavia la sua origine sta nella scomparsa dell’amore, dunque del futuro. Nella funzione spionistica interiorizzata. Se il padre fa l’adolescente, la madre è costretta a controllare la sua posta elettronica, il cellulare. Così la fiducia, che è ciò che permette l’amore, svanisce. Si entra nel regno delle prove, delle dimostrazioni, del controllo. Questa comunità inoperosa con-pare. Si presenta senza radici, senza origini. Perché le origini sono rimosse, sepolte nelle lealtà invisibili ai propri antenati, stirpi che si combattono in nome di mitologie ancestrali.

 

Anche i sogni cambiano, sempre più spesso chi sogna tiene sotto controllo, eroicamente o meno, un combattimento, un conflitto, come accade nei sogni infantili e adolescenziali. E, come allora, tanto più durante la vita desta, l’assoggettamento a modelli di consumo, scorrettezze aziendali e professionali, modelli familiari in cui deve apparire fuori che tutto va bene, oppure si sceglie di girare la testa dall’altra parte per non vedere quanto accade all’altrui persona.

 

Eppure gli studenti protestano ancora, non lo fanno per avere aule adeguate, o per contrastare il baronato accademico che oggi è vivo più che mai, non lo fanno neanche per una società più libera, o per cambiare il governo. Lo fanno, forse timidamente, per affermare che, nonostante tutto, i giovani sono loro, per essere ancora essenzialmente loro, comunità operosa. Per questo vengono picchiati dal potere. Rivendicano la dissidenza, in un’epoca in cui lavoro non ce n’è, l’amore si fa in tre e l’avvenire è un buco nero in fondo al tram.

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