Steve Jobs, Buddha e Gesù Cristo

13 Marzo 2014

Il titolo del piccolo libro di Antonio Guerrieri – novantasei pagine nella collana Il caffè dei filosofi – è almeno in parte fuorviante. La Premessa (pp. 7-13) e il primo capitolo (Apple come ‘culto del brand’ ed ‘esperienza religiosa’, pp. 13-53) mettono il lettore di fronte al fatto che la scelta del nome Apple fu in buona sostanza frutto del caso (p. 12) e che dietro il nome esperienza religiosa si cela una definizione volutamente ampia. Eccola:


Una definizione della religione dovrebbe tener conto del fatto che in genere i fenomeni religiosi presuppongono una relazione triangolare da un dato teologico o ideologico (la dimensione della parola sacra, della credenza, della dottrina, della riflessione teologica), un dato pratico o rituale (la dimensione dell’azione) e la base sociale delle credenze e delle pratiche (dal momento che non esiste una religione individuale). Ciò che dà vita a questo sistema di relazione è una peculiare esperienza, quella religiosa sulla quale ritorneremo tra poco, che rimanda alla centralità della dimensione emozionale. Su questa base sono naturalmente possibili varie definizioni, riconducibili in sostanza a due tipi: o autodefinizioni, del tipo «la religione è l’incontro col Sacro», in cui si rimane all’interno del campo religioso, in una sorta di tautologia, dal momento che il definiens (in questo caso il sacro) esigerebbe a sua volta di essere definito, circolarità interpretativa che la tradizione fenomenologica e della filosofia della religione d’ispirazione kantiana ha impostato nei termini, variamente configurati, dell’a priori religioso; o eterodefinizioni, che, più correttamente dal punto di vista lessicologico, spiegano il definiendum non noto con un definiens noto. Queste ultime vengono anche dette definizioni funzionali, dal momento che la religione vi è precisata a seconda delle funzioni che l’interprete di turno le assegna [p. 33 e nota 44, da G. Filoramo, Che cos’è la religione. Temi, metodi, problemi, Einaudi, Torino 2004, pp. 87-88].

 

Apple come esperienza religiosa parla poco di Apple e, forse, ancor meno di esperienza religiosa (la cui definizione resta, mi pare, sfuggente), mentre non può fare a meno di occuparsi dell’eroe fondatore, Steve Jobs, attraverso le sue agiografie (soprattutto W. Isaacson, Steve Jobs, Simon and Schuster, New York 2011; trad. it. Mondadori, Milano 2011 e successive ristampe).

 

 

Riprendendo il racconto agiografico e meraviglioso di Isaacson, Guerrieri dà ampio spazio all’idea secondo la quale il giovane Jobs e i suoi amici «prendeva[no] lo Zen molto seriamente» (p. 55), tanto seriamente da arredare una stanza «con poster indiani, candele, incenso, cuscini, ecc.». Jobs fece anche un viaggio in India e avrebbe coltivato anche l’idea di recarsi in Giappone; fu dissuaso dal suo «assistente spirituale» che – con molto buon senso – lo convinse che avrebbe potuto trovare ciò che cercava anche negli Stati Uniti.

 

Fino a che punto questo «buddismo à la carte» ebbe davvero influenza sul futuro guru di Apple? È possibile chiarire meglio i legami tra una dottrina (non importa quale) e un’estetica (decisamente mercantile)? Con lo stesso buon senso che ispirò l’«assistente spirituale» di Steve Jobs, Antonio Guerrieri ricorda che il minimalismo non è certo una prerogativa del “buddismo zen” (p. 57), come non lo è il ruolo assegnato all’intuizione. Non è necessario viaggiare attraverso l’India per accorgersi che «anche l’Occidente non ha del tutto disdegnato il valore dell’intuizione» (nota 95 p. 59), né essere eccessivamente pignoli per accorgersi che i fantomatici richiami ai «principi dell’arte e dell’estetica zen» sembrano «meglio rintracciabili nella ricerca estetico-funzionale di Apple dal ritorno di Jobs (1996) in avanti» (p. 65).Quarant’anni prima, nella serie Mythologies, Roland Barthes aveva scritto parole che qualunque CEO di Apple utilizzerebbe per una campagna pubblicitaria:


Si sa che la levigatezza è sempre un attributo della perfezione perché il suo contrasto tradisce un’operazione tecnica e tutta umana di connessione: la tunica di Cristo era senza cuciture, come le aeronavi della fantascienza sono un metallo senza saldature (nota 111 p. 69).


Importa poco che queste parole si riferiscano a una delle auto meglio riuscite della Citroen, la DS 19, e che risalgano al 1957. Nel libro di Guerrieri, esse si trovano al termine del capitolo Minimalismo e zen (pp. 54-74), poco prima delle poche pagine dedicate agli evangelisti del Macintosh (pp. 74-81), e funzionano da introduzione all’ultimo capitolo, Steve Jobs come Messia (pp. 81-95). Se la levigatezza è una delle ragioni del successo dei prodotti Apple, la tunica di Cristo senza cuciture è una delle possibili spiegazioni delle mitologie che si sono create intorno a Steve Jobs subito dopo la sua morte.

 

 

Se, come ha sostenuto Guerrieri citando Filoramo, la vera caratteristica dell’esperienza religiosa è la «centralità della dimensione emozionale», la morte di Jobs funzionò da detonatore per qualcosa di più banale (il ricorso estensivo a parole come “messia”, “vangelo”, “culto” e “religione”) e per qualcos’altro di più profondo. Questo altro riguarda due accostamenti, nel linguaggio del mito, tra Steve Jobs e Buddha (segnalato da Antonio Guerrieri) e tra Jobs e Gesù Cristo (non ricordato da Guerrieri).

 

Cominciamo, per finire, con Buddha (p. 95 e nota 151: J. Hookway, “Thai Group Says Steve Jobs Reincarnated as Warrior-Philosopher”, 31.8.2012, europe.wsj.com). Un anno dopo la morte di Jobs, forse su richiesta di un ingegnere della stessa Apple, un anziano monaco buddista thailandese affermò che il visionario di Cupertino si era reincarnato in un guerriero-filosofo, un essere divino sulla quarantina, molto bello, leggermente scuro di pelle, con conoscenze speciali e uno spiccato interesse per scienza e materie umanistiche. Vivrebbe in un palazzo di vetro e argento a sei piani non distante dalla sede californiana di Apple, attorniato da venti assistenti non dissimili dai Genius degli Apple Store, i quali tra l’altro provvedono a fornirgli da bere e da mangiare.

 



Jobs sarebbe dunque “sopravvissuto” indossando la tunica di un guerriero-filosofo non troppo distante dalla sede centrale di Apple. Tra tutte le mitologie su Jobs, quest’ultima appare seconda – e per molti aspetti simili – solo a quella che, dopo la sua morte ha unito le sue agiografie con l’immagine di Gesù Cristo e la reincarnazione. La prima edizione della biografia (agiografica) di Steve Jobs aveva una copertina nella quale il fondatore di Apple assomigliava moltissimo al pensatore della tradizione classica e al Cristo pantocratore:

 

 

In una successiva ristampa non cambia la postura, ma l’età:

 

 

Questo cambiamento non ha, se ho visto bene, riguardato solo l’Italia. L’esperienza religiosa come fattore emotivo ha consentito senza troppe difficoltà di trasformare il Cristo pantocratore in un giovane “guerriero-filosofo”.

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