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Un verso, la poesia su doppiozero / Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

25 Gennaio 2017

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono.

Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi. Il verso, molto noto, apre il sonetto XC del Canzoniere di Petrarca. Un sigillo e quasi un’impresa della poesia petrarchesca: il verbo sdrucciolo d’avvio – erano – che dispone l’immagine in un tempo imperfetto, allontanando quel che è rappresentato; la figura che subito riempie la scena non con tutto il suo corpo ma solo con il movimento e il colore dei capelli; l’oro che designa la luce secondo un modo dell’arte figurativa che dai bizantini giunge al gotico di Simone Martini e andrà verso Botticelli, via via profanizzandosi nella biondità dei capelli. E ancora, la presenza di un vento leggero che non nominato sottrae la rappresentazione alla sua fissità iconografica consegnandola a un movimento del corpo. Infine la pronuncia del nome di lei, Laura, affidata al giuoco della lettera, all’omofonia (l’aura) che è anche un senhal, un timbro proprio che definisce la figura, ed evoca insieme vento e luce. 

 

Un verso, dunque, di luce, che indica la bellezza. Una luce che non è solo nell’oro dei capelli ma anche nel lume degli occhi che “oltra misura ardea”, come dice il terzo verso. Ecco allora la quartina alla quale fa da incipit il nostro verso :

 

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi

che ’n mille dolci nodi gli avolgea,

e ’l vago lume oltra misura ardea

di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi.

 

L’oro dei capelli e la luce degli occhi raccoglie una tradizione della poesia d’amore, che giunge dalle rime dello Stilnovo e di Dante e dalla poesia trobadorica, una tradizione che Petrarca rifonda con mille variazioni, consegnandola alla poesia d’amore successiva (fino alle tante modulazioni del petrarchismo europeo del Cinquecento). Elemento proprio di questa poesia d’amore è la corrispondenza tra la luce degli occhi, o dell’intera figura, e la cosmologia, e questo sia nella variante teologica che lega il lampo degli occhi al fulgore divino, sia nella variante fisiologica della teoria degli umori che passano attraverso lo sguardo, attraverso l’incontro di sguardi, sia ancora attraverso l’implicazione di tutti i gradi di un sentire abitato dalla fascinazione e dal lavorio di un’immagine. Il figurante luminoso in Petrarca si svolge secondo la linea che risale all’“electa ut sol” – fulgida come il sole – del Cantico dei Cantici, cioè secondo un registro che privilegia le gradazioni della luce diurna, e figurativamente il biondo e il chiaro. Nel Cantico biblico la sposa, Sulamith, è definita “pulchra ut luna, electa ut sol”, bella come la luna, fulgida come il sole. Nel paragone c’è il germe dei due modi con i quali la poesia d’amore occidentale raffigurerà il femminile: la luce lunare, notturna, e quella solare, diurna, la bellezza che è in relazione con il sole e quella che è in relazione con la luna (Leopardi rovescerà il paragone, e sceglierà per la luna attributi della poesia d’amore, considerando l’astro, secondo una mitografia classica, come donna). 

 

John William Waterhouse – Rose selvatiche

 

Torniamo al verso di Petrarca : Erano i capei d’oro a l’aura sparsi. L’aura e la donna (sulla prima sillaba del suo nome cade uno degli accenti dell’endecasillabo) sono la stessa cosa. In questa congiunzione del volto con gli elementi naturali si esalta l’apparizione, l’inatteso dell’apparizione, ma anche la condizione celestiale, oltreumana, di quell’apparizione, che le due terzine del sonetto poi descriveranno nei particolari. Ma sulla luce dell’apparizione l’ultimo verso della quartina ha già sovrapposto l’ombra del passaggio, del tempo che trascorre, della bellezza che declina (“di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi”). Tutto il Canzoniere, del resto, con le sue rime in vita e in morte di madonna Laura, si svolge secondo questo dialogo della luce e dell’ombra, che è anzitutto un dialogo temporale tra l’apparizione, da una parte, che genera turbamento, sogno, desiderio, contemplazione, e la sparizione, dall’altra parte, che genera un’interrogazione amarissima sul passaggio (non si dimentichi il dialogo del poeta con Agostino messo in scena nel Secretum), sulla vanitas, sulla cenere. E nel cuore della stessa meditazione, tuttavia, ecco prender forma il nuovo tempo che l’atto del ricordare edifica, un tempo – il tempo della poesia – che si riempie di immagini, di movenze, di gesti, di sguardi, ravvivando un sentire sottratto all’oblio. Qui, in questi versi, questo dialogo si modula nel rapporto tra la luce dell’apparizione e il tempo sopravvenuto che ha attenuato quella luce e forse incrinato quella fulgida bellezza.

L’“erano” d’apertura ritorna, con il rimpianto di una lontananza irreversibile, nelle due terzine, svolgendosi in esse il movimento fisico della figura – il cammino e la parola, oltre che lo sguardo – e il suo legame con l’inattingibile altrove.

 

Non era l’andar suo cosa mortale,

ma d’angelica forma; et le parole

sonavan altro, che pur voce humana.

 

Uno spirto celeste, un vivo sole

fu quel ch’ ’i vidi: et se non fosse or tale,

piagha per allentar d’arco non sana. 

 

Le Rime dantesche sono qui presenti, come del resto in quell’“angelica forma” c’è memoria dell’“angelica sembranza” di Cavalcanti (“Angelica sembranza /in voi, donna, riposa” , diceva la prima Ballata indirizzata appunto a Dante e che iniziava con “Fresca rosa novella”). Il sintagma riapparirà con Leopardi: l’ “angelica sembianza” del Pensiero dominante, che è a mio parere la più bella poesia d’amore della nostra lingua. Nel sonetto di Petrarca il movimento della figura, il suono delle parole, e la luce che accompagna l’incedere (il “vivo sole” riporta con evidenza la figurazione cosmologica) appartengono a una celestialità che comunque rinvia al tempo dell’apparizione (“fu quel ch’ ’i vidi”), un tempo già stato. Tuttavia il tempo trascorso, quand’anche avesse attenuato quella luce, non può rimarginare la ferita apertasi con la luminosa apparizione. L’amore, anche nella distanza temporale dalla visione, persiste. In Petrarca gli elementi “angelici” e la luce della perfezione si espongono al declino, e però questo passaggio non cancella la sofferenza per la loro assenza. Leopardi, nel suo commento alle Rime del Petrarca, sempre sobrio ed essenziale, per gli ultimi due versi di questo sonetto così parafrasa, dispiegando : “E posto che Laura oggi, per età, ovvero per malattia, non sia più quale io la vidi allora, non segue perciò che l’amor che io le presi in quella occasione, debba oggidì essere spento, perocché lo allentare dell’arco non salda la piaga che esso arco avrà fatta”. Non è eterna la bellezza, quel che resiste è la ferita. 

 

 

Un verso:

L'amor che move il sole e le altre stelle

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

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