Invito al viaggio / Visa Transit di Nicolas de Crécy

9 Febbraio 2020

È l’estate del 1986, l’estate seguente all’incidente nucleare di Chernobyl, quando due ragazzi francesi decidono di partire in auto verso l’Asia, attraversando l’Italia, varcando la Cortina di ferro, per poi scendere verso i Balcani e la Turchia. L’auto su cui viaggiano è una vecchia Citroën Visa, rimessa in sesto per l’occasione e dotata di un Radar 2000 piazzato sul cruscotto. Completano l’equipaggiamento una biblioteca ambulante, fissata sul lunotto posteriore, e un preziosissimo zainetto rosso che contiene “tutte le cose più importanti: la macchina fotografica, le chiavi, i documenti, i passaporti”. Nicolas de Crécy, affermato autore di bande dessinée, ci riporta indietro di più di 30 anni in questo memoir autobiografico, al viaggio intrapreso all’epoca insieme al cugino Guy. Il primo volume è uscito da poco per Eris Edizioni, il secondo è in arrivo nell’autunno 2020.

 

 

C’è una buona dose di nostalgia nelle pagine di Visa Transit, anche se è rivolta verso un passato a cui non si vorrebbe per davvero tornare. Un’Europa ancora divisa in due, piena di frontiere, e un modo di viaggiare oggi impensabile: senza navigatori gps, senza telefoni e senza nemmeno prendere l’autostrada. Lo si capisce dal modo in cui de Crécy racconta il passaggio in Italia: ritroviamo un Paese ancora industriale, dove alla bellezza del paesaggio si mescolano fabbriche grigie, mentre nelle città le facciate dei palazzi sono “annerite, ricoperte da una patina di ossido di azoto, di monossido di carbonio e metalli pesanti”. Più che per come erano le cose allora, la nostalgia di de Crécy è per la sensazione di avventura, di libertà e autonomia data dal viaggio, ad esempio l’autore non può non ricordare con affetto “il leggero nervosismo” nel passare da un Paese all’altro.

 

 

Visa Transit potrebbe proseguire così, in modo lineare, seguendo l’itinerario dei due ragazzi nell’Europa di allora, accompagnandolo con gli aneddoti che ogni viaggio di quel tipo porta con sé. Ma le cose non sono così semplici in questo fumetto. Lo si capisce quando, nel mezzo della pianura padana, compare Henry Michaux, il poeta belga vicino al surrealismo e noto per i suoi esperimenti letterari a base di mescalina e Lsd. Viaggio in Gran Garabagna (Quodlibet, 2010) di Michaux, cioè il resoconto di un viaggio in una terra che non esiste, è del resto “il solo libro al quale tenevo veramente”, ci racconta de Crécy, “non lo avevo portato, essenzialmente lo sapevo a memoria”. Michaux compare per ricordare all’autore che “il tempo non è lineare”, in una scena in cui de Crécy ha contemporaneamente 20 e 50 anni: è qui che cominciamo a capire che Visa Transit non è un semplice libro di viaggio.

 

 

Si potrebbe dire che Visa Transit non è un fumetto su un solo viaggio, ma un fumetto sul viaggio, o meglio sul misto di spaesamento e di libertà che ci prende quando siamo lontani da casa. I salti temporali dell’autore ci riportano infatti ai viaggi in auto, fatti da bambino con la famiglia, nelle campagne della Borgogna, dove ci si poteva addormentare sul sedile posteriore cullati dalle curve oppure scrutare la notte alla ricerca delle luci delle case isolate. E un intero capitolo di Visa Transit è dedicato a una vacanza in colonia, negli anni ’70 in un antico monastero in un paese dell’alta Loira. È la prima volta in cui un Nicolas de Crécy, ancora ragazzino, si ritrova lontano dalla famiglia, ma già allora era accompagnato dal cugino Guy.

 

 

“Ci restano solo una quindicina di foto del nostro viaggio”, scrive a un certo punto de Crécy, “i soli elementi che testimoniano che una realtà è avvenuta davvero. Tutto il resto è riposto da decenni in un cassetto mentale vicino all’ippocampo”. Ma dato che l’autore ha scelto un poeta surrealista come nume tutelare del suo viaggio e del suo racconto, ogni tanto, come lettori, siamo autorizzati a dubitare. Di fronte a stazioni di servizio che scompaiono nel nulla, a una Citroën Visa che si ripara da sola, o all’incontro, alla frontiera tra Bulgaria e Turchia, con una lunghissima fila di carri armati sovietici, ci viene da pensare: quanto di quello che de Crécy ci mostra è successo davvero? Quanto è stato deformato in quei cassetti della memoria? Quanto è stato limato, aggiustato, affinato in anni di racconti, per funzionare meglio come storia? Anche questo è forse un modo per celebrare la libertà di quel viaggio. “Era un altro secolo”, dice ancora de Crecy, “nessuno sapeva dove eravamo o dove andavamo. Una cartolina inviata allora sarebbe arrivata dopo il nostro ritorno: eravamo liberi”.

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