Massimo Bucciantini / Un Galileo diviso nella Milano del boom

23 Novembre 2017

Nella pedagogia progressista degli anni Settanta era quasi inevitabile che genitori e insegnanti ci spedissero ad assistere a uno spettacolo del Piccolo Teatro. Si cominciava alle elementari con l’Arlecchino servitore di due padroni a cui seguiva, più grandicelli, La tempesta o I giganti della montagna piuttosto che un Brecht a scelta. Per noi il Piccolo era, con una crescente insofferenza, “il” teatro della città, anche se l’attesa per la nuova sede – i lavori durarono quasi vent’anni – fu il simbolo di un periodo di declino della città. Nel frattempo avevano fatto in tempo a morire Paolo Grassi (1919-1981) e Giorgio Strehler (1921-1997), i dioscuri che avevano fondato il teatro nel 1947, mettendo in scena L’albergo dei poveri di Massimo Gor’kij nel fervore della Milano che rinasceva dalle macerie. Erano entrambi giovanissimi, ma non privi di esperienza. Strehler aveva cominciato negli anni di guerra e nell’esilio svizzero a scrivere di teatro e a proporre gli spettacoli dei nuovi autori della drammaturgia internazionale.

 

Antonio Greppi, il sindaco socialista della Liberazione di Milano, aveva invece incaricato Grassi, critico teatrale de «L’Avanti», di celebrare il 14 luglio 1945, anniversario della Bastiglia, con una grande festa popolare. Questi allestì al Parco Sempione sette piste da ballo, convocò nove orchestre e disseminò per i cortili della città decine di orchestrine amatoriali. Cominciò così la sua carriera di manager culturale, forse il migliore che l’Italia abbia mai avuto. I due, accomunati dalla militanza nel Partito Socialista, erano candidati credibili e autorevoli per aprire un teatro che offrisse alla città un luogo dove mettere in scena i nuovi autori della scena internazionale (Brecht, Töller, Thorton Wilder, Camus), rinfrescare i classici, far debuttare una nuova leva di attori, ma a entrambi era chiaro fin dall’inizio che non solo di questo si trattava, come dichiarò anni dopo Grassi: “ci pare di aver fatto opera appunto non soltanto teatrale ma ben più ampia… è un po’ una battaglia comune che tutti combattiamo per dare un vero senso a questa nostra società e a questo momento storico”. Greppi assegnò loro il cinema-teatro Broletto in via Rovello, nel cuore della città, dove c’era stata la sede, durante la guerra, dell’efferata legione repubblichina Ettore Muti. Strehler ricordò poi le “macchie di sangue” che trovarono sulle pareti, a testimonianza delle sevizie nei giorni della R.S.I.

 

L’opera di Grassi e Strehler, il ruolo che attribuivano al teatro nella società, fu opera riformatrice o rivoluzionaria? È quello che ho chiesto a Massimo Bucciantini, autore di Un Galileo a Milano (Einaudi), il giorno della presentazione nella vecchia sede del Piccolo di via Rovello. Erano presenti reduci gloriosi come Umberto Ceriani e Giulia Lazzarini del Galileo di Brecht che Strehler fece debuttare il 22 aprile 1963 nella Milano del boom. Bucciantini, uno tra i nostri massimi storici, autore di libri fondamentali su Galileo, si è occupato negli ultimi anni della memoria laica del nostro paese e in questo libro prosegue le riflessioni cominciate con Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi, 2015; vedi la recensione di Mario Porro). 

 

La sua è la ‘biografia di uno spettacolo’, ma è soprattutto la storia di una ricerca appassionata e appassionante che prende le mosse dalla prima versione del Galileo di Brecht, scritta negli anni dell’hitlerismo imperante, imperniata sul rapporto tra verità e potere, e prosegue seguendo il drammaturgo tedesco nel suo esilio hollywoodiano. Qui Brecht incontra Charles Laughton e, nella versione in inglese, il senso del dramma si sposta, dopo Hiroshima e Nagasaki, sul rapporto tra scienza e potere e sulle responsabilità della scienza. Per la regia pensarono in un primo tempo a Orson Welles, poi la scelta cadde su Joseph Losey, ma lo spettacolo, messo in scena nel 1947, fu accolto freddamente negli Stati Uniti che si apprestavano a diventare maccartisti. Il 1947 è anche l’anno in cui Brecht torna in Europa. Ha già contatti con l’Italia: la casa editrice Einaudi è interessata a tradurlo, anche se Pavese lo trova “troppo sperimentale”. Saranno i buoni uffici di Vito Pandolfi, importante figura del teatro italiano del dopoguerra, a far approdare Brecht nel catalogo Einaudi. Il Piccolo Teatro nasce con uno spirito ‘ciellenistico’, ma è chiaro che negli anni della Guerra fredda e dell’Italia di Pio XII, l’azione di Grassi e Strehler, per natura portati allo sfondamento, ha perimetri abbastanza precisi. Il Piccolo del dopoguerra suscita tanti ricordi nei milanesi che allora avevano vent’anni: non solo passarono grandi attori e furono rappresentati spettacoli memorabili, ma fu anche, dopo il ventennio fascista, una scuola di democrazia e di parola, un luogo, insieme alla Casa della Cultura (nata nel 1945) e al Centro San Fedele, sede dei gesuiti milanesi, dove le diverse anime della città potevano confrontarsi, dove i più giovani misurarono la diversa educazione rispetto a quella ricevuta dai genitori. Una consacrazione fu, nel 1956, la visita di Bertolt Brecht per la prima dell’Opera da tre soldi. I biglietti di congratulazioni che scrisse tornato a Berlino valsero come un’esclusiva per il Piccolo. Altri registi, altre compagnie, volevano mettere in scena Brecht in Italia, ma Grassi e Strehler furono intransigenti nel rivendicare un monopolio scalfito da altre compagnie solo verso la fine degli anni Sessanta. 

 

Col nuovo decennio il clima stava cambiando. Fondamentale per il teatro fu l’abolizione del visto di censura nel 1962. Strehler pensò che era giunto il momento di mettere in scena il Galileo di Brecht. Quello che succede prima, durante e dopo lo spettacolo è il cuore del libro. L’attesa è lunghissima, esasperante. Mentre il teatro è chiuso, Strehler si rifugia a Venezia, in casa di Wally Toscanini, figlia di Arturo, l’eroe della Milano antifascista (forse una proiezione dello stesso Strehler), per preparare le scenografie dello spettacolo. Dai pochi reperti filmati, dalle fotografie di scena, appare evidente che il lavoro dello scenografo Luciano Damiani, allievo di Giorgio Morandi all’Accademia di Bologna, è fondamentale per dare il tono al Galileo. Col regista pensa a un Brecht ‘bianco’, dopo il nero degli anni dell’esistenzialismo e della stessa mise di Strehler (pantalone e dolcevita nero come Fo e Pannella, gli altri Grandi Vanitosi di quegli anni). Damiani schizza uno spazio scenico scientifico, prendendo ispirazione dal Codice Atlantico leonardesco, ma anche dai bianchi e dai grigi di Mondrian (e forse dello stesso Morandi). Il risultato è di grande suggestione, ma nel frattempo l’assenza di Strehler da Milano sta suscitando grande nervosismo. Bucciantini offre un campionario rivelatore e spassoso del rapporto tra il regista e l’impresario. È Grassi a scrivere che non sente più la fiducia reciproca di un tempo, che si lamenta per gli eterni ritardi, ma vale la pena trascrivere per intero la reazione di Grassi quando apprende che Strehler si è comprato un Alfa Romeo Giulietta Spider: “Per carità, Giorgio, fai tu ciò che vuoi e ovviamente comperi la macchina che vuoi. Io però posso dirti che NON DOVEVI prendere una macchina così vistosa, così appariscente, così da pescecane, così poco «marxista», così capricciosa, così di lusso. C’era bisogno di scegliere quel colore? Anche qui mi hai mentito, non dicendomi prima nulla e poi alla mia domanda un’auto una Giulietta normale che sarebbe arrivata e che… c’era già! Sia chiaro, sei padronissimo di fare quello che vuoi. Ma allora non parliamo di fraternità». Tu sai benissimo che QUELLA auto non mi sarebbe piaciuta”.

 

Giorgio Strehler.


Non era quello il momento in cui dividersi tra i due e forse mai lo fu. Per interpretare Galileo Strehler scelse, a scapito di Tino Carraro, Tino Buazzelli che ricordava nel fisico possente Charles Laughton. In teatro, ma anche nelle conferenze di presentazione in giro per la città, promosse da Grassi e tenute dai giovani Veca, Rovatti e da altri giovani studiosi di filosofia, si presentava la figura di Galileo attraverso le monografie di recente pubblicazione di Antonio Banfi e di Ludovico Geymonat. L’oscurantismo clericale, nonostante le aperture del Concilio Vaticano II, le responsabilità dello scienziato – Bucciantini non lo nomina, ma viene in mente la parabola di Robert Oppenheimer, fisico tra i padri della bomba atomica, poi allontanato dal progetto per sospetto di simpatie comuniste e riabilitato, proprio nel 1963, col premio internazionale dedicato a Enrico Fermi –, il sempiterno problema tra individuo e potere, rendevano il Galileo attualissimo. La giunta di centro-sinistra milanese (sindaco il socialdemocratico Gino Cassinis, peraltro valente matematico) era il primo tentativo di laicizzazione della società italiana. Erano anni in cui in città c’erano ancora processioni cittadine, prime comunioni di massa, funerali che interrompevano il fluire della vita quotidiana, figure pubbliche come don Ernesto Pisoni, direttore del quotidiano cattolico «L’Italia» ed erede di don Gnocchi come artefice di un cattolicesimo sociale ‘integralista’. Sopra tutto e tutti governava Giovan Battista Montini, cardinale della città, destinato a diventare Papa proprio nel giugno di quell’anno. Alla Curia milanese la posta in gioco era chiarissima.

 

Lo spettacolo fu un enorme successo: chi nella notte del 22 aprile usciva dal Piccolo Teatro aveva la sensazione di aver assistito a qualcosa di epocale. Ma non fu un successo netto. Lo spettacolo non piacque a Flaiano, Chiaromonte, al giovane Arbasino, a Franco Fortini. Critiche acuminate il cui tratto comune era il fastidio verso la ieraticità, verso la solennità, che indebolivano, secondo loro, la corrosività del Brecht critico sociale. Il vero scontro non fu però con gli intellettuali, ma tra la Milano laica e quella cattolica e avrà conseguenze che si protrarranno nei decenni successivi, una divisione anche geografica tra la Milano del Centro e quella più ‘bianca’ dell’ex contado. La contestazione allo spettacolo, orchestrata dalla Curia milanese e spalleggiata dal vicesindaco democristiano Luigi Meda, trova ampia eco tre le colonne del giornale di Gioventù Studentesca che l’insegnante di religione del Liceo Classico Berchet, don Luigi Giussani, ha fondato con i suoi studenti. Il Galileo di Strehler, seguendo l’interpretazione di Geymonat, è un rivoluzionario a metà, che si arrende alle ragioni della Chiesa. Il regista non può naturalmente alterare il testo di Brecht, ma ne modifica il ritmo. Due sono le scene che, discusse in infuocati consigli comunali, divengono la pietra dello scandalo: la scena del Carnevale e la vestizione del Papa. Meda, figlio di Filippo, uno dei fondatori del Partito Popolare nel primo dopoguerra, si fa portavoce di chi vede nelle due scene – la prima una forma di ribellione alle autorità costituite, la seconda della nefasta simbologia del potere ecclesiastico – un insulto ai valori dei credenti. In ballo ci sono i finanziamenti della nuova stagione del teatro e la decisione di trovare una nuova sede, più consona a un teatro che sta diventando, insieme alla società, di massa. Sullo sfondo ci sono le elezioni politiche del 1963 che attestarono un significativo arretramento della DC e un’avanzata dei partiti laici, le condizioni necessarie per varare il primo governo di centrosinistra. Meda nella seduta decisiva del consiglio comunale fece un discorso che scontentò tutti, ma il risultato fu quello a cui mirava: raddoppiare il finanziamento al Teatro, rimandare sine die la questione della nuova sede. Un esempio di liturgia democristiana da manuale (sia detto con una certa ammirazione).

 

Milano continuò a essere governata dal centro-sinistra, ma Bucciantini offre giustamente un epilogo alla vicenda nel 1968, quando il Movimento Studentesco contestò il Piccolo in nome del nuovo teatro di Carmelo Bene, di Grotowski, del Living Theatre. Commentò poi Strehler: “Una terribile lezione. Scoprirsi un mattino di essere a destra, di essere di retroguardia per tanti, mentre la sera prima ti sentivi a sinistra e all’avanguardia. E non capire come una simile trasformazione fosse avvenuta in ventiquattr’ore”. Lo choc fu fortissimo e Strehler lasciò il Piccolo per qualche anno, senza però abbandonare le sue idee, le sue convinzioni.

Oggi il Piccolo è, insieme alla Scala, il vanto della città, e la fonte a cui sono destinati gran parte dei finanziamenti pubblici, ma nella ricostruzione oleografica di quella storia non si ricordano le morti amare – avvenute entrambe all’estero – di Grassi e di Strehler, estranei ormai a una società che avevano contribuito a formare. Tra i tanti meriti di questo bellissimo libro è di aver aperto archivi, di aver fatto parlare le carte. Scriveva Strehler a Grassi nell’infuocato ’68: “Ogni giorno che passerà il teatro a gestione pubblica troverà sempre maggiori limiti sempre più angusti, in un continuo gioco e peso della politica di corridoio, nelle remore delle amministrazioni locali e statali. A tal punto di impedire ogni azione veramente rivoluzionaria”.

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