Il futuro della moda / Fashion Futuring

19 Ottobre 2020

La pandemia Covid-19 ha spinto stilisti e aziende a riconsiderare la temporalità di moda alla luce dell’indeterminatezza e delle emergenze improvvise. Giorgio Armani, su tutti, ha richiamato l’attenzione sulla dispersività delle collezioni: si sprecano le linee succedanee del marchio principale, mentre tempi e funzioni dei capi non rispondono alle esigenze della vita reale, e, come se non bastasse, i flussi produttivi sono diventati insostenibili per consumatori, ambiente e lavoratori. Il basso costo e la velocità della produzione incidono sul ciclo di vita dei capi e sul ritmo dell’acquisto, considerato troppo veloce, soprattutto se bisogna fare i conti con periodi di lockdown in cui si indossano pochi capi. L’era della moda istantanea, veloce, sembra essere giunta al termine perché, come già illustrato qui, l’eccesso di indumenti comporta la loro distruzione. Troppe collezioni, troppe sfilate, troppo dispendio di risorse inestimabili ormai esaurite ha comportato, complice anche il Coronavirus e il divieto di grandi assembramenti fino a nuovo ordine, la rinuncia di molti stilisti alle pratiche e ai tempi del sistema moda (es. Alessandro Michele per Gucci, Michael Kors, ecc.). L’arbitrarietà della moda forse potrebbe cedere il passo a funzioni e stagioni, intese nel senso di peculiarità climatiche, in modo da immettere sul mercato indumenti che abbiano una relazione di equivalenza causale e di proporzionalità diretta con la vita reale. Forse si sta giungendo a un’era dove le invarianti e i significati vestimentari collimano tra loro, almeno negli spazi e tempi del sistema moda.

 

A tale proposito, Caroline Evans e Alessandra Vaccari, in un volume profeticamente intitolato Il tempo della moda (Mimesis 2019; ed. inglese Bloomsbury 2020) propongono di pensare la temporalità di moda attraverso tre categorie analitiche: tempo industriale, tempo antilineare e tempo ucronico. Per tempo industriale si intende quello della produzione e dunque della stagionalità delle collezioni, parcellizzata, ridotta in pillole per dare al mercato sempre più stimoli di consumo, immettendo a getto continuo innovazioni che rasentano la saturazione. Il tempo antilineare riguarda la capacità della moda di auto-citarsi e di stabilire continui riferimenti con altri sistemi. È il caso dell’incorporazione in una collezione delle silhouette caratteristiche di un’epoca ‒ pantaloni a zampa di elefante anni Settanta, crop top anni Novanta, ecc. ‒ o ancora della risemantizzazione in forma di pattern o decoro dei motivi di un’opera d’arte, dei disegni di un fumetto, del volto di una celebrità. Per quanto concerne il tempo ucronico, il termine ucronia è stato coniato nell'Ottocento sostituendo topos con cronos, rimandando a una visione utopica del passato, una nostalgia di un'età dell'oro. Il tempo ucronico di moda si riferisce alla mitologia e all'immaginario, costruiti tramite la sperimentazione di materiali e modalità di convezione. Di converso, seguendo la prospettiva foucaultiana, la temporalità di moda può essere definita anche eterocronica perché spesso crea una frattura con il tempo tradizionale. Per quanto possano passare di moda, alcuni motivi ritornano a ondate cicliche, e perciò rientrano in uno status di “quasi eternità” e di infinita sedimentazione in testi visivi e verbali deputati alla loro conservazione e diffusione.

 

 

Non a caso Alessandro Michele ha scelto di imprimere su capi e accessori della collezione PE 2020 la parola “eterotopia”, dichiarando apertamente che la moda installa non solo tempi ma spazi “altri”, prodotti dalla cultura, che persistono per un certo periodo. La moda è un altrove che appare isolato per via dei codici e significati arbitrari, ma al contempo rimane penetrabile se ci si impadronisce delle competenze necessarie per comprenderla e incarnarla. Continuando a fare riferimento a Michel Foucault, si può considerare la moda un’eterotopia sviluppata su due polarizzazioni differenti che generano uno spazio illusorio che ha il potere di rendere irreale lo spazio reale, nel senso che lo “disconnette” da necessità e utilità. La moda mira all’equilibrio, all’armonia, alla perfezione, dunque a creare un universo altro, un habitat ideale per i suoi corpi modello, che nel caos del mondo reale sembrano quasi fuori posto. Nell’eterotopia di moda avviene il passaggio dall’immaginario al reale, la visione del designer prende corpo, viene confezionata, diventa linguaggio, si trasforma in essere e in fare. 

Cosa succede quando il mondo chiede alla moda di ritornare ad andare al suo passo e di procedere a una velocità comune?

 

Accade che la moda come la conosciamo oggi va re-immaginata, sia a livello di pratica individuale che collettiva, per poter configurare scenari e futuri sostenibili, oltre che possibili. Alla base di questa prospettiva c’è il concetto di futuring, elaborato dal teorico del design Tony Fry con lo scopo di tessere un legame inscindibile tra moda, etica e sostenibilità. Date queste premesse la sopracitata Alessandra Vaccari ha avviato a dicembre 2019 il progetto “Fashion Futuring” presso l'Università Iuav di Venezia. Ho chiesto a Vaccari di spiegarci cosa l’ha spinta a seguire questo percorso scientifico e provare a quantificare l’impatto di una simile prospettiva scientifica:

 

Fashion Futuring è una ricerca volta a capire come pensare, progettare e vivere la moda tra shock del presente e incertezze sul futuro.

La parola futuro è diventata il motivo conduttore del 2020, soprattutto dopo l’esperienza pandemica. Osservando questo fenomeno dal punto di vista della moda, le domande ricorrenti degli ultimi mesi hanno riguardato i cambiamenti e la sopravvivenza stessa di sfilate fashion week, brand, aziende e distretti produttivi. Questo soprattutto in Italia e riguardo al Made in Italy.

Cercare risposte immediate rispetto all’ansia per il domani non deve però indurre a dimenticare le responsabilità che la moda ha rispetto all’ emergenza climatica, ambientale e alle questioni di sostenibilità sociale. Ciò di cui la moda ha bisogno è un atteggiamento che permetta di affrontare la crisi non solo in termini di resistenza, ma riconfigurando in modo sostenibile i processi culturali e le pratiche che guidano la nostra esperienza della moda. Per migliorare il futuro ci vuole una grande immaginazione e questa è una capacità che la moda ha sempre dimostrato di avere.

 

Effettivamente la pandemia di Covid-19 ha velocizzato la corsa verso il futuro. Lo dimostrano le digital fashion week susseguitesi a luglio 2020, che hanno tracciato una nuova tipologia della comunicazione delle collezioni del sistema moda. Oltre alle forme ormai attestate come fashion film e videoclip (tipo 1), ci sono state le sfilate ad accesso limitato e con il distanziamento tra il pubblico, trasmesse in streaming sui social e sui siti web (tipo 2), o ancora, e qui giungiamo a modalità espressive maggiormente creative, la rappresentazione dei corpi modello nei momenti di vita per cui sono stati ideati i capi della collezione (tipo 3), e le narrazioni-performance artistiche delle maggiori griffe mondiali (tipo 4).

 

 

Tra gli esempi del primo tipo troviamo il mini-film di Dior, diretto da Matteo Garrone, e il videoclip di MGSM; del secondo le sfilate di Etro e Dolce e Gabbana, per cui la coppia di stilisti di origine siciliana ha scelto uno spazio topico della pandemia come i giardini del Campus University dell'Ospedale Humanitas, un ideale punto di “ripartenza”. Il futuro riparte dagli spazi anche per le griffe che hanno scelto di comunicarsi con il tipo 3, documentando i modi e i luoghi migliori per indossare gli outfit: durante la quarantena, perché confinati in casa, siamo stati separati dalle strade, dalle piazze, dalle spiagge, dai prati… da tutti i posti che eravamo abituati ad abitare. In tal senso, Massimo Giorgetti, direttore creativo di MGSM, collabora con il cantante Coez per raccontare a tempo di musica i momenti di vita ideali per sfruttare al meglio capi e accessori della collezione, sostanzialmente un inno alla spensieratezza estiva degli adolescenti composto da tramonti, giochi e sortite improvvisate. La moda va riportata negli spazi del reale che, dopo la pandemia, per riprendere ancora una volta Foucault, sembrano ancora più illusori. Tra gli altri, Alberta Ferretti decide di presentare la sua collezione come un “ritorno all’esterno”, popolando, seppur idealmente, gli spazi vuoti delle città immortalati durante il lockdown. La moda pervade tutta Italia, anche se sembra prediligere Roma e dintorni: Cinecittà per Valentino, Palazzo Sacchetti per Gucci, Fontana di Trevi, Castel Sant’Angelo, Colosseo, Piazza San Pietro, Piazza Navona e Trinità dei Monti per Alberta Ferretti, il giardino di Ninfa per Dior.

Il futuro riparte non solo dagli spazi, ma anche dalle mani, dal saper fare di chi lavora per la moda e nella moda, da un (forse) inedito antropocentrismo. Questo è il secondo leitmotiv della nostra tipologia, fondato sull’affermazione della sartorialità delle collezioni, realizzate da umani per essere indossati da umani. 

 

L’artigianalità è un fattore che spesso passa in secondo piano nel sistema moda, ma continua a resistere e persistere la sua componente del fare, della manifattura del desiderio, vale a dire della creazione di un bisogno dove non c’è. Dunque, narrare la moda serve a giustificare necessità sopraggiunte dopo una manipolazione, un contagio sinestesico finalizzato al voler far acquistare qualcosa di inutile alla sopravvivenza. L’inno alla sartorialità che ho ravvisato in diversi momenti delle digital fashion week dimostra che le visioni distopiche del marketing e della fast fashion possono essere ricodificate dal futuring ritornando all’origine, alla creazione del capo, alla sua cura, non alla sua sovraesposizione.

Alessandro Michele per Gucci, John Galliano per Maison Martin Margiela, Pierpaolo Piccioli per Valentino traspongono il backstage sul mainstage, scegliendo come corpi modello i loro collaboratori, usando le loro voci per interpretare il sentire della collezione, documentando, nel suo farsi, lo sbocciare di un nuovo tipo di speranza. Vengono mostrate le riunioni in telepresenza, le catene di mail, i messaggi sui gruppi Whatsapp, le videochiamate, il tutto per rendere conto del potere dell’interconnessione transmediale e dei modi di incontrare l’altro condividendo uno stesso presente.

 

 


 I punti di vista sono molteplici e ripropongono tutti quelli possibili nella comunicazione a distanza, dalle riprese in prima persona con delle camere poste sul capo di sarti e stylist (Margiela), al display dello smartphone, sino a giungere a quello del device stesso, o meglio a come si appare quando si lavora al computer o al telefono, ripresi dalla sua videocamera. Proiettarsi nell’obiettivo del dispositivo e negli occhi dell’altro ‒ ormai coincidenti ‒ serve a mantenere il contatto con il volto dell’altro, l’unico a prendersi carico della nostra esistenza e a confermarcela, come direbbe Emmanuel Lévinas. Questi volti nelle collezioni vengono messi perlopiù in secondo piano, annullati da un velo nel caso di Margiela, o, con Valentino, dalla sproporzione rispetto al sovradimensionamento del vestito. Il volto della moda post-pandemia è secondario perché necessariamente coperto o mascherato da un dispositivo di protezione, dunque il suo potere comunicativo e caratterizzate passa, per necessità, all’abbigliamento, sempre più dotato di una carica individuante e socializzante. 

 

Non a caso le narrazioni-performance di Margiela e Valentino sono entrambe diretta da Nick Knight, fotografo tra i primi a comprendere la potenza della relazione tra moda e spazio digitale. La centralità dell’indumento, della sua fattura-scultura, non del corpo mediale di chi li indossa, evidenzia che chi contribuisce a una collezione, e per estensione alla fortuna e alla longevità di un marchio, converge in un unico corpo e in un’unica voce, in un Leviatano hobbesiano che rappresenta la complessità e l’armonia del sistema moda.

 

 

Alessandro Michele spiega che dare voce alla forza lavoro del Sistema moda, vuol dire liberarla dall’essere semplicemente un tramite, rendendo la comunicazione non più unilaterale ‒ da uno a molti ‒ ma corale. Il direttore creativo non è più l’unico ad apparire sulle scene, l’unico a saper fare, ma uno dei tratti che costituiscono il valore di un oggetto di moda, composto dall’impegno dei professionisti di tutti i comparti del processo di ideazione e produzione. Il futuro sta nel cambiare punto di vista, nella commistione tra creazione e performance, nella flessibilità di regole, ruoli e funzioni della moda. Michele opera un bricolage di vari tipi di testi: la lookboard del backstage della sfilata, le finestre di Windows ‘98, stralci di riprese della preparazione dell’evento (trasmessa in diretta streaming), il tutto è il risultato di un processo di sedimentazione atto a celebrare la moda nella sua creazione. Svelare il segreto, rivelare il meccanismo di questa macchina che marcia a velocità inesorabile per permetterle di decelerare e di poter avere, finalmente, un impatto sostenibile.

 

Il tratto comune a tutte le collezioni citate è la sottolineatura delle proprietà e delle qualità degli indumenti, della loro purezza materica, della testura e dei volumi, che trascendono il corpo facendosi non più semplice copertura, ma aura. Il mettere prima di tutto l’abbigliamento e la sua creazione descrive una protensione verso un futuro differente. È l’epilogo, per riprendere Michele, di una fase della moda fondata sulla sua retorica, sul suo sembrare, e il passaggio a un’era dell’essere. 

La storia dei vestiti coincide con la loro creazione, non c’è più bisogno di occasioni e giustificazioni arbitrarie.

 

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